Il cerchio della vita
Sei caduto laggiù ai confini con l’orto
Sei caduto ma tu non eri ancor morto
Il vento e la pioggia ti han buttato per terra
Che schianto tremendo sembrava la guerra
Tocca a me farti a pezzi mi proteggo coi guanti
La motosega avvia la catena coi denti
Si arroventa la lama sul tuo tronco possente
Trema il mio braccio e controllo la mente
Scivola l’acqua sul tuo tronco spezzato
Suda il mio corpo e si spezza il mio fiato
Un disegno di anelli mi mostra i tuoi anni
Le primavere gli autunni ed i gelidi inverni
Nel prossimo brucerai restituendo il sole
Accumulato nel tempo silenzioso di parole
Sarà calore il tuo fuoco e la cenere concime
Nel cerchio della vita che non avrà mai fine
Sarà calore il tuo fuoco e la cenere concime
Nel cerchio della vita che non avrà mai fine
Sei caduto laggiù ai confini con l’orto
Sei caduto ma tu non eri ancor morto
Il vento e la pioggia ti han buttato per terra
Che schianto tremendo sembrava la guerra
Tocca a me farti a pezzi mi proteggo coi guanti
La motosega avvia la catena coi denti
Si arroventa la lama sul tuo tronco possente
Trema il mio braccio e controllo la mente
Scivola l’acqua sul tuo tronco spezzato
Suda il mio corpo e si spezza il mio fiato
Un disegno di anelli mi mostra i tuoi anni
Le primavere gli autunni ed i gelidi inverni
Nel prossimo brucerai restituendo il sole
Accumulato nel tempo silenzioso di parole
Sarà calore il tuo fuoco e la cenere concime
Nel cerchio della vita che non avrà mai fine
Sarà calore il tuo fuoco e la cenere concime
Nel cerchio della vita che non avrà mai fine
envoyé par Paolo Rizzi - 20/12/2024 - 16:40
×
Uno speciale augurio a tutti voi di Antiwarsongs che curate questo sito che è un patrimonio di canzoni, storie, analisi, insomma CULTURA.
BUON ANNO
Il terreno era stato abbandonato per anni e le robinie hanno avuto buon gioco a riprodursi e svilupparsi. Un vero tesoro di legna da ardere. Ci sono delle piante che hanno più di 30 anni con dimensioni impressionanti, hanno raggiunto i venticinque metri di altezza con tronchi con almeno ottanta centimetri di diametro.
Con molto lavoro e attenzione le sto abbattendo e ne ricavo una quarantina di quintali di legna all’anno per alimentare la “stube” che mi riscalda tutta la casa.
E’un lavoro che mi piace molto, ma piace un po’ meno alle mie spalle che si sono usurate con innumerevoli colpi di scure per ricavarne i ciocchi da ardere. Ora non spacco più mi limito a tagliare con la motosega e mi faccio aiutare da giovani amici africani, Mamour o Jean Jaques per spaccarla.
Il bosco intanto pian piano si riproduce con nuove piante giovani che ricolonizzano lo spazio che si libera dal taglio. Ho lasciato solo una decina delle giganti piante madri e queste ultimamente sono esposte a fenomeni temporaleschi molto più violenti che nel passato.
E’ accaduto così che due anni fa, in agosto, una enorme robinia si è schiantata spezzandosi a circa mezzo metro dalla base, all’altezza in cui una attiva colonia di calabroni si era insediata nel tronco, evidentemente già compromesso e più fragile, per fare il suo nido.
Ho lasciato l’albero a terra per mesi aspettando l’inverno in cui le vespe e i calabroni si estinguono, fatto salvo le future regine che migrano in cerca di un luogo in cui andare in letargo fino a primavera per poi dare inizio ad una nuova colonia. Finalmente, passato il pericolo delle punture, facendomi aiutare ho potuto fare a pezzi il grande tronco.
La cosa che mi piace di questo lavoro di boscaiolo è il fascino di sentirmi parte di un ciclo vitale, che comprende ovviamente anche la morte, ma che si inserisce nel “cerchio della vita” che si rinnova nelle stagioni e negli anni.
Non provo dolore per gli ortaggi che sacrifico per nutrirmi, anzi mi fanno sentire bene perchè le precedenti operazioni di semina o trapianto delle piccole piantine assecondano il mio desiderio di vederle nascere, e crescere, così anche per gli alberi, il potere usufruire del calore del fuoco generato dal legno, dopo aver goduto della loro ombra, dell’ossigeno, della bellezza del paesaggio da loro creato, me li rende cari fino al loro trasformarsi in cenere con la quale concimo il terreno arricchendolo di potassio.
La mia robinia non è “la quercia caduta” di Giovanni Pascoli, non ho visto una capinera piangere per il suo nido perduto, ma ho provato lo stesso a mettere le emozioni che mi ha procurato in questa canzone.
di Giovanni Pascoli
Dov’era l’ombra, or se la quercia spande
morta, né più coi turbini tenzona.
La gente dice: “Or vedo: era pur grande!”
Pendono qua e là dalla corona
i nidietti della primavera.
Dice la gente: “Or vedo: era pur buona!”
Ognuno loda, ognuno taglia. A sera
ognuno col suo grave fascio va.
Nell’aria, un pianto… d’una capinera
che cerca il nido che non troverà