ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
potesse scatenar tempesta.
Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.
Forse è la sua preghiera.
Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.
Forse è la sua preghiera.
Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta
potesse scatenar tempesta.
Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta
potesse scatenar tempesta.
Contributed by Riccardo Venturi - 2008/1/18 - 18:34
24 février 2009
mais j'ignorais qu'être née folle,
que percer les mottes
pouvait déchaîner la tempête,
pouvait déchaîner la tempête.
Je suis née le vingt-un à printemps
mais j'ignorais qu'être née folle,
que percer les mottes
pouvait déchaîner la tempête,
pouvait déchaîner la tempête.
Et Prosérpine lègère
voit pleuvoir sur l'herbe,
sur le gros blé gentil
et pleure toujours le soir,
c'est peut-être sa prière.
c'est peut-être sa prière.
Je suis née le vingt-un à printemps
mais j'ignorais qu'être née folle,
que percer les mottes
pouvait déchaîner la tempête,
pouvait déchaîner la tempête.
Et Prosérpine lègère
voit pleuvoir sur l'herbe,
sur le gros blé gentil
et pleure toujours le soir,
c'est peut-être sa prière,
c'est peut-être sa prière.
Je suis née le vingt-un à printemps
mais j'ignorais qu'être née folle,
que percer les mottes
pouvait déchaîner la tempête,
pouvait déchaîner la tempête.
Je suis née le vingt-un à printemps
mais j'ignorais qu'être née folle,
que percer les mottes
que percer les mottes
pouvait déchaîner la tempête
pouvait déchaîner la tempête.
I was born in spring the twentyone
Not knowing that to be born insane,
To open the turfs
A tempest could unchain.
And thus gentle Proserpina
Sees rain fall upon the grasses,
Upon the large gentle grains
And always weeps at night.
Perhaps it is her prayer.
Contributed by emanuele ricciardi - 2011/1/18 - 20:16
da Neos Palmades
Γεννήθηκα ανοιξιάτικη, εικοσιμία του Μάρτη,
μα δεν εγνώριζα πως να γεννιέσαι μια τρελή ακόμα,
ν΄ ανοίγεις τ’ αυλάκια στο χώμα,
θα μπορούσε να ξεσπάσει καταιγίδα.
Έτσι η μικρή η Περσεφόνη
κοιτά που βρέχει πάν’ στα χόρτα,
πάνω στα αβρά μεγάλα στάρια.
Και κάθε νύχτα ο κλαυθμός της
σάμπως είν’ πατερημό της.
Questa poesia/canzone in forma di inno pagano a Proserpina (altresì detta Cerere, la dèa delle messi) sa farci vedere quali forze primordiali la follia sia capace di scatenare. L'identificazione dell'autrice con queste forze è totale: le zolle che si aprono, la tempesta che si scatena. Proserpina, lieve, presiede intanto ai cicli della natura: la pioggia nutre l'erba e il grano, e quella pioggia è il suo pianto che vivifica. Quasi che il dolore e il nutrimento si identifichino, nel senso più alto e autentico della parola “preghiera”. Ne avevano tante, di cose da dire, quei vecchi e umanissimi dèi che poi qualcuno ha scacciato in nome del terribile e disumano dio ebraico, cupo, tribunalizio, dittatoriale.
Alda Merini sembra quasi dirci che nel luogo dove sono stati rinchiusi i folli, quelle lacrime e quel dolore riescono ancora a parlarci della natura, a scatenare le forze primitive, in breve a nutrire e vivificare. Sono cose che la poetessa ha vissuto in prima persona, e chiunque, anche chi eventualmente non la apprezzi, gliene deve rispetto. Per chi, come il sottoscritto, invece la apprezza, e molto, si può parlare anche di gratitudine, una gratitudine che promana dall'aver dato voce, e in modo semplice e alto, alle cose che si agitano dentro. Dall'aver dato loro voce trasformandola in forza e speranza.
Riccardo Venturi - 2009/2/24 - 08:04
cantò il dolore degli esclusi
MILANO - E' morta a Milano la poetessa Alda Merini. Aveva 78 anni. Era ricoverata all'ospedale San Paolo da una decina di giorni per un tumore osseo. Viveva in condizioni di quasi indigenza (una scelta di vita basata su una sorta di "noncuranza") tanto che i pasti quotidiani le venivano portati dai servizi sociali comunali. Ha cantato gli esclusi e ha vissuto sulla sua pelle una delle peggiori forme di esclusione: la malattia mentale. Negli ultimi anni, per una strana contraddizione, era diventata quasi popolare: abbastanza frequenti le sue apparizioni in Tv dove, con la sua voce arrochita dal fumo, diceva sempre cose profondissime e, nello stesso tempo, del tutto comprensibili al grande pubblico. Grazie a lei, molti si erano avvicinati alla poesie.
Era considerata la più grande poetessa italiana vivente. Nata in una famiglia poco abbiente (il padre era impiegato in una compagnia di assicurazione, la madre casalinga) la Merini esordì ad appena 15 anni con una raccolta "La presenza di Orfeo" curata dall'editore Schwarz. E, mentre già attirava l'attenzione della critica, la prodigiosa ragazza incontrava difficoltà nel mondo della scuola "normale". Venne infatti respinta quando tentò di entrare al liceo Manzoni. Dissero che non era stata sufficiente nella prova d'italiano.
E da lì in avanti, la sua vita è sempre stata al confine tra il riconoscimento della sua eccezionale capacità poetica e la difficoltà dovuta alla malattia. Malattia mentale che la portò al ricovero di un mese a Villa Turro nel 1947. Lei stessa ne ha sempre parlato e scritto definendo la sua sofferenza psichica come "ombre della mente". Nel tempo ha saputo convivere con queste "ombre" e, anzi, per certi versi il dolore che ha attraversato le è servito per scandagliare più in profondità l'animo umano.
Così Alda Merini ha spiegato al nostro Antonio Gnoli l'uscita dalla malattia, in un'intervista a Repubblica : "Per me guarire è stato un modo di liberarmi del passato. Tutto è accaduto in fretta. L'ultima volta che sono stata all'Istituto che mi aveva in cura per depressione mi è accaduta una cosa che non avevo mai provato. Una mattina mi sono svegliata e ho detto: che ci faccio io qui? Così è davvero ricominciata la mia vita. Ho ripreso a scrivere e ho perfino trovato quel successo che non avrei mai pensato di ottenere". Sul successo Alda ride con voce roca e lenta e poi aggiunge: "Il successo è come l'acqua di Lourdes, un miracolo. La gente applaude, osanna e ti chiedi: ma cosa ho fatto per meritare tutto questo? Penso che la folla, anche piccola, che ti ama ti aiuta a vivere. In fondo un poeta ha anche qualcosa di istrionico e di folle. Per questo il manicomio è stato per me il grande poema di amore e di morte. Ma anche questo luogo oggi è distante. Mi capita a volte di rivederlo in sogno. Io sogno tantissimo. E tra i sogni ne ricorre uno: sono dentro a un luogo chiuso, e io che cerco le chiavi per uscire. Forse sono mentalmente ancora in quel luogo che mi ha ucciso e mi ha fatto rinascere. Mi sento una donna che desidera ancora. Oggi per esempio vorrei che qualcuno mi andasse a comprare le sigarette. Non ho mai smesso di fumare, né di sperare".
Fin dai primi anni del suo lavoro poetico, conobbe e frequentò maestri come Quasimodo, Montale e Manganelli che la sostennero e promossero la pubblicazione di sue opere. Dopo "La presenza di Orfeo" (e alcune poesie singole pubblicate in diverse antologie), escono "Nozze romane" e "Paura di Dio". La Merini, nel frattempo si era sposata con Ettore Carniti (1953) e aveva avuto la sua prima figlia Emanuela. Al pediatra della bambina aveva dedicato la raccolta "Tu sei Pietro" (1061).
Comincia qui un altro periodo difficile costellato di ricoveri dolorisissimi e di ritorni a casa sempre difficili ma anche allietati dalla nascita di altri tre figli. Con un lungo periodo al "Paolo Pini". Dal 1972 al 1979 la situazione, a poco a poco migliora e la poetessa torna a scrivere. E, con grande coraggio, racconta in poesia e prosa la sua esperienza ("La Terra Santa").
Rimasta vedova nel 1981, si risposerà con il poeta Michele Pierri (1983) e con lui andrà a vivere a Taranto e ancora incontrerà i fantasmi della sua mente. Nel 1986 tornò a Milano dove ha sempre vissuto
(da Repubblica)
daniela -k.d.- - 2009/11/1 - 19:20
alejna - 2010/11/12 - 17:46
Simone Cristicchi
La signora avrà 80 anni e...
e non lava mai per terra,
spegne cicche sul pavimento
con le pantofole da infermiera,
sopra i muri delle stanze
scrive col rossetto
numeri di telefoni e aforismi estemporanei che le case editrici non avranno mai,
non sopporta la ribalderia dei giovani.
La signora vuole un po' di privacy perchè l'aura del poeta non va interrotta potrebbe essere l'aura dei Santi,
il poeta ama amare,ma non vuole essere amato
(il poeta vuole amare,ma non vuole essere amato)
il poeta non vuole essere capito.
Io vorrei essere come lei,
io vorrei essere come lei,
fregarmene dei giudizi altrui,
avere un distacco netto
dalle cose del mondo,
dalla volgarità di questo secolo.
La signora mette paura e non reggerai il suo sguardo.
tra i fiori di plastica e una pelle di leopardo vecchie foto in bianco e nero,articoli di giornale,la signora sembra stanca e non vuole più parlare,
l'unica cosa da fare è andare via dall'Italia
(dall'Italia).
La polvere è fondamentale
se togli la polvere dalle ali la farfalla non vola più.
NAFTALINA, CANDELE, CANI DI PELUCHES, ABAT-JOURS, CARTA STRACCIA, PARRUCCHE VECCHIE, GONNE SPORCHE DI OLIO, FRITTO DI POLLO, ODORE DI INCENSO E URINA NELL'ARIA SPESSA DELLA CUCINA.
Le domande stupide di gente senza curiosità:"che cos'è l'anima?"
la signora mi distrugge con l'eleganza e la classe di una diva.
Io vorrei essere come lei
io vorrei essere come lei,
fregarmene dei giudizi altrui,
avere un distacco netto dalle cose del mondo,
dalla volgarità di questo secolo.
adriana - 2012/3/21 - 09:28
Proserpina, Proserpina, come home to momma, come home to momma
Proserpina, Proserpina, come home to mother, come home to momma now
I shall punish the Earth, I shall turn down the heat
I shall take away every morsel to eat
I shall turn every field into stone
Where I walk crying alone
Crying for
Proserpina, Proserpina, come home to momma, come home to momma now
Proserpina, Proserpina go home to your mother, go home to Hera
Proserpina, Proserpina go home to your mother, go home to Hera now
She has ṗunished the Earth, she has turn down the heat
She has taken away every morsel stone
Where she walks cry-crying alone
Crying for
Proserpina, Proserpina, come home to momma, come home to momma
Proserpina, Proserpina, come home to momma, come home to momma now
She has turned every field into stone
Where she walks cry-crying alone
Proserpina, Ṗroserpina, come home to momma, come home to momma
Proserpina, Proserpina, come home to momma, come home to momma now.
La figura della dea Proserpina deve ispirare canzoni di notevole fattura e spessore, mi è venuto da pensare pochi giorni da quando ho ascoltato per la prima volta, trasmessa da Controradio, questa Proserpina di Martha Wainwright. E non c'è da stupirsi minimamente che si tratti di una canzone più che notevole: Martha è, infatti, figlia di Loudon Wainwright III e di Kate McGarrigle, nonché sorella di Rufus Wainwright. E dico poco.
Proserpina proviene dal più recente album di Martha Wainwright, Come Home to Mama (2012), dedicato alla madre Kate McGarrigle (nata nel 1946 e scomparsa il 18 gennaio 2010). In questa pagina dove Proserpina è celebrata grazie alla preghiera pagana di Alda Merini, mi sembrava importante riportare e far conoscere anche questa canzone. E' la pagina di Proserpina Levis, questa. (RV)
Riccardo Venturi - 2012/11/23 - 01:35
Composta nel 2009, si tratta dell'ultima canzone che l'artista canadese ha scritto prima di morire. L'ha interpretata da viva una sola volta, assieme alla figlia, nel dicembre del 2009 alla Royal Albert Hall di Londra durante il concerto A Not So Silent Night: The McGarrigle-Wainwright Christmas Concert. Qui sotto vediamo, in un video artigianale, l'ultima e grande esibizione di Kate McGarrigle quella sera, mentre interpreta questa canzone con la sua stupenda voce oramai affaticata.
Riccardo Venturi - 2012/11/23 - 14:10
Gian Piero Testa - 2012/11/24 - 10:34
Lì dove spuntavano erbette e mentucce
e la terra generava il suo primo ciclamino
adesso i paesani trafficano col cemento
e gli uccelli cadono morti dentro la ciminiera.
Dormi Persefone
nell'abbraccio della terra
alla balaustrata del mondo
non affacciarti mai più.
Lì dove stavano a mani giunte gli iniziati
compunti prima di accedere al telesterio
adesso i turisti buttano mozziconi
e vanno a vedere la nuova purificazione.
Dormi Persefone
nell'abbraccio della terra
alla balaustrata del mondo
non affacciarti mai più.
Lì dove il mare si faceva benedizione
e i belati erano preghiera dei campi
adesso i camion trasportano ai cantieri
vuoti corpi di ferro ragazzi e lamiere
Dormi Persefone
nell'abbraccio della terra
alla balaustrata del mondo
non affacciarti mai più.
Riccardo Venturi - 2012/11/24 - 17:05
CCG/AWS Staff - 2016/3/21 - 17:03
lago d'acque profonde; mai il Caistro,
nelle sue onde fuggenti, ode canti di cigni
più di quello. Una selva corona le sue acque
e ne avvolge le rive, e le fronde come velo
allontanano l'impeto di Febo. I rami danno ombra
e l'umida terra fiori d'ogni specie:
là eterna è primavera. Mentre in quel bosco
giocava Proserpina cogliendo bianchi gigli e viole
con gioia di fanciulla, a gara con le amiche,
colmandone il grembo e i canestri, la vide Plutone
e subito l'amò e la rapì: tanto fu rapido amore.
Proserpina, impaurita, chiamava con voce dolente
la madre e le compagne, ma più la madre;
e poi che lacerata alle spalle pendeva la sua veste,
caddero dalla tunica sciolta tutti i fiori.
V'era tanta innocenza nella sua fresca età,
che per i fiori caduti fu in pena la fanciulla.
E intanto Plutone dal carro incitava i cavalli
chiamandoli per nome ad uno ad uno,
e sul collo e la criniera scuoteva le briglie
d'oscuro colore di ferro. E passò dai profondi
laghi e gli stagni acri di zolfo dei Pàliei
che su ribollono da squarci della terra,
e là dove i Bacchiadi, gente di Corinto,
fra due porti ineguali, alzarono una città.
Fra Ciane ed Aretusa si stende una zona di mare
chiusa da due esili punte di terra:
qui visse Ciane, la ninfa più famosa di Sicilia,
e da lei ebbe nome lo stagno. Ora la ninfa
uscendo improvvisa dall'acque sino ai fianchi,
riconobbe la dea e così disse: «O Plutone,
non andrai lontano; se Cerere non vuole
non potrai avere la fanciulla: dovevi chiedere
Proserpina, non prenderla con forza.
E se piccole cose posso accostare alle grandi,
anch'io, amata da Anapo, divenni la sua sposa
alle vive preghiere, non per timore.»
Disse, e aprendo le braccia cercava di fermarlo.
Ma non tenne più l'ira il figlio di Saturno,
e incitando i tremendi cavalli, col braccio potente
vibrò lo scettro dentro il profondo dell'acque:
e la terra percossa aprì la via del Tartaro,
e riportò nell'abisso l'obliquo carro veloce.
Ora Ciane piangendo la dea rapita e le leggi
della fonte spezzate da Plutone, ha come ferito
il cuore silenzioso, e si consuma in lacrime
e si scioglie in quelle acque di cui fu dea suprema.
Avresti potuto vedere le membra farsi tenere,
le ossa Flessibili, le unghie perdere durezza,
e sciogliersi in acqua le parti più sottili:
le chiome azzurre, i piedi, le dita, le gambe,
perché più rapide mutano le esili membra
in acque gelide. Poi gli òmeri, la schiena,
fianchi e il petto furono piccoli ruscelli,
l'acqua giunse al sangue per le vene guaste,
nulla rimase di lei che si potesse prendere.
Intanto la madre cercava con ansia la figlia
per tutta la terra e nel profondo del mare.
Né l'Aurora dai capelli freschi di rugiada,
non Espero la vide mai in riposo,
andò con due torce di pino accese
nel fuoco dell'Etna, lungo le gelide notti,
quando la dolce luce oscura le stelle.
E sempre cercava la figlia dal sorgere
Al tramonto del sole; e stanca, arsa di sete,
dai aveva bagnato le labbra ad una fonte,
vide una capanna dal tetto di paglia
andò subito a battere alla piccola porta.
Ina vecchia venne ad aprire, e alla dea
che chiedeva da bere, offrì dell'acqua dolce
da lei preparata con il grano cotto.
E mentre beve, un fanciullo senza grazia in volto,
anche audace, si ferma davanti alla dea,
e la deride dicendole: «Avida!» E la dea offesa
riversa sul fanciullo ciò che ancora restava
dell'acqua mescolata al grano. E subito quel volto
si copre di macchie, e le braccia diventano gambe,
e la coda s'aggiunge alle membra mutate,
e il corpo (perché non abbia molto potere nel male)
si contrae in piccola forma: non più lungo
d'una lucertola. E la vecchia, stupita, piangendo
vuole toccare il mostro che fugge e si nasconde:
il mostro ha un nome che s'addice al suo colore,
screziato sul corpo di macchie variopinte.
Lungo sarebbe dire per quante terre e mari
vagò la dea: non c'era più luogo al mondo
dove ancora cercare. E ritornò in Sicilia,
e andò per tutta l'isola e giunse fino a Ciane,
che certo, se ninfa, le avrebbe detto ogni cosa;
ma non aveva più bocca, né lingua per parlare,
né modo per esprimersi; pure le mostrò un segno:
caduta là, galleggiava sull'acqua
della sorgente la cintura di Proserpina,
nota alla madre. E appena Cerere la vide,
come se allora sapesse la sorte della figlia,
cominciò a strapparsi i capelli e a lungo a battersi il petto.
E ancora non sa dove si trovi la figlia,
e dà colpa a tutta la terra (e la chiama nemica
e indegna del dono delle messi), e più alla Sicilia,
dove vide quel segno, ragione del suo pianto.
E là con mano spietata rompe gli aratri che voltano
le zolle, e con ira dà morte ai coloni ed ai giovenchi,
e vuole i campi sterili, e guasta le sementi.
E si perde la fama della terra siciliana,
dovunque esaltata come fertile; e le messi
muoiono appena verdi, ora perché il sole infuria
pioggia, e avversi sono i venti e le stelle.
E gli uccelli divorano i semi appena sparsi,
e il loglio e l'erbe spinose e la tenace gramigna
frmano il grano che cresce. Allora Aretusa
levò il capo fuori dall'acque dell'Elide
e, gettate le chiome stillanti dalla fronte
dietro le orecchie, così disse: «O madre delle messi,
madre della vergine cercata in ogni luogo, riposa
della lunga fatica, non fare violenza alla terra.
La terra è fedele, non ha colpa, senza volere
si aprì quando veniva rapita Proserpina.
Non prego per la mia terra, sono qui straniera,
io nacqui a Pisa. la mia patria è l'Elide.
Abito la Sicilia come ospite; ma questa terra
mi è cara più d'ogni altra; e per me, Aretusa,
questi sono i Penati, questa la casa, e tu,
dea benigna, difendila. Perché venni in Ortigia
dalla mia terra lungo infinite onde del mare,
dirò a suo tempo, quando avrai meno dolore
e più sereno il volto. Vado per un sentiero
aperto sotto terra e per caverne profonde
sollevo qui il capo e vedo stelle ignote.
Ora, mentre scorrevo per i gorghi dello Stige,
vidi Proserpina, triste ed ancora spaurita
nel volto, ma regina del mondo delle ombre,
ma già sposa potente del re dell'Averno.»
E a questo parole, la madre parve di pietra,
e a lungo rimase stupita, come presa dal fulmine.
Ma quando il dolore vinse la sua grave inerzia,
allora si levò col carro su per l'alto cielo.
E là, cupa in volto, coi capelli sparsi, irata,
ferma davanti a Giove, così disse: «O Giove,
per il sangue mio, ti prego, per il tuo sangue.
Se non hai amore per me, chiedo pietà per la figlia:
invoco il tuo aiuto, anche se nacque da me.
Ho ritrovato la figlia che così a lungo cercai,
se ritrovarla vuol dire sapere d'averla perduta;
se sapere dov'è vuol dire averla trovata.»
L'Anonimo Toscano del XXI secolo - 2018/3/22 - 14:16
Avendo dovuto contribuire ad assisterla durante l'ultima parte della sua vita, mi sono naturalmente beccato pure io il Covid. Mi trovo infatti in isolamento, o in quarantena che dir si voglia; e quindi non posso darle neppure un ultimo saluto. Ultimo saluto, peraltro, del tutto teorico: essendo morta in ospedale, verrà inviata alla direttamente alla cremazione senza che nessuno possa vederla. Mio fratello è pure in isolamento. Tutto qui.
Ciò che sto scrivendo è quindi l'unico modo possibile che ho per inviarle un saluto. Il quale, naturalmente, non servirà assolutamente a nulla; è del tutto virtuale. Semplicemente, sfrutto l'unica possibilità che ho attualmente per accompagnarla nel Vastissimo Nulla; e lo faccio stando bene attento a non indulgere a nessun tipo di retorica. Non sono cose “che volano nel cielo” o che mia madre “ascolterà tra gli angeli”, o altra roba del genere. Mia madre era, ormai da tempo, in una condizione dove non ascoltava più niente. Aveva l'Alzheimer e era completamente sorda.
Però, a suo modo, aveva contribuito anche lei a questo sito. Con le storie che raccontava assieme alla zia Clara, come questa. Una volta, su un'altra cosa che avevo scritto, avevo messo una sua foto di quando aveva quindici anni, con la zia Clara e l'asino Gustavo. Tutte cose così. L'ultima volta che ci ho potuto parlare, mentre si trovava temporaneamente in una RSA, aveva avuto un momento di lucidità e si era messa a raccontare dello sbarco a Fonza. Sembrava di essere lì, all'alba del 17 giugno 1944, quando mia madre aveva undici anni.
E' il primo modo in cui voglio ricordarla. Ho sempre detto che non tutti possono dire di avere avuto un intero sbarco alleato in famiglia: per l' Opération Brassard, lo sbarco alleato all'Isola d'Elba, fu scelta per l'appunto la spiaggia di Fonza, dove viveva tutta la mia famiglia in una vecchia casa isolata e un magazzino. Si vede tutto nel video che segue, che pure mia madre aveva visto commentando a modo suo quando ancora era in grado di farlo; compresa la bandiera francese che sventola dal magazzino di casa con mio zio Mario che aiuta a tirarla su. Però, durante l'occupazione tedesca, era stata letteralmente sfamata da un soldato tedesco che la aveva come adottata insegnandole persino qualche parola di tedesco. Si chiamava, quel soldato, Gustav Galf; fu portato via prigioniero e non se ne seppe più niente. E' per questo motivo che l'asino di famiglia, quello della foto, si chiamava Gustavo, Per ricordarlo. Tutto trasmigra nella memoria, a volte in modi assai singolari.
Il secondo modo in cui voglio ricordare, e accompagnare mia madre morta da sola, senza rendersene nemmeno conto, è una canzone che è presente su questa pagina, scritta da una madre e cantata da una figlia. Ripeto il video. E ripeto pure che questa canzone non andrà proprio da nessuna parte. Solo un saluto nell'unico modo che mi è dato di usare. Ciao mamma. Eri una testa dura cosmica, come del resto tua madre nonché mia nonna; caratteristica, del resto, che mi hai passato al 100% assieme ai dolori di schiena e al diabete. Non sono state sempre rose e fiori, tutt'altro; ma, come si dice sempre nelle antiche ballate britanniche che mi son sempre tanto garbate, alla fine la rosa avvolge il rovo, and the rose grew 'round the briar. Ti lascio con Proserpina.
Riccardo Venturi - 2020/11/11 - 08:34
che bello il saluto che hai fatto alla tua mamma!
Una luce nella tua tristezza e in quella di noi tutti.
Ti abbraccio forte.
B.B. - 2020/11/11 - 19:36
Riccardo Venturi in isolamento - 2020/11/12 - 07:36
Maria Cristina - 2020/11/12 - 16:38
Riccardo Venturi in isolamento - 2020/11/13 - 07:29
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Poesia di Alda Merini
A poem by Alda Merini
Musica e orchestrazione di Giovanni Nuti
Music and Orchestration by Giovanni Nuti
di Ahmed il Lavavetri
Noi siamo nati il ventuno a Primavera, oppure il venticinque in autunno, il sette in estate o il quindici in inverno. Siamo nati sempre, perché siamo completamente pazzi, matti, folli, straniti, esagitati, cupi, infuocati, mesmerici, lattiginosi, verdi, levitanti, e non ci accontentiamo di realtà precostituite. Zolle? Noi apriamo qualsiasi cosa. Tempesta? Scateniamo anche la calma, la bonaccia, la pacificità che dichiarano più vento, quando ci sta, quando ci va, di un ciclone tropicale. Noi folly, che sovvertiamo le vocali, che innalziamo persino beffardi canti agli dèi quando il buio della mente sembra inghiottire ogni cosa, quando l'oscuro si fa vincente. Non ci resta che fabbricarcela, una luce tutta nostra, una lampada di sopravvivenza nelle miniere del mondo. E allora sembriamo vacillare, sembriamo soccombere, ma ci rialziamo; dalle macerie nasce il vero moto. Folly e naty il trentasei a quadragesima, il trecentonove a tacabànda, il quarantamerda a talassìpora. E rivendichiamo il nostro dovere, il nostro piacere, il nostro orgasmo di sovvertire la realtà. Paghiamo per questo. Paghiamo un prezzo che voi non conoscete. Proserpina, sorella, ascoltaci; ce ne andiamo a ballare stasera, in culo a tutti; e ci inchiniamo al volere di altissimi tuoni che ci regolano il biostato con sguardi a pressioni immense, sconosciute, gentili.
Il testo è presentato con assecuzione al canto. La poesia originale di Alda Merini consta esclusivamente delle parti in caratteri normali; il resto del canto è in corsivo.