Non c'era tempo per la paura,
Nati sotto la stella,
Quella più bella della pianura.
Avevano una falce
E mani grandi da contadini,
E prima di dormire
Un padrenostro, come da bambini.
Sette figlioli, sette,
di pane e miele, a chi li do?
Sette come le note,
Una canzone gli canterò.
E pioggia, e neve e gelo
e fola e fuoco insieme al vino,
e vanno via i pensieri
insieme al fumo su per il camino.
Avevano un granaio
e il passo a tempo di chi sa ballare,
di chi per la vita
prende il suo amore, e lo sa portare.
Sette fratelli, sette,
di pane e miele, a chi li do?
Non li darò alla guerra,
all'uomo nero non li darò.
Nuvola, lampo e tuono,
non c'e perdono per quella notte
che gli squadristi vennero
e via li portarono coi calci e le botte.
Avevano un saluto
e, degli abbracci, quello più forte,
avevano lo sguardo,
quello di chi va incontro alla sorte.
Sette figlioli, sette,
sette fratelli, a chi li do?
Ci disse la pianura:
Questi miei figli mai li scorderò.
Sette uomini, sette,
sette ferite e sette solchi.
Ci disse la pianura:
I figli di Alcide non sono mai morti.
E in quella pianura
Da Valle Re ai Campi Rossi
noi ci passammo un giorno
e in mezzo alla nebbia
ci scoprimmo commossi.
Earth and water and wind
There was no time for fear
Born under the star,
The fairest star in the plain.
A sickle in their hands,
Their big hands of earth workers
And before going to sleep
A “Lord’s Prayer”, as in their childhood.
Seven brothers, seven
Of bread and of honey, who shall I give them to?
Seven, like the notes
For them shall I sing a song.
Rain and snow and chill
Fables and wine by the fireside,
Thoughts flying out away
With smoke through the fireplace
They had got a barn
And the timed steps of keen dancers
Knowing how to take their darlings
By the waist and make them dance.
Seven brothers, seven
Of bread and honey, who shall I give them to?
I shan't give them to war,
The black man shan't I give them to.
Cloud, lightning and thunder
There was no mercy in that night
When the fascists came
And took them away with kicks and blows
And they did bide farewell
Embracing all strongly as they could
And looking 'round at everyone
As they were heading for their fate
Seven sons, seven
Seven brothers, who shall I give them to?
And the plain did tell us:
I'll never forget them, they're my sons.
Seven men, seven,
Seven wounds and seven holes
And the plain did tell us:
Alcide's children have never died.
And throughout the plain
From Valle Re to Campi Rossi
We've been roving one day
And in the middle of the fog
We felt so moved.
Contributed by matteo88 - 2008/6/29 - 00:51
Und Erde, Wasser, Wind
für Furcht gab es keine Zeit,
unter einer Sterne waren sie geboren,
der schönsten Sterne in der Ebene.
Sie hatten eine Sense
und so große Bauernhände,
und bevor sie zu Bett gingen
ein Vaterunser,
wie als sie Kinder waren.
Sieben Kinder, sieben
aus Brot und Honig, wem gebe ich so?
Sieben, wie die Noten,
ihnen sing' ich ein Lied, so.
Und Regen, Schnee und Frost,
Märchen und Wein bei der Feuerstelle,
so fliegen die Gedanken
weg mit dem Rauch durch den Kamin.
Sie hatten einen Kornspeicher
und den Schritt im Takt vom Tanzenlieber
der seine Liebe um die Taille
nimmt, und weiß, wie sie zu führen.
Sieben Kinder, sieben
aus Brot und Honig, wem gebe ich so?
der Krieg will ich nicht geben,
dem schwarzen Mann geb' ich nicht, so.
Wolken, Blitz und Donner,
kein Erbarmen in jener Nacht,
als die Faschisten kamen
und sie wegführten
mit Stössen und Fußschlägen.
Sie sagten einen Gruß
und alle umarmten sie am starksten,
sie hatten einen Blick,
und darin gab es alles ihr Schicksal.
Sieben Kinder, sieben
Brüder, wem gebe ich so?
Uns sagte die Ebene,
diese Kinder von mir vergess' ich nie.
Sieben Männer, sieben
sieben Wunden und sieben Furchen,
Uns sagte die Ebene,
die Söhne Alcides sind nie gestorben.
Und in dieser Ebene
aus Valle Re zu Campi Rossi
einen Tag fuhren wir,
und mitte im Nebel
waren wir berührt.
Terre, eau et vent
Il n'y avait pas le temps pour la peur
Nés sous une étoile,
La plus belle étoile de la plaine.
Il avaient une faux
Et des grosses mains de paysans,
Et avant de se coucher
Un notre-père, comme quand
Ils étaient petits.
Sept frères, sept
De pain et miel, je les donne à qui?
Sept comme les notes,
Une chanson je vais leur chanter.
Pluie, gel et neige,
On s'amuse, on boit près du feu
Et les pensées volaient
Par la cheminée, avec la fumée.
Ils avaient un grenier
Et le pas de celui qui sait danser
Et qui saisit son amour
Par la taille et le sait conduire.
Sept frères, sept
De pain et miel, je les donne à qui?
A la guerre, non, je ne veux pas,
A l'homme noir je ne les donne pas.
Nuages, éclairs, tonnerres,
Cette nuit-là pas de pitié,
Quand les fascistes vinrent
Et les emmenèrent à tour de bras,
Un salut pour tout l' monde,
Le salut le plus fort et terrible,
Et des regards qui disaient
Qu'ils se rendaient à leur destin.
Sept frères, ces sept
Frères, je les donne à qui?
La plaine nous a dit: Ces fils à moi,
Non, je ne les oublierai jamais.
Sept hommes, sept,
Sept blessures et sept sillons,
La plaine nous a dit:
Les fils d'Alcide ne sont jamais morts.
Et par cette plaine,
De Valle Re à Campi Rossi,
Nous sommes passés un jour
Et dans le brouillard
Nous nous sommes émus.
Y tierra, y agua, y viento
no había tiempo para el miedo,
nacidos bajo la estrella,
la estrella más bella de la llanura.
Tenían una hoz
y manos grandes de campesinos,
y antes de dormir
un padrenuestro, como cuando niños.
Siete hijos, siete,
de pan y miel, ¿a quién se los doy?
Siete como las notas,
una canción les cantaré.
Y lluvia, y nieve y helada,
vino y historias cerca del hogar,
y se van los pensamientos
con el humo por la chimenea.
Tenían un granero
y el paso en tiempo de quien sabe bailar,
de quien por la cintura
toma a su amor, y lo sabe llevar.
Siete hermanos, siete,
de pan y miel, ¿a quién se los doy?
No los daré a la guerra,
al hombre de negro, no se los daré.
Nube, relámpago y trueno,
no hay perdón para esa noche
que los escuadrones vinieron
y se los llevaron con patadas y golpes.
Tenían un saludo
y, unos abrazos, los más fuertes,
tenían la mirada,
de quien se enfrenta a la suerte.
Siete hijos, siete,
siete hermanos, ¿a quién se los doy?
Nos dijo la llanura:
estos mis hijos nunca los olvidaré.
Siete hombres, siete,
siete heridas y siete surcos.
Nos dijo la llanura:
Los hijos de Alcide no han muerto nunca.
Y en esa llanura,
del Valle Real a los Campos Rojos,
pasamos un día
y en medio de la niebla
nos descubrimos conmovidos.
Contributed by Santiago - 2016/6/21 - 21:53
Tero, akvo, vento
Ne estis tempo por timi
Naskiĝintaj sub la stelo
tiiu plej multe bela en la ebenaĵo
Ili havis falĉilon
kaj grandajn manojn, kiel kamplaboristoj
Sep junuloj, sep
el pano kaj mielo, al kiu ilin mi donos?
Sep, kiel la notoj,
mi ilin kantos kanton.
Pluvo, neĝo, malvarmego
Flugas la fajro kun la vino
Flugas la pensoj
kun la fumo
tra la kameno
Ili havis grenejon
kaj la tempe irmaniero
kiel tui kiu povas danci
tiu kiu je la talio
prenas ĝian amon,
kapablas ĝin porti.
Sep fratoj, sep,
el pano kaj mielo, al kiu ilin mi donos?
Al la militio, ilin mi ne donos
al la nigra monstro, ilin mi ne donos
Nubo, fulmo, tondro
Mi ne pardonu pri tiu nokto
dum ĝi la faŝismagadgrupanoj venis
kaj ilin elportis
per frapoj
Ili havis saluton
kaj la plej multe forta brakumoj,
ili havis la rigardo
de kiu baldaû mortis.
Sep junuloj, sep,
sep fratoj, al kiu ilin mi donos?
La ebenaĵo diris al ni:
"Mi neniam forgesos ĉi tiu miajn filojn."
Sep homoj, sep
sep vundoj, sep sulokj
La ebenaĵo diris al ni:
"La filoj de Alcide neniam mortis"
Tra tiu ebenaĵo
de Valle Re ĝis Capi Rossi
unu tago ni pasis
kaj meze en la nebulo
ni kortuŝiĝis.
Contributed by ZugNachPankow - 2014/9/14 - 00:58
Riccardo Venturi - 2008/6/29 - 12:36
matteo88 - 2008/6/29 - 12:53
28 dicembre 1943 - 28 dicembre 2010
di Piero Calamandrei
(estratto dal libro di AA.VV. “60 testimonianze partigiane”, edizioni ZOOlibri, 2010)
Nella storia di questa comunità familiare di contadini istruiti e innovatori c'è un episodio che ha il valore di un simbolo.
Quando, dopo molti anni di accanita fatica di braccia, la famiglia Cervi poté finalmente permettersi il lusso di acquistare un trattore, Aldo andò a prenderlo in consegna a Reggio: e sulla strada che porta a Campegine (RE), i vicini lo videro tornare trionfante, al volante della macchina nuova, sulla quale era stato issato, come una bandiera internazionale, un gran mappamondo. Aldo, di tutti i fratelli era il più istruito e il più consapevole di cose politiche.
Da soldato era stato condannato a tre anni di prigione, per aver obbedito troppo fedelmente alla consegna: era di sentinella a una polveriera e aveva fatto fuoco contro un'ombra che non aveva risposto al "chi va là": quell'ombra era di un tenente colonnello che restò ferito ad un dito e lo mandò sotto processo.
A Gaeta, in prigione, Aldo trovò nei compagni di prigionia chi arricchì la sua coscienza politica: e quando tornò, reduce, come è stato detto, dall' ''Università del carcere", egli fu in grado di fare scuola ai fratelli.
Ed eccolo ora, sulla strada di Campegine, che guida il trattore per dissodare la terra, ma porta anche il mappamondo per allargare gli orizzonti delle coscienze.
Questo mappamondo è stato, per fortuna, uno degli oggetti scampati dal saccheggio fascista. Quella notte lo avevano portato nella casa di un vicino che aveva la radio, per seguire sulla carta geografica dei comunicati.
Ora è lì, questo mappamondo ancor nuovo e lustro, conservato al centro di questo piccolo museo familiare.
Me li immagino allora, i sette fratelli, quando il mapppamondo arrivò, intenti tutti insieme, nelle lunghe serate invernali, a studiarlo sotto la guida di Aldo.
Oceani e continenti Aldo indicava col dito: "Questo è un popolo: qui sono terre ed uomini che le lavorano. Queesta riga è un confine, al di là del confine ci sono altre terre e altri uomini che le lavorano; e al di là di altri confini ancora altre terre e altri lavoratori; e così sempre uguale, finché, facendo il giro del mondo, si torna al punto di partenza ... Perché, allora, i confini, perché le guerre? Perché tutti gli uomini che lavorano non potrebbero mettersi d'accordo, e lavorare in pace se uguale è il loro destino?"
Così i fratelli discutevano pensosi intorno al mapppamondo, al tepore della grande stalla: agricoltura, politica e pace, era la stessa cosa.
Ma di fuori intanto c'era il fascismo e la guerra; fuori c'era il terrore e lo sterminio.
Bartleby - 2010/12/30 - 09:02
(Gianni Sartori)
Avevo intervistato Maria Cervi (figlia di Antenore, uno dei sette fratelli Cervi fucilati dai fascisti nel dicembre 1943) nel giugno del 2007 per una serie di articoli in vista del convegno “Il sapore giovane della resistenza” e ci eravamo lasciati con l’impegno di rivederci in quella occasione (domenica 24 giugno 2007). L'incontro era stato organizzato a Vicenza nell’ambito di Festambiente, ma purtroppo Maria ci aveva lasciato pochi giorni prima della manifestazione vicentina. Inevitabilmente questa sua testimonianza (la sua ultima intervista mi hanno confermato gli amici dell'ANPI) ha finito per acquistare un valore particolare.
D. Qual è, a suo avviso, l’importanza, l’attualità della Resistenza per la democrazia nel nostro paese?
R. Per me la Resistenza è ancora, nei fatti, il momento della nascita della Repubblica, della rifondazione democratica. Non sono invece convinta che questa consapevolezza sia presente in tutta la popolazione. A volte mi sembra venga dato per scontato. Forse non è stato fatto abbastanza per conservare la memoria di quanto è avvenuto.
Temo che in questi ultimi sessant’anni ci siamo un po’ “distratti” e ora i risultati si vedono. D’altra parte penso anche che negli ultimi anni (diciamo dal cinquantesimo al sessantesimo della Resistenza) ci sia stata una ripresa, un recupero sia da parte delle istituzioni che dei partiti, della scuola…
D. Da questo punto di vista, il sacrificio dei fratelli Cervi resta un esempio ancora molto significativo. Ritiene sia importante anche per i giovani?
R. Parlando con molte delle persone che vengono al museo mi sembra di capire che resta un esempio emblematico. In maggioranza i visitatori sono giovani, soprattutto studenti. Il fatto di voler sapere, visitare la casa, lasciare dei “segnali” esprime interesse, attenzione. Evidentemente rimane un segno molto forte. Anche andando in giro per l’Italia in occasione di conferenze o manifestazioni scopro continuamente sale, circoli, scuole …a loro dedicati. Talvolta rimango stupita perché la cosa va ben oltre quello che mi sarei aspettata. Incontro molte persone che conoscono sia i loro nomi che episodi della loro vita, come quello del trattore e del mappamondo…
D. Ce ne può parlare?
R. Nel 1939 (io avevo cinque anni) comprarono un trattore, all’epoca un elemento sicuramente innovativo dato che nessuna azienda di piccole dimensioni lo possedeva. Al momento dell’acquisto si fecero regalare un mappamondo, un simbolo di modernità ma anche di cultura, della volontà di scoprire il mondo, gli altri popoli…E molti mi chiedono “ma dov’è il trattore, dov’è il mappamondo?” con un riferimento preciso, molto diretto. Oggi sono entrambi conservati nel museo gestito dall’”Istituto Nazionale Alcide Cervi”.
Il trattore è stato la scelta ultima, preceduta da un lungo percorso di innovazione per adottare sistemi nuovi di coltivazione. Tutta la loro vita era indirizzata in questa direzione. C’era stata, per esempio, la scelta della coltivazione di prato stabile per intensificare la produzione di latte e quindi del parmigiano. Risaliva al 1938 un progetto di abbeveraggio automatico per le mucche. Qui da noi negli anni trenta il pascolo non esisteva più e non c’erano quasi più gli abbeveratoi. L’acqua veniva portata nelle stalle con i secchi, un lavoro assai faticoso. Prima di installare l’abbeveratoio, completarono l’ampliamento delle stalle. Quando nel 1934 (io avevo tre mesi) andammo ad abitare in questa casa dove ora c’è il museo, c’era la possibilità di tenere solo otto capi di bestiame. Nel 1943, al momento del loro arresto, ce n’erano cinquantasei.
D. Possiamo dire che la famiglia Cervi rappresentava un fattore di discontinuità rispetto alla situazione tradizionale nelle campagne?
R. Le loro iniziative erano circondate sia da curiosità che da perplessità da parte degli altri contadini. Rientrava nel loro atteggiamento anche la a scelta, nel 1934, di lasciare la mezzadria per diventare affittuari, per avere maggiore libertà. Ritenevano che l’affittuario, una volta pagato l’affitto, fosse più libero di agire, di innovare. Il proprietario di questa casa era un medico condotto che acconsentiva a questi interventi. L’ampliamento delle stalle venne fatto in “acconto d’affitto”.
D. Contemporaneamente cresceva anche il loro impegno politico. Come ebbe inizio?
R. La formazione della loro coscienza politica comincia ancor prima del ’34. C’erano dentro di loro questi valori di giustizia sociale, di libertà. Dicevano che non era giusto “se noi stiamo bene e gli altri no”. Naturalmente ci furono alcuni episodi determinanti. Nel ’29 Aldo, mentre era militare, venne ingiustamente condannato a cinque anni di carcere che poi diventarono due anni di confino a Gaeta. Qui avvenne l’incontro, sicuramente importante, con alcuni esponenti politici confinati. Al ritorno di Aldo ci fu un confronto con gli altri fratelli e fu in quel periodo che diventarono comunisti.
D. Quali erano i valori della famiglia Cervi?
Era una famiglia di cattolici praticanti e alcuni di loro cominciarono a chiedersi come portare avanti quei valori, con coerenza. Un altro momento importante risale al 1936 quando Ferdinando venne richiamato dall’esercito per andare in Africa. La nostra famiglia non era d’accordo, dato che non riteneva giusto andare a combattere contro un altro popolo. Da parte di Ferdinando ci fu anche un intenso confronto con il suo confessore, in chiesa. Lo zio non si lasciò convincere e infatti non andò in guerra. Con questi avvenimenti comincia la loro ribellione al fascismo, ma soprattutto lo studio, l’elaborazione…Il nonno (“papà Cervi” nda) diceva che “loro non erano cambiati, avevano solo cambiato strada”. Forse pensavano che certi valori non erano abbastanza difesi. Talvolta è necessario anche qualche sacrificio, come appunto con la Resistenza, un maggiore impegno per la Pace, la libertà, soprattutto per la democrazia. Questi principi non devono ridursi a dei “piccoli monumenti” belli e importanti; devono anche essere vissuti, messi in pratica.
Mi è piaciuto il messaggio del presidente della Repubblica a capodanno. Parlando della partecipazione ha citato Giacomo Olivi, un partigiano fucilato a Modena nel ’44, quando scrisse “Non dite di essere stanchi”. E’ un richiamo che porto sempre con me e, quando posso, cerco di trasmetterlo, soprattutto ai giovani. In fondo è lo stesso messaggio di don Milani quando diceva “mi riguarda, me ne devo occupare”. Ecco, forse oggi è questo l’aspetto più preoccupante: il distacco, l’indifferenza, la mancanza di prospettiva.
D. Ha parlato di “papà Cervi”. Cosa ricorda dei suoi nonni?
R. Il nonno era iscritto al Partito popolare dal 1924. Al museo abbiamo conservato la sua tessera firmata da don Luigi Sturzo. Alla fine i valori guida erano gli stessi. C’è chi ha creduto di continuare a difenderli in un modo e chi ne ha cercato un’ altra strada. E’ significativo poi che le “due strade” si siano ritrovate nella Resistenza.
Anche mia nonna Genoeffa è morta cattolica praticante, nell’ottobre 1944, dieci mesi dopo la fucilazione dei suoi figli. E anche lei aveva avuto i suoi “momenti di ribellione”. Si era appena sposata e nella stanza dove dormivano, pioveva regolarmente dal tetto in cattive condizioni. Lei, per quanto timorosa, aveva chiesto invano al padrone di ripararlo. Allora ha fatto un bel buco nel pavimento, in modo che l’acqua cadesse proprio sul letto dei padroni che dormivano nella stanza sottostante. Naturalmente il tetto venne riparato prontamente.
Mia nonna non ha neanche voluto dare “l’oro e il rame per la Patria” come chiedeva Mussolini.
Diceva che “non è giusto dar via la fede che mi ha donato mio marito”. C’era quindi questo senso innato della giustizia da cui non ci deve discostare.
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 2014/7/29 - 20:47
(Gianni Sartori)
Ci sono storie che insegui inconsapevolmente per anni, o forse sono quelle storie che ti inseguono...
Una prima volta ne avevo sentito parlare circa trenta anni fa. Un giro in bici, una sosta nella piazzetta di un paese mai visto prima, un casuale incontro con un'anziana che aveva assistito ai fatti di persona. Mi parlò di un evento all'epoca poco conosciuto (“obliterato”), su cui poco pietosamente veniva steso un velo di silenzio: la deportazione in una antica villa padronale di Vò Vecchio (Villa Contarini-Venier) di un gruppo di ebrei rastrellati nel Ghetto di Padova (dicembre 1943). E mi accennò ad un episodio ancora più inquietante, il tentativo di una bambina (forse spinta dalla madre) di nascondersi in una barchessa per evitare la definitiva deportazione (luglio 1944).
Qualche anno dopo (sempre casualmente) raccolsi altri particolari da una parente, forse una nipote, dell'anziana ormai scomparsa. La bambina sarebbe stata riportata ai tedeschi il giorno dopo, forse per timore di rappresaglie. Fatto sta che emerse nel racconto una precisa responsabilità delle Suore Elisabettiane (incaricate di occuparsi della cucina del campo di concentramento) nel “restituire” Sara agli aguzzini. Ricordo che il controllo del campo di Vò Vecchio, uno dei circa 30 istituiti dalla R.S.I. di Mussolini, era affidato a personale di polizia italiano (presenti anche alcuni carabinieri). Invece la lapide sulla facciata della villa in memoria di quanti non ritornarono (posta soltanto nel 2001) ne parla come di un evento avvenuto “durante l'occupazione tedesca” senza un accenno alle responsabilità del fascismo italiano.
Il tragitto dei 43 Ebrei da Vò Vecchio verso la soluzione finale è ormai noto e ben documentato. La macchina burocratica funzionava alla perfezione e la pratica di ognuno dei deportati proseguì regolarmente grazie a decine di anonimi complici, esecutori senza volto.
Fatti salire su due camion, vennero prima richiusi nelle carceri di Padova e poi inviati a Trieste, nella Risiera di San Sabba. Tappa definitiva, Auschwitz.
Quanto alla bimba, si chiamava Sara Gesses (doveva avere sei o sette anni, ma alcune fonti parlano di dieci) e, questo l'ho saputo solo recentemente, venne riportata a Padova con la corriera (quella di linea) dal comandante del campo in persona, Lepore (in alcuni scritti viene definito “più umano” rispetto al suo predecessore). Anche al momento di salire sulla corriera Sara si sarebbe ribellata, avrebbe pianto, gridato, forse scalciato. Vien da chiedersi come il zelante funzionario abbia poi potuto convivere con il ricordo di questa creatura condotta al macello. Ma in fondo Lepore non era altro che una delle tante indispensabili rotelline dell'ingranaggio, un cane da guardia addomesticato, servo docile incapace di un gesto sia di ribellione che di compassione. Pare che un maldestro tentativo di giustificarsi sia poi venuto da parte delle suore che dissero di aver agito in quel modo “per riportarla insieme alla mamma”. L'ipocrisia a braccetto con la falsa coscienza.
In precedenza, insieme ai genitori, la bambina era stata catturata vicino al confine con la Svizzera durante un tentativo di fuga e quindi riportata nel padovano. Sembra anche che la madre riuscisse a farla scivolar fuori dal finestrino di un'altra corriera, quella che dal carcere di Padova stava portando i prigionieri a Trieste. Purtroppo invano. Sara venne immediatamente ripresa dagli sgherri nazifascisti.
In Polonia la maggior parte dei 47 deportati (tra cui Sara) venne immediatamente “selezionata” per le camere a gas. Solo una decina venne momentaneamente risparmiata e di questi solo tre sopravvissero.
Sara che non aveva incontrato nessun “giusto” sul suo cammino venne avviata alla camera a gas appena scesa dal convoglio 33T sulla rampa di Birkenau, nella notte tra il 3 e il 4 agosto agosto 1944.
La sua “morte piccina” (come quella della bambina di Sidone cantata da De André) rimane un delitto senza possibile redenzione, ma di cui dobbiamo almeno conservare la memoria.
Gianni Sartori (settembre 2014)
Gianni Sartori - 2014/9/13 - 12:21
Una certa canzone che avevi messo in approvazione non è stata approvata. Cerchiamo di non dare, per favore, la stura a cose che sono facilmente immaginabili. Chi scrive e canta certe canzoni ha i suoi spazi in Rete, e ci resti; nessuno andrà lì a disturbarli. D'accordo la "par condicio" e anche il percorso apposito dedicato alla Destra e al Reazionarismo; ma qui si sta da una parte, e lì dall'altra. Eccessive confusioni, anche se derivate dalle migliori intenzioni, non portano mai a niente di buono; prova un po' a immaginare come sarebbe stata accolto l'inserimento, che so io, di una canzone su Claudio Varalli in un sito di "musica alternativa". Fine del discorso e ancora grazie per tutto quello che ci stai mandando in questi giorni; perdonami sinceramente per lo "stop" che ti sto dando su questa cosa, sono del tutto convinto della tua buona fede ma ho anche la responsabilità condivisa di gestire un sito di un certo genere e di una certa impostazione, e tale gestione comporta delle scelte e delle decisioni ben precise. Saluti cari.
Riccardo Venturi - 2014/9/14 - 21:16
Avevo proposto la canzone con una certa esitazione, conscio che il sapore revisionista e l'ambiente da cui proviene avrebbero potuto essere "troppo"; così è stato. Rispetto la tua decisione, e apprezzo la tua fermezza nel non dare ulteriore (!) spazio a questi contenuti.
Dankon al vi!
ZugNachPankow - 2014/9/15 - 15:35
Riccardo Venturi - 2014/9/15 - 17:02
ciao. GS
Mio padre partigiano
(Gianni Sartori)
Una storia partigiana semplice, quella di Leone Sartori “Marcello”: raccontata dal figlio.
Premessa: da molto tempo coltivo l’ambizione di raccogliere materiale sufficiente per scrivere un libro sulla Resistenza nel Vicentino e in particolare sui Colli Berici sperando di contribuire alla conoscenza di episodi, personaggi, situazioni finora trascurati, soprattutto per l’area collinare dove operò la “Brigata Silva”. Esiste, infatti, una discreta documentazione sulla Resistenza operante sui monti vicentini (dal Pasubio all’Altopiano di Asiago, dalla Val d’Astico al Grappa), grazie anche alla diffusione dei libri di Meneghello (v. “Piccoli maestri”) ma molto poco sui Berici, le colline a sud-est di Vicenza.
Intanto il tempo passa e il materiale si accumula invano, rischiando anche di disperdersi ad ogni trasloco.
Ho deciso quindi di scrivere qualche articolo, senza alcuna pretesa di “fare la Storia” delegando ad altri l’eventuale realizzazione di un’opera sistematica.
Dato che finora la mia fonte principale è costituita da familiari (genitori, zii…) alla fine il racconto peccherà inevitabilmente di “personalismo”. Chiedo venia in anticipo agli addetti ai lavori ma ritengo che comunque anche queste testimonianze, per quanto parziali, contribuiscano a ridare un volto ad alcuni di quei combattenti per la Libertà che, con le armi o semplicemente rifiutandosi di collaborare, contribuirono a sconfiggere la peste bruna e nera.
I bombardamenti: un’occasione per salvarsi la vita
Fin da piccolo avevo spesso sentito parlare dei devastanti bombardamenti subiti da Vicenza dato che mio padre, Leone Sartori detto “Marcello”, classe 1925, aveva vissuto di persona i tristissimi momenti. Quei fatti avevano di certo contribuito alla sua scelta di non arruolarsi nelle fila dell’esercito di Graziani e Mussolini, di rendersi latitante e alla fine di entrare in contatto con i partigiani della brigata “Silva” (dal nome di un partigiano caduto) che operava sui Colli Berici.
«Durante uno dei tanti allarmi aerei mi trovavo al distretto militare di Vicenza – precisa “Marcello” non senza una piccola reticenza dovuta al suo carattere schietto e schivo – e sicuramente il distretto poteva essere uno dei tanti obiettivi. Per questo i comandanti avevano fatto uscire al primo suono della sirena d’allarme un gruppo di 60-70 soldati che si diresse verso la zona della “stradella dei nani”. Io uscii con il secondo gruppo ma non riuscimmo a percorrere molta strada. Quando cominciarono a cadere le bombe ero proprio davanti allo stabilimento del Lanificio Rossi (a Porta Monte N.d.A.). Mi buttai a terra calcandomi in testa il berretto.
Approfittando di una breve pausa cercai di raggiungere il ponte sospeso sul Bacchiglione che era stato danneggiato e penzolava sostenuto da una sola delle due corde sul fiume. Lo attraversai aiutandomi a forza di braccia sperando nella sorte. Sapevo che seguendo il Bacchiglione sarei potuto arrivare a casa mia potendo usufruire della rigogliosa vegetazione. Mi fermai solo dopo qualche chilometro, ormai in aperta campagna, e guardai verso Vicenza.
Il bombardamento era cessato, si distinguevano alte colonne di fumo sopra la città. Ripresi a correre lungo la riva sino alla corte dei Dalmaso. Il tempo di far sapere a mia madre che ero vivo e poi subito a campi. Cominciò così la mia latitanza di renitente. In zona ero il primo ma presto diventammo numerosi. Di giorno stavo nascosto nei campi o tra gli alberi della riva del Bacchiglione. Di notte, col buio, raggiungevo la “tesa” (fienile) dei Dalmaso per dormire. Quale fosse il mio abituale rifugio notturno, oltre ai miei, lo sapeva solo Bepi, il più anziano dei fratelli Dalmaso. Non lo sapeva nemmeno Toni Sgarabotto, il mio futuro suocero.
Toni arrivava ogni mattina prestissimo per “guernare” la stalla e le mucche. Alla sera dalla tesa recuperavo la scala che, al mattino, rimettevo al suo posto per scendere. A volte capitava che Toni arrivasse troppo presto e, mentre andava in giro brontolando in cerca della scala, la calavo giù e filavo via. Anni dopo mi ha detto di aver avuto qualche sospetto ma di non averne mai fatto parola con nessuno. Quando poteva mia madre mi portava da mangiare, badando bene a non dare nell’occhio. Qualche volta nascondeva il cibo in fondo alla secchia e veniva a lavare al fiume.
Altre volte arrivava con la “traversa” (grembiule N.d.A.) piena di erba raccolta per i conigli e, sotto, qualcosa da mangiare.
Non si può dire che in famiglia fossimo consapevolmente antifascisti ma di sicuro la notizia della morte di mio fratello Danilo in Grecia mi aveva fatto capire molte cose.
Comunque c’era stato qualche precedente. Mio padre, Augusto, era “obbligato”, una specie di bracciante. Durante una lotta contro i proprietari, parecchi anni prima della guerra, lui e i suoi compagni avevano nottetempo aperto le stalle e fatto scappare le mucche per la campagna (e in questo, se permettete, oltre che un momento della lotta di classe vedo un preannuncio della mia militanza animalista N.d.A.). Per rappresaglia, il giorno dopo, ricevette la visita di tre squadristi. Lo avevano già immobilizzato e stavano per fargli bere l’olio di ricino quando mia mamma (mia nonna, Evoli Marta, detta “Pina” N.d.A.) arrivò con la forca e ne infilzò un paio. Se non ricordo male uno alla gamba e l’altro ad una chiappa. Se ne andarono di corsa, nonostante le ferite, senza farsi più rivedere».
Purtroppo le cose andarono diversamente per un mio zio (marito di Marcella Sgarabotto, sorella maggiore di mia madre) “Tilio” (Attilio) Fasolato, operaio allo stabilimento Rossi di Debba (prima canapificio poi cotonificio, da non confondere con l’altro cotonificio Rossi di Porta Monte, in città), principale industria della zona. Qui andarono a lavorare anche mia zia e poi mia madre, Rosa Sgarabotto, all’età di tredici-quattordici anni. “Tilio”, socialista e sindacalista, venne aggredito dai fascisti che evidentemente non apprezzavano i suoi tentativi di organizzare i compagni di lavoro; subì l’onta di dover ingurgitare a forza l’olio di ricino e rischiò di morirne. Un altro operaio dello stabilimento che subì angherie e persecuzioni (anche dopo la fine della guerra) fu il mitico Battistella, comunista e agitatore, ma anche grande amico personale dell’altrettanto mitico Don Camillo, parroco di Debba, laureato in ingegneria e assai energico, anche se viveva con un solo polmone. Durante la Resistenza divenne una sorta di “cappellano militare” dei partigiani della Brigata “Silva”. Scoperto dai nazifascisti era già stato messo al muro per essere fucilato; venne salvato in extremis dall’intervento di un ufficiale tedesco. Don Camillo ebbe poi modo di ricambiare alla fine della guerra.
Quanto alla violenza fascista nei confronti dei lavoratori, operai o contadini, essa non esprimeva altro che quella intrinseca ai rapporti sociali del tempo. C’è un episodio nell’infanzia di mio padre che, a mio avviso, potrebbe trovare posto in “Novecento” o anche tra le pagine di “Ragazzo negro”. A Longara c’è ancora una villa padronale, all’epoca (inizio degli anni trenta) provvista anche di campo da tennis, dove i rampolli del signor ricco si dilettavano con i loro amici e ospiti.
Capitò a Leone (che abitava allora poco lontano, al Tormeno), mentre rientrava con una fascina di legna raccolta nel bosco, di vedere una palla fuoriuscire e rotolare tra le stoppie. La raccolse prontamente, come un bene prezioso data l’abituale indigenza in cui versava la sua famiglia, dandosi alla fuga. Venne raggiunto da grida e minacce ma non si fermò. A questo punto si ritrovò inseguito da alcuni cani di grossa taglia che i signori avevano liberato, non tollerando evidentemente l’atto di scortesia, se non proprio di ribellione, del bambino.
Un mondo ai margini
Ma torniamo al tempo di guerra. La “terra di mezzo”, compresa tra la strada che da Vicenza, passando per Casale, porta a San Piero Intrigogna e le anse del Bacchiglione, era quindi diventata il rifugio temporaneo di Leone Sartori e altri renitenti. Solo un’esigua striscia di terra in prossimità dei Colli Berici, che all’epoca però offriva diversi ripari naturali, sia di giorno che di notte. In particolare le rive coperte di alberi, le “piantà” e le “siese”. Senza dimenticare il rilievo del “monteseo”, detto “dei Dalmaso”, ricoperto dalla vegetazione di un rocolo e in cui si apriva anche una piccola cavità naturale, il classico “buso della Stria”. Una sorta di “terra di nessuno”, costituita da interstizi marginali e sconosciuti che furono anche i luoghi prediletti delle mie scorribande infantili negli anni cinquanta. Luoghi che ora nella mia memoria ritrovo avvolti in una atmosfera un po’ magica, forse per il fatto di essere legati all’acqua, alle grotte, alla vegetazione… Percorsi ignoti ai “foresti” (in senso lato, intendendo sia i tedeschi che la gente di città) che intersecavano quelli normali (“ufficiali”) dando vita quasi ad una realtà parallela, offrendo vie di fuga e rifugi. Tutto ciò però non poteva accadere se non ci fosse stata la robusta e tacita complicità degli abitanti della zona. Si sapeva tutto e nessuno sarebbe sfuggito alla cattura se le notizie fossero arrivate alle orecchie sbagliate.
«Qualche volta – continua Leone – mi arrischiai anche a dormire a casa. Avevo tagliato una delle inferriate che chiudevano la finestrella in alto (in “granaro”, dove negli anni cinquanta ricavò la stanzetta in cui trascorsi la mia infanzia N.d.A.), così da potermici infilare. Oltre alla comoda “tesa” dei Dalmaso avevo altri rifugi d’emergenza. Me ne scavai qualcuno lungo la sponda dei fossi, in particolare alle pendici del “monteseo”. Scavavo via la terra della riva e mettevo dentro un gabbiotto per i conigli, di quelli lunghi. Poi ricoprivo con zolle ed erba. Ma ci dormivo il meno possibile, temendo di venir preso come un topo in gabbia.
Dopo qualche tempo dalla mia fuga dal distretto furono in parecchi a trovarsi nella mia stessa situazione. Chi dormiva nei campi, chi in qualche rifugio, chi nelle “tese”. A quel punto la gente della zona di Casale, Casaletto, San Piero Intrigogna sapeva bene che eravamo fuggiti dalle caserme. Che eravamo alla macchia. “Sbandati”, come si diceva allora. Nessuno però fece la spia.
Una volta partecipai addirittura alla “sesola”; per dieci-quindici giorni raccolsi il frumento insieme a tutta la gente della mia contrada, che mi conosceva benissimo ma che mi proteggeva con il suo silenzio. Ricordo che a quella “sesola” partecipò anche il “Moro”, Luigi Sgarabotto. Era appena ritornato dal fronte, ferito ad una gamba. Della guerra, diceva, ne aveva avuto abbastanza. Anche mio fratello Vittorio lavorava con noi, aveva un figlio a cui avevamo insegnato di chiamarmi con un altro nome. Un giorno dovetti restare nascosto in mezzo al grano (che all’epoca cresceva più alto N.d.A.) perché i brigatisti neri facevano il bagno lì vicino, nel Bacchiglione. Prima che decidessero di tornare a riva (dalla parte opposta, verso Longara, dove avevano la caserma) trascorsero delle lunghe ore».
Tra rastrellamenti e furti campestri…
Successivamente Leone Sartori si rifugiò per qualche giorno dalle parti di Montegalda, in una fattoria. Poi però dovette ritornare al “monteseo” e il fratello Giovanni, operaio allo stabilimento di Debba, andò a prenderlo in bici… Il ritorno, di notte naturalmente, si svolse così: «ci davamo il cambio; uno pedalava e l’altro stava seduto sul palo. Prima di ogni curva, a scanso di brutte sorprese, io scendevo e saltavo al di là del fosso, proseguendo a campi. Poi, visto che tutto era tranquillo, risalivo sulla bici fino alla curva successiva».
«In seguito tornai per un altro breve periodo dalle parti di Montegalda, ospite nella “tesa” di Neno “Fraca” dove per la prima volta entrai in contatto con alcuni partigiani. Lo conoscevo perché prima della guerra mio fratello aveva lavorato sui suoi campi. Il fratello di Neno venne poi assassinato dai fascisti, proprio da quelli della “Nera” di Longara. Venne fucilato vicino alla ferrovia, accusato di essere un partigiano. In realtà si era solo rifiutato di consegnare ad un plotone di tedeschi e di fascisti il suo mezzo di trasporto, non ricordo se la bici o il cavallo. Qualche giorno dopo i partigiani uccisero nello stesso punto un tedesco e lo seppellirono a testa in giù, in modo che sporgessero solo i piedi. In conseguenza di questo episodio ci fu un rastrellamento. Quel giorno mi trovavo sui campi al di qua del fiume, verso Ghizzolle. La giornata era limpidissima, si riusciva a scorgere il pendio del Monte Lungo di Montegalda, dove era in corso una vera caccia all’uomo. Alla fine due partigiani rimasero uccisi e sei o sette catturati. Venimmo a sapere poi che l’operazione di rastrellamento era andata a colpo sicuro perché qualcuno del posto aveva informato i fascisti sui luoghi dove si nascondevano partigiani e renitenti (“ribelli” e “sbandati”)». Ma non c’erano solo i periodici rastrellamenti a turbare il sonno di Leone e compagni.
«Una notte, mentre dormivo nella stalla di Neno (invece che nella solita “tesa”, forse perché pioveva) in mezzo alla paglia, vennero i ladri. Rubarono alcune galline e cercarono di portarsi appresso due maiali. Accortisi della mia presenza fuggirono precipitosamente. Per la porta rimasta aperta, anche i due maiali colsero l’occasione per scappare. Ormai però qualcuno sapeva che dal “Fraca” si nascondeva un renitente e così dovetti andarmene.
Nel frattempo era stata concessa un’amnistia e, evidentemente malconsigliato, mi ripresentai al distretto. Venni subito trasferito alla caserma dei bersaglieri in via san Silvestro ma, capito che con ogni probabilità la nostra destinazione sarebbe stata la Germania, alla prima occasione tolsi il disturbo (sulle deportazioni di soldati italiani dal vicentino, dopo l’8 settembre, esistono le prove inoppugnabili di alcune fotografie: ammassati a centinaia nei cortili della caserma Cella, a Schio, in attesa di essere fatti salire su decine e decine di pullman con destinazione Germania N.d.A.). Approfittai del solito allarme per i bombardamenti e stavolta mi diressi verso la Gogna. Nonostante l’oscurità riconobbi tra le persone in fuga il “Moro” (Luigi Sgarabotto, fratello di Rosa che poi sarebbe diventata moglie di Leone e quindi mia madre N.d.A.)».
In seguito anche Luigi si sarebbe rifugiato nei dintorni del “monteseo”, costruendosi un rifugio nel “buso della stria” dopo aver ampliato la cavità con l’esplosivo.
«A questo punto, – prosegue Leone – nella totale confusione provocata dal bombardamento, ritornai indietro, verso Monteberico. Poco dopo il “10 Giugno”, dove inizia la salita verso il santuario, entrai nella grande galleria (ancora visibile ai nostri giorni, anche se murata N.d.A.) che si apre alla base del monte. Non saprei dire quanto sia lunga e nemmeno dove esca di preciso, probabilmente nella Valletta del Silenzio, da dove è abbastanza agevole raggiungere Longara e Debba. Ricordo di averla percorsa completamente al buio, tenendomi aderente al muro mentre intorno sentivo i passi di decine di altre persone in fuga».
Leone rientrò poi nella sua piccola “patria”, in mezzo ai campi o sulle rive del fiume in attesa di unirsi ai partigiani della brigata “Silva”, allora già attivi sui Colli Berici.
Precedenti di militarizzazione nel sottosuolo berico
Come è noto, attualmente alcune cavità dei Colli Berici sono un vero e proprio ripostiglio per l’esercito americano, sia a Longare che al Tormeno. Ricorda mio padre che durante la guerra c’erano stati precedenti significativi nell’opera di militarizzazione delle cavità collinari nostrane.
I Tedeschi avevano pensato di utilizzare come deposito sotterraneo per gli impianti industriali le antiche cave di Costozza, in modo da proteggerli dai bombardamenti degli Americani. Questi ultimi evidentemente appresero bene la lezione e in seguito l’applicarono alla grande con la base denominata “Pluto”.
Racconta Leone: «A Costozza, dentro alle grotte, avevano trasportato gli impianti di numerose industrie. Ricordo che c’erano le Reggiane, la CARI, la Ducati, l’Alfa Romeo, anche la Laverda, mi pare… Tutti i macchinari erano stati messi al sicuro. I tedeschi non erano molti, qualche decina…più che altro per controllare i lasciapassare. Dentro poi c’erano delle guardie alle dipendenze delle varie ditte, della CARI in particolare. Tra i civili c’era molta gente in contatto con la Resistenza. La consegna era di salvare i macchinari ma di non produrre niente, niente di utilizzabile almeno. Questa era stata una precisa consegna del CLN durante l’ultimo inverno di guerra: scendere a valle ed eventualmente guadagnarsi anche da vivere lavorando per la TODT (valeva per chi non era troppo compromesso, ovviamente) salvaguardando gli impianti, i macchinari in vista della ricostruzione postbellica (e magari dell’occupazione delle fabbriche N.d.A.), sabotando invece la produzione».
Il racconto di mio padre continua: «A Costozza nessuno produceva niente perché nessuno voleva produrre per i tedeschi. Se per esempio si doveva fare un pezzo di ricambio si faceva in modo che fosse inutilizzabile…»
«Dentro a Costozza c’erano anche diversi partigiani della “Silva” (ovviamente in incognito). I Tedeschi si erano sistemati in basso, prima del “Volto” (il caratteristico torrione sotto cui passa la strada per Lumignano N.d.A.), in una palazzina. Il padrone delle grotte, mi dicevano, era un conte; dentro era immenso. C’era una strada sotterranea che usciva in Col de Ruga, dove adesso ci sono gli Americani (la comunicazione tra l’area delle grotte rivolta a Costozza e quella verso Col de Ruga-Longare, dove si trova la base “Pluto”, venne poi murata dagli Americani N.d.A.). Ricordo degli spazi immensi, dei pilastroni enormi. A mezzogiorno si usciva per la mensa che si trovava sulla sinistra, in direzione di Lumignano. Eravamo tantissimi. Per la strada, all’uscita, si faceva fatica a procedere. Con noi mangiavano anche i dirigenti, gli ingegneri che alloggiavano presso i “Buoni Fanciulli” dell’Opera Don Calabria».
In merito ai ricordi sulle incursioni alleate, aggiunge: «A Costozza gli aerei hanno attaccato 3-4 volte sparando dentro alla bocca principale con le mitragliere (con il “75”, si diceva). Per avere qualche possibilità di infilare i proiettili nell’imbocco, scendevano in picchiata; mitragliavano e, quasi subito, dovevano immediatamente impennarsi e risalire per non schiantarsi contro il monte. Ricordo invece che una volta sono passati, molto in alto, così tanti apparecchi da far spavento…Hanno continuato a passare dalla mattina alla sera. Spuntavano sopra Lumignano e si dirigevano verso Vicenza. Sopra la città poi si diramavano; una parte andava a bombardare Verona, altri si dirigevano altrove. Qui in genere non bombardavano forse perché i Colli Berici erano una zona controllata dai partigiani».
Alla fine il piccolo presidio di Tedeschi, prima di abbandonare la posizione trattò con i partigiani la consegna di un salvacondotto per potersene andare senza essere attaccati. In cambio non avrebbero fatto saltare i macchinari. Così avvenne anche se, da notizie non confermate raccolte a Pianezze (da una fonte solitamente ben informata ma che vuole restare assolutamente anonima), questi tedeschi sarebbero stati poi sterminati da un altro gruppo di partigiani a Motta, sulla strada per la Valdastico.
Stragi nazifasciste nel Vicentino
Ma nel vicentino si conserva soprattutto la memoria di svariati eccidi di civili operati dai nazifascisti; particolarmente efferato quello di Monte Crocetta (appena fuori da Vicenza) dove vennero uccisi anche ragazzini di tredici o quattordici anni. A Pedescala, in Val d’Astico, poi vi fu una vera e propria strage (più di sessanta persone), compresi vecchi e bambini. A Vicenza, nonostante le recenti derive destrorse (una dozzina di consiglieri comunali di AN; niente male per una città in cui operarono anche i GAP e medaglia d’oro della Resistenza), si ricordano ancora ogni anno i “Dieci Martiri”, prelevati dal carcere di Padova e assassinati dai nazifascisti in prossimità della ferrovia, vicino al ponte sul Bacchiglione. Meno noto l’eccidio di Campedello, forse una rappresaglia per il tedesco ucciso a Longara, prima dell’assalto-saccheggio al deposito di viveri. Anche in questo caso le vittime civili ammontarono a una decina. Ricorda mia madre Rosa che un altro deposito-viveri dei tedeschi si trovava a Debba e che vi era conservata anche una grande quantità di zucchero, all’epoca raro e prezioso. Prima di scappare un tedesco (proprio quello che aveva salvato Don Camillo dalla fucilazione!) stava per incendiarlo, ma venne convinto a desistere dal parroco. In cambio venne tenuto nascosto in canonica e poi, quando le acque si erano ormai calmate, poté ripartirsene indisturbato per la Germania. Sempre mia madre, ricorda di averlo visto in un paio di occasioni a Debba, dove tornò spesso a salutare e ringraziare il battagliero parroco. Quanto ai viveri contenuti nel deposito vennero equamente distribuiti tra i “poveri” (la stragrande maggioranza) di Debba e dintorni.
Ma il “lieto fine” con riconciliazione finale fu senz’altro un’eccezione. Un po’ dovunque, sia sui Colli Berici che in città, per non parlare dell’Alto Vicentino (v. Malga Zonta), si trovano lapidi che ricordano la morte per mano dei nazisti e dei loro complici, i collaborazionisti in camicia nera, di civili e partigiani. Alcuni casi furono particolarmente drammatici, come a Pederiva (nella stretta Val Liona che si insinua tra i Colli, sovrastata da Zovencedo e Grancona) dove un gruppo di giovani renitenti che si erano radunati nella chiesetta del paese per raggiungere le formazioni partigiane sull’Altopiano di Asiago, caddero in un’imboscata e, prima di essere uccisi, vennero barbaramente torturati. Ancora oggi c’è chi ricorda con orrore i resti smembrati dei giovani e i muri ricoperti di sangue. Tanta fu la ferocia che da allora la chiesetta è rimasta sconsacrata. Altre volte si tratta di episodi “minori” come quello ricordato da una lapide ingrigita di Campedello. Qui due fratelli vennero fucilati per non aver prontamente consegnato la loro bicicletta a un reparto di Tedeschi in fuga, forse gli stessi che provenivano da Costozza.
Sempre a Pianezze (dalla stessa fonte che mi ha fornito la sua versione sui Tedeschi scappati ma intercettati poi dai partigiani a Motta) ho anche avuto la dritta per identificare dove si trovava il mitico “campo da bocce dei partigiani della Silva”. In effetti, in mezzo a un degradato bosco di castagni, è ancora ben identificabile un lungo spiazzo che appare sicuramente spianato dalle mani dell’uomo. Qui alcuni partigiani si erano costruiti quel campo per le bocce dove ammazzare il tempo in attesa dei lanci degli alleati e di cui avevo sentito parlare anche da mio padre. Non aveva però mai avuto l’occasione di farne uso e si era convinto che si trattasse soltanto di una leggenda.
Gianni Sartori.
Gianni Sartori - 2014/9/28 - 08:52
"La pianura dei sette fratelli" cantata nel luogo simbolo della Resistenza ha un signficato ancora più importante
Qui è impreziosita dalla voce di "Cisco" Bellotti e la presenza di Adelmo Cervi.
"La pianura dei sette fratelli", capolavoro dei Gang, cantata dal vivo dal cantautore Alberto Cantone, in occasione della pastasciutta antifascista, con l'intervento del Partigiano Umberto Lorenzoni e di Adelmo CERVI.
Alberto Cantone - 2018/3/15 - 13:26
L.L. - 2019/3/20 - 09:50
Lorenzo - 2019/3/20 - 20:41
Riccardo Venturi - 2019/3/21 - 10:36
Piero Calamandrei
Quando la sera tornavano dai campi
sette figli ed otto col padre
il suo sorriso attendeva sull’uscio
per annunciare che il desco era pronto.
Ma quando in un unico sparo
caddero in sette dinanzi a quel muro
la madre disse:
“Non vi rimprovero o figli
d’avermi dato tanto dolore
l’avete fatto per un’idea
perché mai più nel mondo altre madri
debban soffrire la stessa mia pena.
Ma che ci faccio qui sulla soglia
se più la sera non tornerete.
Il padre è forte e rincuora i nipoti
dopo un raccolto ne viene un altro
ma io sono soltanto una mamma
o figli cari
vengo con voi”.
Dq82 - 2020/4/25 - 17:47
Di pastasciuttate antifasciste ce ne saranno oggi, 25 luglio, oltre 200, organizzate da Aosta a Capo Passero, da Casa Cervi a Fosdinovo, da Sesto Fiorentino a chissà dov'altrove. E anche a chi non potesse andarci, si raccomanda oggi di preparare una bella pastasciutta in ricordo di quella del 25 luglio 1943, offerta dai fratelli Cervi per festeggiare la caduta di Mussolini. Oggi più che mai, in tempi di mammine itagliane e cristiane. Penne, burro e parmigiano!
Daniela -k.d.- + RV - 2023/7/25 - 09:18
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Riproposta:
- cantata insieme ai Modena City Ramblers in "Appunti Partigiani" [2005]
- interpretata dal Coro delle Mondine di Novi, in "Il seme e la speranza" [2006].
- in La rossa Primavera [2011]
I sette fratelli Cervi: Gelindo (classe 1901), Antenore (1906), Aldo (1909), Ferdinando (1911), Agostino (1916), Ovidio (1918), Ettore (1921).Tutti nati a Campegine (Reggio Emilia), tutti fucilati il 28 dicembre 1943 nel poligono di tiro di Reggio Emilia.
Come dico spesso presentando “La Pianura dei 7 fratelli”: questa canzone non è mai passata a MTV eppure sono decine e decine e decine le cover che ho ascoltato. Le strade del Signore sono infinite e su quelle questa canzone ha camminato e cammina, non su altre strade. Le strade che conducono al “signore”, a ciò che è sacro, che ci supera e che ci è limite ma che ci fa scoprire come una cosa sola fatta di tutte le nostre individualità. Come diceva Pitagora “L’Unità è la legge di Dio”.
(Marino Severini) da bielle.org
Per la storia dei Fratelli Cervi si veda il sito dell'ANPI e quello dell'Istituto Alcide Cervi.
Appunti partigiani è l'ottavo album dei Modena City Ramblers (il settimo in studio). L'album riprende idealmente Materiale Resistente (con ovvi riferimenti a un periodo storico molto caro ai Modena) prodotto 10 anni prima (1995) da Giovanni Lindo Ferretti, richiama a raccolta molti ex Ramblers: Alberto Cottica, Massimo Giuntini, Luciano Gaetani e Giovanni Rubbiani, oltre ad altri compagni di viaggio Paolo Rossi, Gang, Bandabardò e Casa del vento
Bella ciao con Goran Bregović (Tradizionale)
Auschwitz con Francesco Guccini (Francesco Guccini)
Oltre il ponte con Moni Ovadia (Italo Calvino, tradizionale, Liberovici)
I ribelli della montagna con la Bandabardò (Tradizionale)
La guerra di Piero con Piero Pelù (Fabrizio De André)
Al Dievel con il Coro delle Mondine di Novi
All you fascists con Billy Bragg (Woody Guthrie)
Notte di San Severo con la Casa del Vento (Casa Del Vento)
Il sentiero (liberamente ispirato a Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino)
Il partigiano John con Bunna (Africa Unite)
L'unica superstite con Fiamma
Spara Jury - con Paolo Rossi (C.C.C.P.)
La pianura dei sette fratelli con i Gang (Marino e Sandro Severini)
Pietà l'è morta con Ginevra Di Marco (Nuto Revelli)
Viva l'Italia con Cisco, Ginevra, Piero, Morgan, Bunna, Paolo, Erriquez, Marino (Francesco De Gregori)
La rossa primavera
2011
“La Rossa Primavera”, il 13° album dei Gang, è un Cammino lungo i canti della Resistenza. Un Cammino che ripercorre le tracce piu’ significative e passa per la migliore canzone d’autore italiana ispirata dalla lotta contro il nazi-fascismo. Non potevano mancare le canzoni dei Gang. Ospiti i Ned Ludd, e dall’incontro con il loro spirito folkeggiante nasce un nuovo episodio che testimonia e ribadisce la scelta di stare ancora oggi dalla parte giusta, quella della Resistenza contro i nuovi e i vecchi fascismi.
Fischia il vento (tradizionale) - Dante Di Nanni (Stormy Six) - La Brigata Garibaldi (tradizionale) - Su in collina (Francesco Guccini) - Poco di buono (Claudio Lolli) - La pianura dei sette fratelli (Gang) - Pane, giustizia e libertà (Massimo Priviero) - Tredici (Yo Yo Mundi) – E quei briganti neri (tradizionale) – Festa d'aprile (Franco Antonicelli) – 4 maggio 1944 - In memoria (Gang) - Eurialo e Niso (Gang e Massimo Bubola) - Pietà l'è morta (Nuto Revelli) - Aprile (Gang) - Le storie di ieri (Francesco De Gregori)
La pianura dei sette fratelli (Gang)
Per i morti di Reggio Emilia (Fausto Amodei) (Sangue del nostro sangue, nervi dei nostri nervi, come fu quello dei Fratelli Cervi)
La ballata dei Fratelli Cervi (Ignazio Buttitta)
Compagni Fratelli Cervi (anonimo)
Papà Cervi raggiunge i sette figli (Eugenio Bargagli)
Sette fratelli (Mercanti di Liquore e Marco Paolini)
Campi rossi (La Casa del vento)
Ai fratelli Cervi, alla loro Italia (Salvatore Quasimodo)
Canzone per Delmo (Filippo Andreani), dedicata ad Adelmo Cervi
I Sette Cervi (anonimo)
Salmodia della speranza (David Maria Turoldo)
Compagni fratelli Cervi (Gianni Rodari)
Nel ricordo della madre (Piero Calamandrei)
Cervi (Paolo Benvegnù)
Milioni di urla (Banda Bassotti)
Ribelli (Riccardo Sgavetti)
La canzone è stata interpretata da: Modena City ramblers, Alberto Amboni, Ricatti Acustici, Narrow Men (Jason Mc Niff, Daniele Contardo, Davide Morandi e Francesco Moneti), Alberto Cantone, FryDa, Germano Bonaveri, Cantierranti,
Visibì, Miami & the groovers, Corte dei miracoli, Primule Rosse, Renato Franchi & Orchestrina del Suonatore Jones, Ned Ludd, Malatempora,Brigata Lambrusco, Orchestra dei Briganti, Coro delle Mondine di Novi