Come potrò dire
a mia madre
che ho paura?
La vita,
il domani,
il dopodomani
e le altre albe
mi troveranno
a tremare
mentre
nel mio cervello
l’ottovolante della critica
ha rotto i freni
e il personale
è ubriaco.
Ho paura,
tanta paura,
e non c’è nascondiglio possibile
o rifugio sicuro.
Ho licenziato
Iddio
e buttato via una donna.
La mia patria
è come la mia intelligenza:
esiste, ma non la conosco.
Ho voluto
il vuoto.
Ho fatto
il vuoto.
Sono solo
e ho freddo
e gli altri nudi
ridono forte
mentre io striscio
verso un fuoco che non mi scalda.
Guardo avvilito
questo deserto
di grattacieli
e attonito
vedo sfilare
milioni di esseri di vetro.
Come potrò
dire a mia madre
che ho paura?
La vita,
il suo motivo,
e il cielo
e la terra
io non posso raggiungerli
e toccare…
Sono sospeso a un filo
che non esiste
e vivo la mia morte
come un anticipo terribile.
Mi è stato concesso
di non portare addosso
vermi
o lezzi o rosari.
Ho barattato
con una maledizione
vecchia ma in buono stato.
Fu un errore.
Non desto nemmeno
più la pietà
di una vergine e non posso
godere il dolore
di chi mi amava.
Se urlo chi sono,
dalla mia gola
escono deformati e trasformati
i suoni che vengono sentiti
come comuni discorsi.
Se scrivo il mio terrore,
chi lo legge teme di rivelarsi e fugge
per ritornare dopo aver comprato
del coraggio.
Solo quando
scadrà l’affitto
di questo corpo idiota
avrò un premio.
Sarò citato
di monito a coloro
che credono sia divertente
giocare a palla
col proprio cervello
riuscendo a lanciarlo
oltre la riga
che qualcuno ha tracciato
ai bordi dell’infinito.
Come potrò dire a mia madre
che ho paura?
Insegnami,
tu che mi ascolti,
un alfabeto diverso
da quello della mia vigliaccheria.
a mia madre
che ho paura?
La vita,
il domani,
il dopodomani
e le altre albe
mi troveranno
a tremare
mentre
nel mio cervello
l’ottovolante della critica
ha rotto i freni
e il personale
è ubriaco.
Ho paura,
tanta paura,
e non c’è nascondiglio possibile
o rifugio sicuro.
Ho licenziato
Iddio
e buttato via una donna.
La mia patria
è come la mia intelligenza:
esiste, ma non la conosco.
Ho voluto
il vuoto.
Ho fatto
il vuoto.
Sono solo
e ho freddo
e gli altri nudi
ridono forte
mentre io striscio
verso un fuoco che non mi scalda.
Guardo avvilito
questo deserto
di grattacieli
e attonito
vedo sfilare
milioni di esseri di vetro.
Come potrò
dire a mia madre
che ho paura?
La vita,
il suo motivo,
e il cielo
e la terra
io non posso raggiungerli
e toccare…
Sono sospeso a un filo
che non esiste
e vivo la mia morte
come un anticipo terribile.
Mi è stato concesso
di non portare addosso
vermi
o lezzi o rosari.
Ho barattato
con una maledizione
vecchia ma in buono stato.
Fu un errore.
Non desto nemmeno
più la pietà
di una vergine e non posso
godere il dolore
di chi mi amava.
Se urlo chi sono,
dalla mia gola
escono deformati e trasformati
i suoni che vengono sentiti
come comuni discorsi.
Se scrivo il mio terrore,
chi lo legge teme di rivelarsi e fugge
per ritornare dopo aver comprato
del coraggio.
Solo quando
scadrà l’affitto
di questo corpo idiota
avrò un premio.
Sarò citato
di monito a coloro
che credono sia divertente
giocare a palla
col proprio cervello
riuscendo a lanciarlo
oltre la riga
che qualcuno ha tracciato
ai bordi dell’infinito.
Come potrò dire a mia madre
che ho paura?
Insegnami,
tu che mi ascolti,
un alfabeto diverso
da quello della mia vigliaccheria.
Contributed by L'Anonimo Toscano del XXI Secolo - 2024/12/17 - 19:39
Language: English
English version / Versione inglese / Version anglaise / Englanninkielinen versio:
Riccardo Venturi, 18-12-2024 01:19
Riccardo Venturi, 18-12-2024 01:19
Heroin
How can I tell
To my mother
I am afraid?
Life,
Tomorrow,
The future
And other dawns
Will find me
Trembling
While
In my brain
The rollercoaster
Of self-consciousness
Broke brakes
And all the operators
Are drunk.
I am afraid.
I am frightened,
And there is no possible
Hiding place,
Or a safe shelter.
I got rid of God,
I left a woman behind.
My homeland
Is like my mind:
It has being, but I don’t know it.
I wanted
The void.
I made
The void.
I am alone
And I am cold
And the others, naked,
Are laughing loudly
While I am creeping,
Crawling to a fire that doesn’t warm me.
I am watching sullenly
At this desert
Of skyscrapers
I am astonished
And can see millions
Of glass entities
Parading before me.
How can I tell
To my mother
I am afraid?
I cannot reach
Nor touch
Life,
Its reason,
The sky
And the earth.
I am hanging by
An imaginary thread,
A terrible outlook
On the death
That I am now living through.
I am not eaten by worms.
I don’t stink.
No rosary and prayers.
Thanks for all this,
I give you a curse
In exchange,
An old one, sure,
But still in good condition.
It was a mistake.
I no longer even
Awaken a virgin’s pity,
Nor can I enjoy
The sorrow of those who loved me.
When I shout who I am,
The sounds normally perceived
As common words and phrases
Come out altered, distorted.
When I write down my horror,
The readers fear revealing and run away,
Then they come back when they’ve bought
Some courage.
Only when the lease
Of this idiot’s body expires
I’ll get a prize.
I will serve as a warning
To those who think it’s funny
To juggle with one’s own brain
Throwing it then like a ball
Over the line
That someone has drawn
At the edges of infinity.
How can I tell
To my mother
I am afraid?
If you are listening to me,
Please teach me
An alphabet other than
My cowardice.
How can I tell
To my mother
I am afraid?
Life,
Tomorrow,
The future
And other dawns
Will find me
Trembling
While
In my brain
The rollercoaster
Of self-consciousness
Broke brakes
And all the operators
Are drunk.
I am afraid.
I am frightened,
And there is no possible
Hiding place,
Or a safe shelter.
I got rid of God,
I left a woman behind.
My homeland
Is like my mind:
It has being, but I don’t know it.
I wanted
The void.
I made
The void.
I am alone
And I am cold
And the others, naked,
Are laughing loudly
While I am creeping,
Crawling to a fire that doesn’t warm me.
I am watching sullenly
At this desert
Of skyscrapers
I am astonished
And can see millions
Of glass entities
Parading before me.
How can I tell
To my mother
I am afraid?
I cannot reach
Nor touch
Life,
Its reason,
The sky
And the earth.
I am hanging by
An imaginary thread,
A terrible outlook
On the death
That I am now living through.
I am not eaten by worms.
I don’t stink.
No rosary and prayers.
Thanks for all this,
I give you a curse
In exchange,
An old one, sure,
But still in good condition.
It was a mistake.
I no longer even
Awaken a virgin’s pity,
Nor can I enjoy
The sorrow of those who loved me.
When I shout who I am,
The sounds normally perceived
As common words and phrases
Come out altered, distorted.
When I write down my horror,
The readers fear revealing and run away,
Then they come back when they’ve bought
Some courage.
Only when the lease
Of this idiot’s body expires
I’ll get a prize.
I will serve as a warning
To those who think it’s funny
To juggle with one’s own brain
Throwing it then like a ball
Over the line
That someone has drawn
At the edges of infinity.
How can I tell
To my mother
I am afraid?
If you are listening to me,
Please teach me
An alphabet other than
My cowardice.
Language: Italian
Fabrizio De André : Cantico dei drogati
1968. Testo di Fabrizio De André e Riccardo Mannerini.
Musica e arrangiamento di Gian Piero Reverberi
Album: Tutti morimmo a stento
E’ il 1968, il fatale e fatidico sessantotto. Una generazione intera si rivolta, si ribella, alza la testa. Nel frattempo, la droga sembra essere ancora una cosa lontana, poco diffusa, piuttosto un vizio di giovani ricchi che se la potevano permettere. Eppure, Fabrizio De André se ne accorge, sulla scorta (o “appunto”) del suo amico Riccardo Mannerini. Una canzone dalla quale promana un vuoto sovrumano, forse acuito dall’architettura musicale quasi barocca di Gian Piero Reverberi. Non è escluso che De André, che era -sarà bene ricordarlo- un giovane dell’altissima borghesia genovese, abbia constatato gli effetti dell’eroina su qualcuno che conosceva; ma più che altro su se stesso, come ebbe ad ammettere onestamente. Anche se la sua droga non era l’eroina, ma l’alcool. Il testo rielaborato a partire dalla poesia di Mannerini rimane comunque crudo e essenziale, anche se non al livello dell’originale. Non c’è più Dio, non c’è più amore, non c’è più comunicazione, non c’è più umanità. Soltanto fantasmi, costruiti dalla propria mente, che opprimono con la loro presenza inquietante e sinistra. La supplica finale, che è una delle poche parti mantenute dell’originale di Mannerini, sembra presupporre però un barlume di speranza e di fiducia nei propri simili.
Si stava facendo largo, il problema spinoso e concreto della dipendenza da sostanze stupefacenti. Riccardo Mannerini non ci andava mai per il sottile e per vie traverse, nei suoi “appunti” che scriveva a mano su quaderni, con lettere enormi perché non ci vedeva quasi più. Descrive con precisione agghiacciante gli effetti surreali, fisici e emotivi, dell’assunzione di sostanze che alterano la percezione della realtà. Mannerini è un poeta che non fa “poesia” in senso stretto, e proprio per questo lo ho avvicinato a Katerina Gogou. Parla di tematiche dure, scabrose, prosaiche, con un linguaggio asciutto e crudo, mostrando peraltro una grande vicinanza a figure marginali e degradate della società (che De André avrebbe fatto sue fino all’ultimo). L’intervento testuale di De André “svezza” la poesia al brutto concreto, attribuendo liricità a ciò che, perlomeno in Italia, non ne aveva mai avuto prima.
Intuire, osservare. Ad esempio, che la droga, ed in particolare l’eroina, stanno cominciando a diffondersi sempre di più, e a prezzi sempre più bassi. Poteri, potentati e mafie stanno iniziando a inondare il mondo; per fare denaro a palate, ovviamente, e per giochi socioeconomici e bellici di portata planetaria. Il “vizio dei ricchi” si sta trasformando anche in un efficacissimo e capillare sistema di controllo, specialmente su una generazione che sta sfidando il sistema nella sua interezza. Che sta facendo una Rivoluzione che fa veramente paura, perché totale e non limitata ai meccanismi politici e di classe. Arrivano, assieme alle droghe, le “filosofie orientali”, i “nirvana”, le "religioni" e tutta la paccottiglia relativa, tutte le carabattole cui partecipano, più o meno inconsapevolmente, anche artisti e musicisti di valore, in nome di una “liberazione” agognata, e che invece rende ancora più schiavi. Comincia lo sterminio capillare di quella generazione: l’eroina è parte fondamentale della repressione. Giugno ‘73, lo stesso mese di una famosa canzone di André: a Torino si ha il primo morto per overdose in Italia. Lo seguiranno a migliaia e migliaia. [RV]
1968. Testo di Fabrizio De André e Riccardo Mannerini.
Musica e arrangiamento di Gian Piero Reverberi
Album: Tutti morimmo a stento
“Riccardo Mannerini era un altro mio grande amico. Era quasi cieco perché’ quando navigava su una nave dei Costa una caldaia gli era esplosa in faccia. E’ morto suicida, molti anni dopo, senza mai ricevere alcun indennizzo. Ha avuto brutte storie con la giustizia perché’ era un autentico libertario, e cosi’ quando qualche ricercato bussava alla sua porta lui lo nascondeva in casa sua. E magari gli curava le ferite e gli estraeva i proiettili che aveva in corpo. Abbiamo scritto insieme il Cantico dei Drogati, che per me, che ero totalmente dipendente dall’alcool, ebbe un valore liberatorio, catartico. Pero’ il testo non mi spaventava, anzi, ne ero compiaciuto. E’ una reazione frequente tra i drogati quella di compiacersi del fatto di drogarsi. Io mi compiacevo di bere, anche perché’ grazie all’alcool la fantasia viaggiava sbrigliatissima.” - Fabrizio De André.
E’ il 1968, il fatale e fatidico sessantotto. Una generazione intera si rivolta, si ribella, alza la testa. Nel frattempo, la droga sembra essere ancora una cosa lontana, poco diffusa, piuttosto un vizio di giovani ricchi che se la potevano permettere. Eppure, Fabrizio De André se ne accorge, sulla scorta (o “appunto”) del suo amico Riccardo Mannerini. Una canzone dalla quale promana un vuoto sovrumano, forse acuito dall’architettura musicale quasi barocca di Gian Piero Reverberi. Non è escluso che De André, che era -sarà bene ricordarlo- un giovane dell’altissima borghesia genovese, abbia constatato gli effetti dell’eroina su qualcuno che conosceva; ma più che altro su se stesso, come ebbe ad ammettere onestamente. Anche se la sua droga non era l’eroina, ma l’alcool. Il testo rielaborato a partire dalla poesia di Mannerini rimane comunque crudo e essenziale, anche se non al livello dell’originale. Non c’è più Dio, non c’è più amore, non c’è più comunicazione, non c’è più umanità. Soltanto fantasmi, costruiti dalla propria mente, che opprimono con la loro presenza inquietante e sinistra. La supplica finale, che è una delle poche parti mantenute dell’originale di Mannerini, sembra presupporre però un barlume di speranza e di fiducia nei propri simili.
Si stava facendo largo, il problema spinoso e concreto della dipendenza da sostanze stupefacenti. Riccardo Mannerini non ci andava mai per il sottile e per vie traverse, nei suoi “appunti” che scriveva a mano su quaderni, con lettere enormi perché non ci vedeva quasi più. Descrive con precisione agghiacciante gli effetti surreali, fisici e emotivi, dell’assunzione di sostanze che alterano la percezione della realtà. Mannerini è un poeta che non fa “poesia” in senso stretto, e proprio per questo lo ho avvicinato a Katerina Gogou. Parla di tematiche dure, scabrose, prosaiche, con un linguaggio asciutto e crudo, mostrando peraltro una grande vicinanza a figure marginali e degradate della società (che De André avrebbe fatto sue fino all’ultimo). L’intervento testuale di De André “svezza” la poesia al brutto concreto, attribuendo liricità a ciò che, perlomeno in Italia, non ne aveva mai avuto prima.
Intuire, osservare. Ad esempio, che la droga, ed in particolare l’eroina, stanno cominciando a diffondersi sempre di più, e a prezzi sempre più bassi. Poteri, potentati e mafie stanno iniziando a inondare il mondo; per fare denaro a palate, ovviamente, e per giochi socioeconomici e bellici di portata planetaria. Il “vizio dei ricchi” si sta trasformando anche in un efficacissimo e capillare sistema di controllo, specialmente su una generazione che sta sfidando il sistema nella sua interezza. Che sta facendo una Rivoluzione che fa veramente paura, perché totale e non limitata ai meccanismi politici e di classe. Arrivano, assieme alle droghe, le “filosofie orientali”, i “nirvana”, le "religioni" e tutta la paccottiglia relativa, tutte le carabattole cui partecipano, più o meno inconsapevolmente, anche artisti e musicisti di valore, in nome di una “liberazione” agognata, e che invece rende ancora più schiavi. Comincia lo sterminio capillare di quella generazione: l’eroina è parte fondamentale della repressione. Giugno ‘73, lo stesso mese di una famosa canzone di André: a Torino si ha il primo morto per overdose in Italia. Lo seguiranno a migliaia e migliaia. [RV]
Ho licenziato Dio,
gettato via un amore
per costruirmi il vuoto
nell’anima e nel cuore.
Le parole che dico
non han più forma né accento,
si trasformano i suoni
in un sordo lamento.
Mentre fra gli altri nudi
io striscio verso un fuoco
che illumina i fantasmi
di questo osceno giuoco.
Chi mi riparlerà
di domani luminosi
dove i muti canteranno
e taceranno i noiosi?
Quando riascolterò
il vento tra le foglie
sussurrare i silenzi
che la sera raccoglie?
Io, che non vedo più
che folletti di vetro
che mi spiano davanti
che mi ridono dietro
Perché non hanno fatto
delle grandi pattumiere
per i giorni già usati,
per queste ed altre sere?
E chi, chi sarà mai
il buttafuori del sole
chi lo spinge ogni giorno
sulla scena alle prime ore?
E soprattutto chi
e perché mi ha messo al mondo,
dove vivo la mia morte
con un anticipo tremendo?
Quando scadrà l’affitto
di questo corpo idiota
allora avrò il mio premio
come una buona nota.
Mi citeran di monito
a chi crede sia bello
giocherellare a palla
con il proprio cervello
Cercando di lanciarlo
oltre il confine stabilito
che qualcuno ha tracciato
ai bordi dell’infinito.
Tu che m’ascolti, insegnami
un alfabeto che sia
differente da quello
della mia vigliaccheria.
gettato via un amore
per costruirmi il vuoto
nell’anima e nel cuore.
Le parole che dico
non han più forma né accento,
si trasformano i suoni
in un sordo lamento.
Mentre fra gli altri nudi
io striscio verso un fuoco
che illumina i fantasmi
di questo osceno giuoco.
Come potrò
Dire a mia madre
Che ho paura?
Dire a mia madre
Che ho paura?
Chi mi riparlerà
di domani luminosi
dove i muti canteranno
e taceranno i noiosi?
Quando riascolterò
il vento tra le foglie
sussurrare i silenzi
che la sera raccoglie?
Io, che non vedo più
che folletti di vetro
che mi spiano davanti
che mi ridono dietro
Come potrò
Dire a mia madre
Che ho paura?
Dire a mia madre
Che ho paura?
Perché non hanno fatto
delle grandi pattumiere
per i giorni già usati,
per queste ed altre sere?
E chi, chi sarà mai
il buttafuori del sole
chi lo spinge ogni giorno
sulla scena alle prime ore?
E soprattutto chi
e perché mi ha messo al mondo,
dove vivo la mia morte
con un anticipo tremendo?
Come potrò
Dire a mia madre
Che ho paura?
Dire a mia madre
Che ho paura?
Quando scadrà l’affitto
di questo corpo idiota
allora avrò il mio premio
come una buona nota.
Mi citeran di monito
a chi crede sia bello
giocherellare a palla
con il proprio cervello
Cercando di lanciarlo
oltre il confine stabilito
che qualcuno ha tracciato
ai bordi dell’infinito.
Come potrò
Dire a mia madre
Che ho paura?
Dire a mia madre
Che ho paura?
Tu che m’ascolti, insegnami
un alfabeto che sia
differente da quello
della mia vigliaccheria.
Contributed by L'Anonimo Toscano del XXI Secolo - 2024/12/17 - 21:12
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Poesia di / A poem by / Poème de: Riccardo Mannerini
Riccardo Mannerinin runo
Con colpevole ritardo, un ritardo d’una quarantacinquina d’anni, credo sia venuto il tempo di “presentare” a questo sito Riccardo Mannerini. Come come come?!? “Presentare” Riccardo Mannerini? S’è già, a rigore, presentato da solo, ad esempio con la Ballata per un ferroviere, ascritta al “Gruppo Sei Genova”, da lui formato a sue spese per incidere un disco di cui non fu venduta neanche mezza copia. S’è presentato aleggiando sul suo amico Fabrizio De André, una lunga amicizia finita poi malissimo come sovente finiscono le più grandi amicizie, cioè nel rifiuto e nel silenzio.
Riccardo Mannerini in pillole. Nato a Genova il 28 ottobre 1927, cinque anni esatti dopo la “Marcia su Roma” e tre anni dopo la nascita di mio padre, da una famiglia napoletana di condizioni agiate (la madre violinista, il padre militare di carriera). All’età di diciassette anni, nel 1944, deportato in Germania come operaio per l’ “organizzazione Todt”, esattamente come in quel periodo succedeva a tale Georges Brassens. Nel campo di lavoro conosce un operaio libertario che lo inizia ai princìpi dell’Anarchia. Insieme a lui, sabotano i pezzi durante la lavorazione. Nel dopoguerra inizia gli studi di medicina, interrotti per povertà; di quegli studi si servirà però per curare alla meglio e estrarre proiettili dal corpo di pregiudicati ospitati e nascosti a volte a casa sua. La famiglia è rovinata, conduce una vita disordinata e a volte dorme in una barca di un amico pescatore. Allora s’imbarca su cargo mercantili come addetto alle caldaie e ai motori, e comincia, letteralmente, a girare i Sette Mari. Per un attentato dimostrativo a un consolato spagnolo gli viene rifiutato però il visto d’entrata negli Stati Uniti. Ad un certo punto, dai cargo passa alle navi bananiere e conosce l’Africa Orientale, allora ancora, in parte, sotto mandato italiano. Durante le ore, i giorni, i mesi a bordo prende appunti su quadernacci bisunti, finché qualcuno (un amico, un’amica, chissà) non gli fa notare che quegli appunti sono poesie. Comincia allora a inviare quegli “appunti poetici” a riviste e concorsi, ma preferisce usarli per fare colpo sulle donne, o li regala ad amici che glieli chiedono col medesimo scopo, non firmandoli nemmeno. Poi si arriva al 1961, quando naviga per gli armatori Costa (gli stessi della Costa Concordia). Per un’avaria in sala macchine, fuoriesce vapore incandescente da una caldaia, che lo prende in pieno e particolarmente in faccia. Rimane quasi cieco per sempre. Non verrà mai indennizzato. Sbarcato, torna a Genova dove difende strenuamente i pescatori del quartiere Foce (quello dove, ad esempio, si trova Piazza Alimonda, o Carlo Giuliani) affinché non perdano il diritto d’approdo e la spiaggia; sostiene i Vigili del Fuoco perché abbiano più elicotteri; non ha un soldo, ma promuove un premio letterario in ricordo di una giovane amica morta d’embolia; fonda una società, chiamata “Misci e Liberi” (misci vuol dire “Poveri” in dialetto genovese), che promuove incontri e esibizioni sportive. L’amicizia con De André era già iniziata. Ha non di rado brutte storie con la Giustizia; non è un anarchico all’acqua di rose. Dall’amicizia con De André nasceranno alcune canzoni, diventate famosissime perché le hanno, appunto, interpretate De André e i New Trolls; con De André l’amicizia, per un periodo, si trasforma addirittura in convivenza. Riccardo Mannerini non è soltanto cieco, è anche malato; entra ed esce dagli ospedali, esce ed entra. Continua a bere come una cisterna. Nel 1967, un altro suo grande amico, Luigi Tenco, si suicida in margine al Festival di Sanremo; un’amicizia andata avanti nonostante le feroci discussioni ideologiche tra il Mannerini, anarchico senza compromessi, e il cantautore piemontese marxista. Nel 1969 scrive la canzone su Pinelli defenestrato a Milano; divieto di trasmetterla su tutto il territorio nazionale, e indagine giudiziaria. Di quel che combinerà Riccardo Mannerini nel campo della musica e della canzone , si avrà meglio a parlare in seguito. Finisce l’amicizia con De André, forse anche per motivi politici e ideali. Depressione. Disperazione. Solitudine. Malattia. Cecità. Che cosa voglia dire la cecità, chi scrive l’ha capito per qualche mese, per due banali cataratte; figuriamoci uno che sa di restare cieco per sempre, senza possibilità. E’ sposato con la scrittrice e poetessa Rita Serando, che possiede anche una palestra sanitaria e dove Riccardo Mannerini si adatta a lavorare come fisioterapista. Il 26 marzo 1980 Riccardo Mannerini decide che è abbastanza, e si suicida proprio nella palestra della moglie. Fine delle pillole, purtroppo -credo- in gran parte molto indigeste.
Riccardo Mannerini era fatto della stessa materia di Katerina Gogou. Persino lo stile di scrittura li avvicina; non quello delle canzoni, ché le canzoni sono venute dopo e mediate, rielaborate da altri. Quello delle poesie, degli “appunti”. E sono quelle che, via via, si andranno qui a presentare. Katerina Gogou, anch’ella morta suicida perché gli anarchici si suicidano piuttosto spesso, andava su e giù per Patissìon; Riccardo Mannerini, per il mare. La sua materia è fatta anche di Joseph Conrad e del cuore di tenebra. Cominciamo quindi con un “Extra”, la sua “Eroina” dal quale nacque il “Cantico dei Drogati” di De André (album: “Tutti morimmo a stento”, 1968). Ci sarà, naturalmente, anche quello in questa pagina; ma ho voluto partire dall’originale, sul quale De André impiantò la sua droga personale, l’alcool. Per ora mi fermo, perché vorrei poi distribuire la materia di Mannerini nelle altre pagine che gli saranno dedicate. La poesia fu pubblicata postuma, altra caratteristica degli anarchici nella loro variante poetica o comunque artistica: le loro cose, generalmente, vengono conosciute e pubblicate dopo che hanno fatto il salto nel vastissimo nulla. In particolare, fa parte delle “Poesie da cantare”, pubblicato nel 1980 dall’editore Tolozzi di Genova. Dovrebbe essere stata scritta nel 1967 o 1968. [RV]
Nota necessaria. Ripiglio questa cosa, e ripiglierò quelle a venire, in gran parte da un volume capitale: Un poeta cieco di rabbia, a cura di Claudio Pozzani e Mauro Macario; Genova, Liberodiscrivere, giugno 2004. E’ uno dei volumi che Adriana ha voluto farmi avere dopo aver fatto il suo, di salti nel vastissimo nulla. Tutto questo le è dedicato.
Recitata da Claudia Pastorino.