Oh Allah Gafure-rahim,
Ara hoilam porbashi
Ara hoilam refugee
Ei murar vitore Allah ar koto kal rakbi
Puker, juger horani ar hoto din hadabi
Julumer doriyot pori roilam bashiya bashi
Oo Khuda tui chaile paroj arar Arakanor
Shanti, arar Mog Bormar shanti
Ara hoilam porbashi
Ara hoilam refugee
Ei murar vitore Allah ar koto kal rakbi
Puker, juger horani ar hoto din hadabi
Julumer doriyot pori roilam bashiya bashi
Oo Khuda tui chaile paroj arar Arakanor
Shanti, arar Mog Bormar shanti
Contributed by dq82 - 2016/12/3 - 11:16
Language: English
Traduzione inglese di Farzana
WE HAVE BECOME REFUGEES
Oh Allah,* forgiving and merciful
We are in exile
We have become refugees
For how long will you keep us in this mountain caves
For how long will you make us eaten by insects
We remained adrift suffering from tortures
Oh God make our country peaceful if you wish
Oh Allah,* forgiving and merciful
We are in exile
We have become refugees
For how long will you keep us in this mountain caves
For how long will you make us eaten by insects
We remained adrift suffering from tortures
Oh God make our country peaceful if you wish
* la traduzione trovata traduceva God, qui viene ripristinato Allah, visto che la persecuzione dei Rohingya è proprio su base religiosa, loro Musulmani in uno stato a maggioranza Buddista
Contributed by dq82 - 2016/12/3 - 11:32
Non basta definirsi movimento di liberazione. Talvolta dietro la maschera indipendentista si celano nuove oppressioni e ingiustizie nei confronti della stessa popolazione che si dichiara di difendere. Vecchia storia peraltro.
I PROFUGHI ROHINGYA IN BANGLADESH SOTTOPOSTI ANCHE ALLE ANGHERIE DELL’ARSA (Arakan Rohingya Salvation Army)
Gianni Sartori
Quand’è che con un movimento di liberazione rischia di trasformarsi in milizia e dalla difesa della popolazione passa prima al controllo e poi magari alla repressione?
E quando avviene che un gruppo sorto per l’autodifesa diventa setta sanguinaria?
O anche: quand’è che un sindacato (capita talvolta, vedi negli USA) si trasforma prima in corporazione e poi (sempre talvolta negli USA) in organizzazione mafiosa?
Non sempre, ma talvolta succede.
Troppe volte a dire il vero, anche ai migliori (ma perlomeno in passato rimandavano alla presa al potere).
Ricordate le parole di Mandela appena uscito dal carcere dove si coglieva un preciso riferimento alle discutibili azioni intraprese dalla moglie Winnie (peraltro militante antiapartheid di primo piano)?
Non mi riferisco a qualche “deviazione, sbavatura o deriva militarista”. Ma a qualcosa di strutturale, definitivo. Una degenerazione irreversibile. Come avvertiva ancora negli anni settanta Jean Ziegler quando scriveva che “il rivoluzionario è un uomo di passaggio”, non certo immune o vaccinato dai virus del potere, della violenza.
Detto questo, ricordarsi di resistere, ma anche di vigilare.
E’ notizia recente che nei campi profughi Rohingya in Bangladesh, soprattutto in quelli di Ukhia e Teknaf (nella zona di Cox’s Bazar dove in una trentina di campi vivono circa un milione e duecentomila rifugiati di religione musulmana), la milizia denominata ARSA (Arakan Rohingya Salvation Army) agisce molto violentemente. Sia contro altri profughi Rohingya (considerati dissidenti, oppositori), sia nei confronti degli abitanti del luogo (con sequestri a scopo di estorsione e saccheggi), una popolazione essenzialmente contadina e pacifica. Stando ai dati ufficiali, diffusi dalle forze dell’ordine, dal 2018 vi sarebbero almeno 120 casi di persone assassinate e oltre duecento sequestrate.
Una precisazione. L’ARSA (Arakan Rohingya Salvation Army, nato come movimento indipendentista, ma in seguito destinato a subire l’influenza del radicalismo islamico) si richiama all’Arakan (oggi denominato Stato Rakhine), una regione nell’ovest del Myanmar. Abitata in prevalenza da Rohingya, ma da cui in gran numero son dovuti fuggire a causa delle persecuzioni governative di natura settaria (sia etnica che religiosa). Non è poi irrilevante che il fondatore, Ataullah Abu Ammar Junjuni (nome di battaglia Hanz Tohar) sia nato in Pakistan. Così come altri esponenti, figli di rifugiati (quindi di seconda o terza generazione) che a migliaia si erano riversati in Pakistan vivendo in condizioni disagiate e precarie, sia dal punto di vista umanitario che sanitario ed educativo.
Inoltre già da alcuni anni (almeno dal 2018) nei campi profughi si svolgerebbero attività di propaganda e reclutamento da parte del gruppo islamista Jamaat-ul- Mujahideen.
I fatti più recenti risalgono all’8 gennaio 2023 quando è stato assassinato Mohammad Salim. Invece un altro leader locale, Abdul Basar (dopo essere stato minacciato di fare la stessa fine del suo amico, Ahmad Rashid, ucciso recentemente) ha dovuto rifugiarsi in un luogo segreto. Risale invece a oltre un anno fa l’uccisione di un altro leader Rohingya, Muhibullah.
Stando sempre ai rapporti ufficiali, le forze dell’ordine del Bangladesh non sarebbero in grado di agire efficacemente contro tale milizia che avrebbe le proprie basi (oltre che nel Myanmar) lungo la “Linea zero” (area di Tumbru) sul confine tra Bangladesh e Myanmar. Altre basi sarebbero nascoste nelle foreste di Teknaf.
L’ARSA sarebbe in grado di autofinanziarsi con il contrabbando, (soprattutto di oro) e il narcotraffico ( vedi la “droga della pazzia”).
Nello stesso periodo di inizio anno, quattro contadini venivano sequestrati a Lechuaprang e - almeno finora - soltanto tre sono stati rilasciati dopo il pagamento di un riscatto di 600mila taka (oltre cinquemila euro). Per liberare anche l’ultimo veniva richiesto un milione di taka (novemila euro).
Ovviamente tutto questo non può fare altro che alimentare l’ostilità delle popolazioni indigene nei confronti dei rifugiati. Molti dei quali comunque (a causa sia delle difficili condizioni in cui versano, sia per le prepotenze subite dall’ARSA e da altri gruppi armati) vedrebbero favorevolmente un ritorno in Myanmar, nel Rakhine.
Significativo che le milizie si oppongano invece a tale soluzione. Temendo forse, qualora i campi profughi di svuotassero o comunque ridimensionassero, di perdere una fonte di reddito e un potenziale “serbatoio” di aderenti.
Gianni Sartori
I PROFUGHI ROHINGYA IN BANGLADESH SOTTOPOSTI ANCHE ALLE ANGHERIE DELL’ARSA (Arakan Rohingya Salvation Army)
Gianni Sartori
Quand’è che con un movimento di liberazione rischia di trasformarsi in milizia e dalla difesa della popolazione passa prima al controllo e poi magari alla repressione?
E quando avviene che un gruppo sorto per l’autodifesa diventa setta sanguinaria?
O anche: quand’è che un sindacato (capita talvolta, vedi negli USA) si trasforma prima in corporazione e poi (sempre talvolta negli USA) in organizzazione mafiosa?
Non sempre, ma talvolta succede.
Troppe volte a dire il vero, anche ai migliori (ma perlomeno in passato rimandavano alla presa al potere).
Ricordate le parole di Mandela appena uscito dal carcere dove si coglieva un preciso riferimento alle discutibili azioni intraprese dalla moglie Winnie (peraltro militante antiapartheid di primo piano)?
Non mi riferisco a qualche “deviazione, sbavatura o deriva militarista”. Ma a qualcosa di strutturale, definitivo. Una degenerazione irreversibile. Come avvertiva ancora negli anni settanta Jean Ziegler quando scriveva che “il rivoluzionario è un uomo di passaggio”, non certo immune o vaccinato dai virus del potere, della violenza.
Detto questo, ricordarsi di resistere, ma anche di vigilare.
E’ notizia recente che nei campi profughi Rohingya in Bangladesh, soprattutto in quelli di Ukhia e Teknaf (nella zona di Cox’s Bazar dove in una trentina di campi vivono circa un milione e duecentomila rifugiati di religione musulmana), la milizia denominata ARSA (Arakan Rohingya Salvation Army) agisce molto violentemente. Sia contro altri profughi Rohingya (considerati dissidenti, oppositori), sia nei confronti degli abitanti del luogo (con sequestri a scopo di estorsione e saccheggi), una popolazione essenzialmente contadina e pacifica. Stando ai dati ufficiali, diffusi dalle forze dell’ordine, dal 2018 vi sarebbero almeno 120 casi di persone assassinate e oltre duecento sequestrate.
Una precisazione. L’ARSA (Arakan Rohingya Salvation Army, nato come movimento indipendentista, ma in seguito destinato a subire l’influenza del radicalismo islamico) si richiama all’Arakan (oggi denominato Stato Rakhine), una regione nell’ovest del Myanmar. Abitata in prevalenza da Rohingya, ma da cui in gran numero son dovuti fuggire a causa delle persecuzioni governative di natura settaria (sia etnica che religiosa). Non è poi irrilevante che il fondatore, Ataullah Abu Ammar Junjuni (nome di battaglia Hanz Tohar) sia nato in Pakistan. Così come altri esponenti, figli di rifugiati (quindi di seconda o terza generazione) che a migliaia si erano riversati in Pakistan vivendo in condizioni disagiate e precarie, sia dal punto di vista umanitario che sanitario ed educativo.
Inoltre già da alcuni anni (almeno dal 2018) nei campi profughi si svolgerebbero attività di propaganda e reclutamento da parte del gruppo islamista Jamaat-ul- Mujahideen.
I fatti più recenti risalgono all’8 gennaio 2023 quando è stato assassinato Mohammad Salim. Invece un altro leader locale, Abdul Basar (dopo essere stato minacciato di fare la stessa fine del suo amico, Ahmad Rashid, ucciso recentemente) ha dovuto rifugiarsi in un luogo segreto. Risale invece a oltre un anno fa l’uccisione di un altro leader Rohingya, Muhibullah.
Stando sempre ai rapporti ufficiali, le forze dell’ordine del Bangladesh non sarebbero in grado di agire efficacemente contro tale milizia che avrebbe le proprie basi (oltre che nel Myanmar) lungo la “Linea zero” (area di Tumbru) sul confine tra Bangladesh e Myanmar. Altre basi sarebbero nascoste nelle foreste di Teknaf.
L’ARSA sarebbe in grado di autofinanziarsi con il contrabbando, (soprattutto di oro) e il narcotraffico ( vedi la “droga della pazzia”).
Nello stesso periodo di inizio anno, quattro contadini venivano sequestrati a Lechuaprang e - almeno finora - soltanto tre sono stati rilasciati dopo il pagamento di un riscatto di 600mila taka (oltre cinquemila euro). Per liberare anche l’ultimo veniva richiesto un milione di taka (novemila euro).
Ovviamente tutto questo non può fare altro che alimentare l’ostilità delle popolazioni indigene nei confronti dei rifugiati. Molti dei quali comunque (a causa sia delle difficili condizioni in cui versano, sia per le prepotenze subite dall’ARSA e da altri gruppi armati) vedrebbero favorevolmente un ritorno in Myanmar, nel Rakhine.
Significativo che le milizie si oppongano invece a tale soluzione. Temendo forse, qualora i campi profughi di svuotassero o comunque ridimensionassero, di perdere una fonte di reddito e un potenziale “serbatoio” di aderenti.
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 2023/1/15 - 19:44
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Note for non-Italian users: Sorry, though the interface of this website is translated into English, most commentaries and biographies are in Italian and/or in other languages like French, German, Spanish, Russian etc.
I racconti dei profughi hanno portato un alto funzionario dell’agenzia dei rifugiati dell’ONU dal Bangladesh a parlare apertamente di “pulizia etnica”, posizione non condivisa a livello ufficiale dall’organizzazione. Una fonte interna alle Nazioni Unite, che ha chiesto a Panorama di rimanere anonima, spiega che nessuno sa cosa stia davvero succedendo. L’ipotesi è quella di una reazione sproporzionata dell’esercito agli attacchi di natura para-terroristica con probabili connessioni locali, a discapito della popolazione civile. Immagini satellitari ottenute da Human Rights Watch danno le prime certezze, mostrando circa 1200 abitazioni bruciate. I militari parlano di una messinscena e rifiutano le accuse di stupro.
“Ricevo telefonate ogni giorno, da persone in fuga. Parlano di violenze e mandano foto. La comunità internazionale deve intervenire, la gente ha fame,” dice invece Tun Khin. L’attivista punta il dito contro Suu Kyi che “non ha nessuna volontà di fare nulla, mentre il suo ufficio vuole coprire quanto sta avvenendo. Secondo Tun Khin, “con questa azione i militari vogliono indebolirla, danneggiare la sua reputazione e mostrare che detengono ancora il potere”.
Panorama
Testo trovato in Farzana, K. F. (2011). Music and Artistic Artefacts: Symbols of Rohingya Identity and Everyday Resistance in Borderlands. ASEAS – Austrian Journal of South-East Asian Studies, 4(2), 215-236.
The song sounds almost like a prayer calling upon ‘merciful’ God and seeking his refuge and help. The song appears to be based on their stateless situation and the suffering experienced by having to hide in the jungles of Arakan and on the mountain in Teknaf, Bangladesh. The song is for the Rohingyas who face constant fear and persecution.
This is reflected in the lyrics, “we remained adrift suffering from tortures”. Their struggles and sufferings in life are also expressed in the plaintive, “for how long will you make us eaten by insects?” The song ends by wishing all a peaceful Arakan, if God is willing. It is amazing to note that they were able to cope despite their adverse situation in life and to keep their hopes alive. Perhaps a tarana works as a form of meditation for them, or, as Tonima noted, it was like their “normal everyday prayer”.
A song can entertain and satisfy their heart on that level.
The song is a medium for a non-literate community to keep alive their history, given that they are unable to notate or transcribe the music or lyrics. Oral transmission of feeling, sentiment, and emotion through songs is thus an excellent means of preserving identity and displaying passive resistance. It is passive because these people have no means to directly confront their oppressors. For them, tarana is a way out of that frustration as well as a means to express it.