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Aušvicate hin kher báro

Růžena Danielová
Langue: tsigane


Růžena Danielová

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Aušvicate hin kher báro interpretata da un coro femminile e dalla cantante gitana slovacca Margita Makulová. Dal film-documentario Latcho Drom di Tony Gatlif (1993).


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[1944]
Testo di Růžena Danielová
Musica: Tradizionale
Lyrics by Růžena Danielová
Music: Traditional


Interpretazioni/Performances:
Růžena Danielová
Margita Makulová, nel film Latcho Drom di Tony Gatlif (1993)
Malignant Tumour, gruppo grindcore slovacco.

Růžena Danielová.
Růžena Danielová.
Suo marito, Martin Daniel, deportato e ucciso a Auschwitz.
Suo marito, Martin Daniel, deportato e ucciso a Auschwitz.




margitaPer la ricostruzione esatta del testo mi sono basato in primis su quello reperito sul Museo virtuale delle intolleranze e degli stermini, purtroppo assai scorretto e incompleto. La strofa finale è stata desunta dal saggio di Krista Hegburg presentato in commento. Il tutto è stato poi ricontrollato direttamente sul video della canzone interpretata da Margita Makulová (nella foto piccola a lato) nel film "Latcho Drom" di Tony Gatlif, per la ricostruzione della grafia esatta basata sull'effettiva dizione. Si è usata qui per il romanes la grafia comune nella Repubblica Ceca e il Slovacchia, come desunta dall'ampio saggio grammaticale premesso al "Česko-Romský Slovník" (Dizionario Ceco-Romanes) in mio possesso. [RV]

A partire dal 1940, con l'invasione hitleriana della Cecoslovacchia, non soltano gli ebrei ma anche i numerosissimi gitani (rom e sinti) presenti sul territorio della repubblica invasa vivono giorni terribili. Il Porrajmos prende piena forma nel 1942, subito dopo il mortale attentato al Gauleiter SS Reinhard Heydrich e l'eccidio di Lidice; Heydrich stesso, è bene ricordarlo, era stato tra i teorici della "Soluzione finale".

Nel 1943 vengono arrestati e deportati a Auschwitz-Birkenau anche la famiglia di Martin Daniel e di sua moglie, Růžena Danielová (secondo l'uso ceco-slavo, la moglie aggiunge il suffisso -ová al cognome del marito). Růžena è una cantante di valore, come molte donne gitane; in prigionia, separata dal marito, scrive questa canzone in lingua romanes, che diverrà tra le più famose nate in tutto il Porrajmos.

La "grande casa" del testo è ovviamente da intendersi come "grande prigione" (anche in italiano, del resto, si usano ufficialmente espressioni come "casa di detenzione" o "casa circondariale). Nel testo, la moglie pensa al marito e, all'improvviso, gli dà voce; interpreta i pensieri di lui, che sono anche i suoi, affidando ad un "uccello nero" (probabilmente un corvo, o una cornacchia) il compito di portarle le lettere che non poteva spedire.

La fame, la grande fame del lager; e la crudeltà del sorvegliante del blocco, il Blockälter (alla lettera: "anziano del blocco"). Come i famigerati kapò, spesso era scelto tra gli stessi prigionieri. In molte versioni della canzone, la strofa finale, coi due versi ripetuti, è omessa; esprime un sentimento di vendetta, ma riteniamo che tale omissione sia del tutto errata. L'abbiamo quindi volutamente mantenuta. Martin Daniel morì a Auschwitz il 12 settembre 1943, pochi mesi dopo la deportazione; la moglie sopravvisse. Nello stesso campo di Auschwitz morì anche una figlia della coppia, Margarita Danielová.

La fama della canzone fu immediata dopo la guerra, divenendo uno dei simboli stessi del Porrajmos. Nel 1970, il compositore ceco Miloš Štědroň vi si ispirò per la sua sinfonia per viola e orchestra Pláč Růženy Danielové z Hrubé Vrbky nad manželem v Osvětimi ("Lamento di Růžena Danielová di Hruba Vrbka per suo marito a Auschwitz"), ma l'esecuzione più celebre resta quella dell'anziana cantante gitana slovacca Margita Makulová, inserita nel film-documentario di Tony Gatlif Latcho Drom (per la quale si rimanda al video allegato alla pagina). Infine, nel 1998, il gruppo skinhead grindcore slovacco Malignant Tumour ne ha dato una nuova interpretazione, facendo seguire al testo originale romanes una chiusa in inglese.
Aušvicate hin kher báro
Odoj bešel mro piráno
Bešel, bešel gondoliňel
Te pre mande pobisterel.

O tu kalo čirikloro
Lidža mange mro liloro
Lidža, lidža mra romňake
Hoj som phandlo Aušvicate

Ausvičate báre bokha
Te so te chal amen nane
Ani oda koter maro
Le o blocharis bibachtalo.

Joj sar me jekhvar khere džava
Le blocharis murdarava.
Joj sar me jekhvar khere džava
Le blocharis murdarava.

envoyé par Riccardo Venturi - 22/5/2008 - 16:48




Langue: anglais

La chiusa finale in inglese aggiunta dai Malignant Tumour nella loro versione del 1998:

I Malignant Tumour.
I Malignant Tumour.
Not censored memory
Fearful experiences
Holocaust still alive in a mind
Skinheads song
Pain and suffering

Memoria non censurata
Esperienze spaventose
L'olocausto ancora vivo in una mente
Canzone skinhead
Pena e sofferenza

envoyé par Riccardo Venturi - 22/5/2008 - 18:14




Langue: italien

Versione italiana dal Museo virtuale delle intolleranze e degli stermini. La traduzione degli ultimi due versi è tratta dal saggio presentato in commento; in alcuni punti è stata ritoccata.
AD AUSCHWITZ C'È UNA CASA

Ad Auschwitz c’era una casa
E c’era mio marito imprigionato
Seduto, seduto si lamentava
E a me lui pensava.

Oh tu uccello nero
Porta le mie lettere
Portale, portale a mia moglie
Perché sono imprigionato ad Auschwitz

Ad Auschwitz c’era una grande fame
E noi non avevamo nulla da mangiare
Nemmeno un pezzo di pane
E la guardia del blocco è cattiva.

Quando tornerò a casa
ammazzerò la guardia del blocco.
Quando tornerò a casa
ammazzerò la guardia del blocco.

envoyé par Riccardo Venturi - 22/5/2008 - 16:52




Langue: anglais

Una versione inglese tratta da The Patrin Web Journal. La strofa finale è omessa ed è stata tradotta autonomamente.
IN AUSCHWITZ THERE IS A GREAT HOUSE

In Auschwitz there is a great house
And there my husband is imprisoned
He sits and sits and laments
And thinks about me

Oh, you black bird!
Carry my letter!
Carry it to my wife
For I am jailed in Auschwitz

In Auschwitz there is great hunger
And we have nothing to eat
Not even a piece of bread
And the block guard is bad

If I even come back home
I'll kill the block guard
If I even come back home
I'll kill the block guard.

envoyé par Riccardo Venturi - 22/5/2008 - 19:37




Langue: français

Versione francese di Riccardo Venturi, 22 maggio 2008.
IL Y A UNE GRANDE MAISON À AUSCHWITZ

Il y a une grande maison à Auschwitz
où mon mari a été fait prisonnier.
Il reste assis, souffre et se plaint
tout en pensant à moi.

Toi, l'oiseau noir!
Apporte-lui mes lettres!
Apporte-les à ma femme
Car je suis prisonier à Auschwitz.

La faim sévit à Auschwitz,
nous n'avons rien à manger,
pas même un morceau de pain
et le gardien du bloc est méchant.

Si jamais je sors d'ici
je vais tuer le gardien du bloc.
Si jamais je sors d'ici
je vais tuer le gardien du bloc.

22/5/2008 - 19:44


Partially reproduced from: The Veracious Voice: The Romani Holocaust and the Politics of Commensuration in the Czech Republic

Krista Hegburg, Department of Anthropology, Rutgers University

If any of you are familiar with Czech-Romani Holocaust song, you’ve most likely heard “Aušvicate hin baro kher” – “In Auschwitz there is a big prison.” It was sung perhaps most famously - though not exclusively - by Růžena Danielová, a Romani Auschwitz survivor, but even if you haven’t heard Danielová, there are covers – the non- Romani Czech composer, Miloš Štědroň, used the song as inspiration for his 1970s composition, The Weeping of Růžena Danielová of Hruba Vrbka over her Husband, Dead in Auschwitz. More recently, the song has been covered by the Czech noisecore band Malignant Tumour, which, for the record, sings it in the original Romani.

If you’ve ever hear Věra Bílá’s rom-pop rendition of “Čirikloro, Mirikloro,” you’ve heard parts of the song, sung albeit to different purpose. The song also has currency outside of the Czech Lands. In Tony Gatlif’s musical documentary about Roma, Latcho Drom (Safe Trip), for example, it is featured as the sole reference to the Holocaust. Toward the middle of film, Margita Makulová trudges across a snowy landscape while an a capella trio of voices harmonizes off-screen. As they sing in Romany, “O you black bird / Carry my letter,” a black-clad Makulová makes her way toward what looks to be the ruins of Spiš castle in eastern Slovakia.

Makulová’s voice takes over the singing, polyphony resolving into antiphony as she echoes the lines again: Oda kalo čirikloro / Lidža mange mro liloro. As the song’s stanzas shift, the camera captures Makulová seated outside in the snow, her verses describing hunger in Auschwitz, panning slowly from her face down to one hand, then back to her face and on to her other arm. Thus as she sings, “There isn’t anything for us to eat … The Block Elder is evil”, we see her face; when she continues, “once I return home” (Joj sar me jekhvar khere džava), we see her right hand, holding a lit cigarette and a box of matches with a picture of Václav Havel’s face, her thumb partially obscuring the president’s forehead. And on the next line, “I will kill the Block Elder” (Le blocharis murdarava), we see the word murdarava issue from her mouth, echoed as the song’s last stanza repeats its couplet and the camera, on the same word, comes to rest on Makulová’s slightly smudged tattoo that seems to read Z-9267.

If any of you have read Elie Wiesel’s Night in the original Yiddish, this theme of revenge – “I will kill the Block Elder” – will be familiar to you. The survivor of the Yiddish text is, as one literary critic put it, “alive with a vengeance and eager to break the wall of indifference he feels surrounds him.”

If you’ve read Night in French or English translation, however, you have encountered a rather different survivor, one that has become iconic in the American understanding of the Holocaust. The narrative of this figure emerges in a stammer, in between the “silences of the dead,” as Wiesel put it; in the final, spare scene following liberation from Buchenwald, Wiesel famously gazes into a mirror and encounters a corpse whose stare has “never left him.”

This moment closes the book and opens a whole field of understanding of who and how the Holocaust survivor is. In the Yiddish, Wiesel smashes the mirror, and, moreover, writes of “[Jewish boys running off] to steal clothing and potatoes … and to rape the shiksas,” acts which, he says, did not fulfill “the historical commandment of revenge.”

In translation, these scenes are missing, vengeance subsumed by theological musings on the unrepresentability of the Holocaust. These reworkings of the text in translation, Naomi Seidman suggests, are not accidental, or merely shoddy translation. Rather, they point out the conditions under which one can be heard in certain registers – telling an elided version of the story, a story not shot through with the demand for vengeance, was the condition of possibility for being heard as a Holocaust survivor outside the community bound by Yiddish. The Yiddish text and the English and French translations are incommensurable, and not just in the narrow sense of the definition of incommensurability as “a state in which an undistorted translation cannot be produced between two or more denotational texts.” The difference in these texts underscores the fact that incommensurability arises at the interstices of social orders, in moments in which people seek to speak across them.

So what then of Makulová’s song, what of “Aušvicate hin baro kher,” sung in Romany, and capped by an equally unfulfilled “commandment of revenge?” What I want to suggest is that there are two Romani survivors as well, one that addresses a Romany-speaking audience – le blocharis murdarava – and one heard in interpretive translation. My research relates to the way in which these acts of translation and interpretation of accounts of the Holocaust unfold today in the Czech Republic as an emergent liberalism reorders the relationship of the so-called “majority” and “minority” societies, of Czech citizens to their ‘fellow citizens,’ their spoluobčané, of, in short, white Czechs to black Czechs. Specifically, I look at particular accounts of the Holocaust – those put forth in song and those put forth in reparations claims – because they are both pervaded by questions of incommensurability and its tandem term, commensuration – the act of rendering two separate things translatable and coextensive. Commensuration, from an anthropological perspective, is a social practice, a reductive labor necessary to speak across different socials orders. And, again from an anthropological perspective, it is a labor necessary to liberal orders predicated forging a public sphere of consensual reasoning that drives a non-violent democratic form of governmentality and that recognizes and redresses harm done to minority subjects. Minority subjects, that is to say, must hold their suffering up for examination and evaluation by the liberal subject of the
majority to recognize and repair for liberal governmentality to self-correct.

In this context, I’m particularly interested in the Romani survivor non-Romani Czechs are most likely to encounter, and the voice of this survivor, I hold, obtains in practices of commensuration – reductive practices of commensuration – that underpin the interpretation of Romani accounts of the Holocaust. So I’d like to turn next to how this liberal politics of commensuration occurs in reparations programs and also in interpretations of Holocaust song offered by non-Romani Czechs.

Riccardo Venturi - 22/5/2008 - 17:18


Dallo stesso film documentario (Latcho Drom) , da cui è preso il video della canzone.
Video non più disponibile

Silva - 15/11/2013 - 16:15




Langue: tsigane

Altra versione / Other version

Trovo sul sito del Muzeum romské kultury (Museo della cultura Rom) di Brno un'altra versione di questa canzone. Nella galleria delle immagini si vede su un pannello in doppia lingua rom-ceco, con la seguente descrizione: “Una delle versioni della canzone Aušvicate che è stata composta e cantata dai Rom cechi nel campo di concentramento di Auschwitz. Per merito della cantante ed ex-prigioniera R. Danielová (1904-1988) la canzone non è caduta nell'oblio. Dopo la guerra, R. Danielová è stata l'unica della sua famiglia a tornare a casa – ad Auschwitz hanno perso la vita tutti i suoi cinque figli e il marito.”

Expozice Příběh Romů
AUŠVICATE HI KHER BARO

Aušvicate hi kher baro
jáj, o Roma andre phandle
o Roma phandle,
o Romňa také.
Le čhavoren keden...
(lakro hangos phaďol)
le čhavoren keden
… murdaren.

Jaj, o daja pre lende roven,
le čhavoren andro plynos čhiven!
O daja na kamen pre čhaven
te mukhen, hej the dajen tharen
le čhavorenca.

Kole churde čhaven mukhen
the o Romňa pro transportos džan!
O Romňa pro transportos džan
he čhavoren odoj mukhen.

Odoj mukhle he savoren tharde
o daja peskre bala čhinen,
hoj o churde čhavoren
už buter na dikhena!

Džan pre eskorta, avka roven
he už buter pre čhaven (rovel)
na dikhen...

„Kadi gili džal pal o cikne čhave, sar
o daja pal lende rovenas.

Oda sa pes na mušinďa te
ačhel! No, aĺe ačhiĺa pes.“

envoyé par Stanislava - 7/2/2023 - 16:07




Langue: tchèque

Traduzione ceca – dal sito del Museo della cultura rom di Brno
V OSVĚTIMI JE VELKÝ DŮM

V Osvětimi je velký dům jaj,
v něm jsou zavření Romové,
Romové jsou tam zavření,
Romky také.
Děti jim berou
(zpěvačce se lomí hlas)
děti jim berou...
zabíjejí.

Jaj, matky nad svými dětmi pláčou,
děti jim házejí do plynu!
Matky svoje děti nechtějí pustit,
a tak pálí i je.

Matky pouštějí své drobné děti
a jdou na transport!
Jdou na transport a děti tam nechávají.

Nechali je tam a všechny je spálili,
matky si rvou vlasy,
už svoje drobné děti nikdy neuvidí!

Jak jdou na eskortu, tak pláčou,
že už své děti (pláče)
nikdy neuvidí ...

“To je o tých malých dětoch, jak ty matky nad tyma děckama plakaly.

To šecko nemoselo byt! Ale stalo sa to.“

envoyé par Stanislava - 7/2/2023 - 16:08




Langue: italien

Traduzione italiana di Stanislava – basata sulla traduzione ceca presente nel sito del Museo della cultura Rom
AD AUSCHWITZ C'È UNA GRANDE CASA

Ad Auschwitz c'è una grande casa, ohi,
lì dentro ci sono rinchiusi i Rom.
I Rom stanno rinchiusi lì,
e anche le donne Rom.
Stanno togliendo loro i figli
(alla cantante si rompe la voce) [1]
stanno togliendo loro i figli...
li stanno uccidendo.

Ohi, le madri piangono per i propri figli,
i loro figli vengono gettati al gas!
Le madri non vogliono lasciare i propri figli
e così anche loro vengono bruciate.

Le madri lasciano i propri figlioli piccini
e vengono deportate.
Vanno nei convogli e lasciano i figli là.

Li hanno lasciati là e sono stati tutti bruciati.
Le madri si strappano i capelli,
mai più rivedranno i loro figlioli piccini.
Vanno nei convogli piangendo perché non rivedranno mai più i loro figli (piange) …

“È quella canzone che parla di quei bambini piccini, di come le madri piangevano per quei bimbi.

Tutto questo non era necessario. E invece è successo.” [2]
[1] Nel testo è presente un paio di volte una didascalia di questo tipo. La mantengo anche nella traduzione.

[2] Le ultime due righe palesemente non fanno parte della canzone. La prima frase (non ne trovo la fonte in rete) sembrerebbe una risposta a una domanda rivolta a un testimone: “Conosce questa canzone?” Spiegazione data da qualcuno che la ricorda, l'aveva sentita.
La seconda riga fa più chiarezza. Secondo le fonti, questa volta reperibili anche in rete, a pronunciare quella frase è stata Helena Malíková (da nubile Holomková), originaria di Louka nel distretto di Hodonín (Moravia meridionale), una delle poche sopravvissute all'olocausto dei Rom e Sinti cechi, ritornata a casa dopo l'internamento ad Auschwitz. La sua testimonianza è stata trascritta nel libro intitolato, non a caso, Aušvicate hi khér báro, redatto dallo studioso ceco Ctibor Nečas (1933-2017), specializzato nella storia dei Rom cechi, a cui va il merito di aver riaperto il dibattito sulle persecuzioni dei Rom cechi durante il nazismo e di aver contribuito a conservare la memoria del loro olocausto che con il tempo rischiava di diventare un argomento marginale, se non dimenticato.

Questo commento lapidario di Helena Malíková, qui utilizzato a mo' di conclusione della canzone, è stato ripreso da Nečas come titolo al racconto della sopravvissuta, infatti quelle poche parole schiette dette da lei in dialetto hanno una straordinaria espressività. La testimonianza si può leggere anche su internet (qui Holocaust), purtroppo solo in ceco (o meglio: in un dialetto moravo, la trascrizione del racconto orale tiene conto di tutte le particolarità della pronuncia e del forte colorito regionale).

envoyé par Stanislava - 7/2/2023 - 16:10




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