Le case, le pietre
ed il carbone dipingeva
di nero il mondo.
Il sole nasceva
ma io non lo vedevo
mai laggiù nel buio.
Nessuno parlava,
solo il rumore di una pala
che scava, che scava.
Le mani, la fronte
hanno il sudore
di chi muore
negli occhi, nel cuore,
c'è un vuoto grande
più del mare,
ritorna alla mente
il viso caro
di chi spera
questa sera
come tante
in un ritorno.
Tu, quando tornavo,
eri felice di rivedere
le mie mani
nere di fumo, bianche d'amore
Ma un' alba più nera,
mentre il paese
si risveglia,
il sordo fragore
ferma il respiro
di chi è fuori
paura, terrore,
sul viso caro
di chi spera
questa sera come tante
in un ritorno.
Io non ritornavo
e tu piangevi
e non poteva
il tuo sorriso
togliere il pianto
dal tuo bel viso.
Tu, quando tornavo,
eri felice di rivedere
le mie mani
nere di fumo, bianche d'amore.
ed il carbone dipingeva
di nero il mondo.
Il sole nasceva
ma io non lo vedevo
mai laggiù nel buio.
Nessuno parlava,
solo il rumore di una pala
che scava, che scava.
Le mani, la fronte
hanno il sudore
di chi muore
negli occhi, nel cuore,
c'è un vuoto grande
più del mare,
ritorna alla mente
il viso caro
di chi spera
questa sera
come tante
in un ritorno.
Tu, quando tornavo,
eri felice di rivedere
le mie mani
nere di fumo, bianche d'amore
Ma un' alba più nera,
mentre il paese
si risveglia,
il sordo fragore
ferma il respiro
di chi è fuori
paura, terrore,
sul viso caro
di chi spera
questa sera come tante
in un ritorno.
Io non ritornavo
e tu piangevi
e non poteva
il tuo sorriso
togliere il pianto
dal tuo bel viso.
Tu, quando tornavo,
eri felice di rivedere
le mie mani
nere di fumo, bianche d'amore.
Contributed by CCG/AWS Staff - 2007/12/6 - 11:39
Language: English
English version by Riccardo Venturi
December 6, 2007
December 6, 2007
A COAL MINE
The houses, the stones
and the coal painted
the world in black.
The sun rose
but I could never see it
down there in the dark.
Nobody spoke.
only the sound of a shovel
digging and digging.
Hands and fronts
dripping with the sweat
of men dying
in the eyes, in the heart
there's a void greater
than the sea,
it comes to the mind
the beloved image
of those hoping
this night,
as any night,
in a return.
You, when I came back home,
you were so happy
to see my hands again,
black with smoke, white with love
But on a blacker dawning
while the village
is awakening
a hollow rumble
cuts the breathing
to those outside.
Fear and terror
on the beloved faces
of those hoping
this night, as any night
in a return.
I was not returning,
you were crying
and your smile
could not dry
tears away from your eyes.
You, when I came back home,
you were so happy
to see my hands again,
black with smoke, white with love.
The houses, the stones
and the coal painted
the world in black.
The sun rose
but I could never see it
down there in the dark.
Nobody spoke.
only the sound of a shovel
digging and digging.
Hands and fronts
dripping with the sweat
of men dying
in the eyes, in the heart
there's a void greater
than the sea,
it comes to the mind
the beloved image
of those hoping
this night,
as any night,
in a return.
You, when I came back home,
you were so happy
to see my hands again,
black with smoke, white with love
But on a blacker dawning
while the village
is awakening
a hollow rumble
cuts the breathing
to those outside.
Fear and terror
on the beloved faces
of those hoping
this night, as any night
in a return.
I was not returning,
you were crying
and your smile
could not dry
tears away from your eyes.
You, when I came back home,
you were so happy
to see my hands again,
black with smoke, white with love.
Language: French
Version française de Riccardo Venturi
6 décembre 2007
6 décembre 2007
A LA FOSSE
Les maisons, les pierres
et le charbon peignait
le monde de noir.
Le soleil se levait
mais je ne pouvais jamais le voir
là bas dans le noir du fond.
Personne ne parlait,
seulement le bruit d'une pelle
qui creuse, qui creuse.
Les mains, les fronts
coulant la sueur
d'hommes qui meurent
dans les yeux, dans le cœur
un vide plus grand
que la mer,
l'esprit se souvient
des images aimées
de ceux qui espèrent
ce soir, comme tous les soirs
en un retour.
Toi, quand je rentrais,
tu étais heureuse
de revoir mes mains
noires de fumée, blanches d'amour
Mais une aube plus noire
quand le village
se réveille
un tremblement sourd
coupe le souffle
à ceux là dehors.
La peur, la terreur
sur les faces aimées
de ceux qui espèrent
ce soir, comme tous les soirs
en un retour.
Moi, je ne rentrais pas,
toi, tu pleurais
et ton sourire
n'arrivait pas
à secher les larmes
dans tes yeux.
Toi, quand je rentrais,
tu étais heureuse
de revoir mes mains
noires de fumée, blanches d'amour.
Les maisons, les pierres
et le charbon peignait
le monde de noir.
Le soleil se levait
mais je ne pouvais jamais le voir
là bas dans le noir du fond.
Personne ne parlait,
seulement le bruit d'une pelle
qui creuse, qui creuse.
Les mains, les fronts
coulant la sueur
d'hommes qui meurent
dans les yeux, dans le cœur
un vide plus grand
que la mer,
l'esprit se souvient
des images aimées
de ceux qui espèrent
ce soir, comme tous les soirs
en un retour.
Toi, quand je rentrais,
tu étais heureuse
de revoir mes mains
noires de fumée, blanches d'amour
Mais une aube plus noire
quand le village
se réveille
un tremblement sourd
coupe le souffle
à ceux là dehors.
La peur, la terreur
sur les faces aimées
de ceux qui espèrent
ce soir, comme tous les soirs
en un retour.
Moi, je ne rentrais pas,
toi, tu pleurais
et ton sourire
n'arrivait pas
à secher les larmes
dans tes yeux.
Toi, quand je rentrais,
tu étais heureuse
de revoir mes mains
noires de fumée, blanches d'amour.
Monongah, 1907: l'inferno in West Virginia
di Alessandro Portelli
il manifesto, 13.12.2007
Mi raccontava anni fa Francesco Mongiardo (gli americani lo pronunciavano “Frank Majority”), scalpellino, figlio di minatore immigrato dalla Campania in West Virginia: “Mio padre sbarcò a New York nel 1902. Dopo passato il controllo immigrazione, l’hanno mandati alla stazione centrale e lì nessuno sapeva l’inglese, e gli hanno messo delle targhette al collo con la destinazione – come bestiame, insomma. E li hanno marcati per il West Virginia. L’hanno messi sul treno, e spediti in West Virginia.” Li chiamavano blue trains: treni con i finestrini verniciati di blu, così che gli immigrati spediti a destinazione ignota non vedevano neanche dove stavano andando. Continua Frank Majority: “Arrivarono che era notte. A Beckley, credo, nel centro dei giacimenti di carbone. E lì accanto, lungo i binari, c’erano fornaci aperte che bruciavano il carbone per fare il coke. I fuochi accendevano il cielo e mio padre non aveva mai visto niente del genere. Vedevano quei fuochi e quando scesero dal treno videro un nero, grande e grosso, con una sbarra d’acciaio in mano, tutto sudato, che lavora il coke, e pensarono: Siamo arrivati all’inferno, e questo è il diavolo. Erano ragazzi, non avevano mai visto una cosa simile, in un paese sconosciuto…”
L’inferno in West Virginia c’era per davvero: nel 1903, il console d’Italia protestò presso il governo americano (erano altri tempi!) per le condizioni di semi-schiavitù in cui erano tenuti gli immigrati italiani in West Virginia. Non solo loro: “Medievale West Virginia!,” inveiva Mary “Mother” Jones, leggendaria sindacalista dei minatori americani: “quando arrivo in paradiso, voglio parlare a Dio del West Virginia.” In West Virginia, nel 1921, c’era la guerra civile: i minatori in rivolta armata si scontravano con gli eserciti privati dei padroni (i “contractors” di allora), e la nascente aviazione militare americana sperimentava su di loro la guerra aerea e i bombardamenti (per fortuna, in modo fallimentare). Nel 1912, a Paint Creek e Cabin Creek, i minatori si erano ribellati contro il potere feudale delle compagnie minerarie, la complicità delle istituzioni, la violenza della repressione, e per la prima volta avevano conquistato i diritti sindacali. E il 6 dicembre 1907, a Monongah, West Virginia, il più tragico disastro minerario della storia degli Stati Uniti aveva ucciso 361 uomini, di cui 171 italiani, provenienti soprattutto dal Molise, dall’Abruzzo, e poi da tutte le regioni dell’Italia meridionale.
Il Ministero degli Esteri ricorda il centenario di questa “tragedia dimenticata” (non da tutti, non da tutti!) con una ricca e documentata pubblicazione. Mi fa un po’ dissonanza la carta patinata, il “comitato per le celebrazioni” (celebrazioni?) zeppo di autorità. Ma mi commuove la poesia in epigrafe, del poeta immigrato Efrem Bartoletti, figlio di mezzadri umbri, per la fosca ingenuità del tono (“Quale bocca infernal fumida e nera \ e ripiena di Morte e di sciagura…”) ma anche perché è datata Hibbing, Minnesota, 1912 – lo stesso anno dello sciopero di Pant Creek e Cabin Creek, e la stessa città mineraria dove, trent’anni dopo, sarebbe nato Robert Zimmerman, detto Bob Dylan.
Soprattutto, sono di grande utilità l’appendice documentaria e molti dei saggi che costituiscono la parte più importante del libro. Così, Norberto Lombardi colloca Monongah in un contesto terrificante di massacri sul lavoro, con migliaia di vittime, compresi tantissimi italiani: “La tragedia di Monongah è… solo l’apice di un percorso cadenzato di lutti e di dolore… che denota una strutturale esposizione ai rischi e la mancanza di efficaci regole d protezione e di controlli.” Potrebbe averlo scritto adesso: Monongah non è lontano da Newurgh, dove morirono 38 mintaori nel 1886, o da Fairmont, dove nel 1968 ne morirono 78 minatori. Il disastro più recente, in Wet Virginia, è del 2006: dodici morti. Ma ho fra le mani il ritaglio di un giornale di quelle parti che dice, i disastri con molte vittime fanno notizia, ma in miniera si muore uno alla volta, tutti i giorni (ci vuole la strage della Thyssenkrupp a Torino perché media e politici si accorgano dei nostri morti quotidiani).
Ancora: Andreina De Clementi collega la vicenda degli italiani di Monongah alle ragioni storiche dell’emigrazione dalle campagne italiane; Rudolph Vecoli riassume la storia delle lotte e descrive le condizioni feudali a cui si ribellavano i minatori (“In queste company towns i baroni del carbone controllavano tutto, le capanne, le botteghe, i servizi sanitari, le scuole e le chiese, e talvolta anche lo stesso pensiero dei lavoratori. La paga degli operai non era in dollari correnti ma in script della compagnia”, redimibili solo allo spaccio aziendale dove ogni aumento di salario era compensato da un equivalente aumento dei prezzi. Stefano Luconi allarga lo sguardo a tutte le lotte degli operai italiani negli Stati Uniti, dai sigarai siciliani in Florida alle operaie tessili di Lawrence in Massachusetts (dove inventarono la frase “vogliamo il pane, e vogliamo anche le rose”): una storia davvero cancellata da a un’immagine oleografica, conservatrice e sbagliata degli italo-americani promossa da associazioni “etniche” e governanti interessati (d’altronde già molti anni fa Bruno Cartosio aveva parlato di queste vicende come componente di quel movimento operaio internazionale che troppo spesso viene spezzettato nelle narrazioni storiche paese per paese). E poi, l’appendice documentaria, con quei laceranti elenchi di nomi, le lettere, la scrittura faticosa delle lettere dei migranti riprodotte anastaticamente e quella burocratica delle istituzioni, il tira e molla sugli indennizzi fra Washington, Stati Uniti e comuni come Duronia del Sannio o Torella del Sannio, le fotografie, le lapidi, i monumenti commemorativi…
Una classica canzone di Alfredo Bandelli sugli emigranti li chiamava “i deportati della borghesia.” Deportati, importati, contrabbandati, rispediti indietro, ammazzati, archiviati se va bene con duecento dollari alle vedove o ai figli. Il paragone fra gli italiani emigrati e i rumeni o senegalesi immigrati è troppo inevitabile per avere bisogno di sottolinearlo. A me invece viene in mente un’altra cosa. Nello stesso anno in cui l’aviazione bombardava i minatori in West Virginia, gli aerei inglesi bombardavano a tappeto la città di Baghdad. Io credo che anche i morti di Monongah nel 1907 e quelli nell’Irak di oggi sono collegati, parte dello stesso processo: una rivoluzione industriale, una modernità, un dominio di classe che fin dall’inizio hanno mangiato energia, e per continuare a mangiarne massacrano le persone, dell’alto con le bombe nelle guerre per il petrolio in Medio Oriente o nel profondo delle miniere per il carbone. Ne sono morti ancora un centinaio, pochi giorni fa, in Cina.
di Alessandro Portelli
il manifesto, 13.12.2007
Mi raccontava anni fa Francesco Mongiardo (gli americani lo pronunciavano “Frank Majority”), scalpellino, figlio di minatore immigrato dalla Campania in West Virginia: “Mio padre sbarcò a New York nel 1902. Dopo passato il controllo immigrazione, l’hanno mandati alla stazione centrale e lì nessuno sapeva l’inglese, e gli hanno messo delle targhette al collo con la destinazione – come bestiame, insomma. E li hanno marcati per il West Virginia. L’hanno messi sul treno, e spediti in West Virginia.” Li chiamavano blue trains: treni con i finestrini verniciati di blu, così che gli immigrati spediti a destinazione ignota non vedevano neanche dove stavano andando. Continua Frank Majority: “Arrivarono che era notte. A Beckley, credo, nel centro dei giacimenti di carbone. E lì accanto, lungo i binari, c’erano fornaci aperte che bruciavano il carbone per fare il coke. I fuochi accendevano il cielo e mio padre non aveva mai visto niente del genere. Vedevano quei fuochi e quando scesero dal treno videro un nero, grande e grosso, con una sbarra d’acciaio in mano, tutto sudato, che lavora il coke, e pensarono: Siamo arrivati all’inferno, e questo è il diavolo. Erano ragazzi, non avevano mai visto una cosa simile, in un paese sconosciuto…”
L’inferno in West Virginia c’era per davvero: nel 1903, il console d’Italia protestò presso il governo americano (erano altri tempi!) per le condizioni di semi-schiavitù in cui erano tenuti gli immigrati italiani in West Virginia. Non solo loro: “Medievale West Virginia!,” inveiva Mary “Mother” Jones, leggendaria sindacalista dei minatori americani: “quando arrivo in paradiso, voglio parlare a Dio del West Virginia.” In West Virginia, nel 1921, c’era la guerra civile: i minatori in rivolta armata si scontravano con gli eserciti privati dei padroni (i “contractors” di allora), e la nascente aviazione militare americana sperimentava su di loro la guerra aerea e i bombardamenti (per fortuna, in modo fallimentare). Nel 1912, a Paint Creek e Cabin Creek, i minatori si erano ribellati contro il potere feudale delle compagnie minerarie, la complicità delle istituzioni, la violenza della repressione, e per la prima volta avevano conquistato i diritti sindacali. E il 6 dicembre 1907, a Monongah, West Virginia, il più tragico disastro minerario della storia degli Stati Uniti aveva ucciso 361 uomini, di cui 171 italiani, provenienti soprattutto dal Molise, dall’Abruzzo, e poi da tutte le regioni dell’Italia meridionale.
Il Ministero degli Esteri ricorda il centenario di questa “tragedia dimenticata” (non da tutti, non da tutti!) con una ricca e documentata pubblicazione. Mi fa un po’ dissonanza la carta patinata, il “comitato per le celebrazioni” (celebrazioni?) zeppo di autorità. Ma mi commuove la poesia in epigrafe, del poeta immigrato Efrem Bartoletti, figlio di mezzadri umbri, per la fosca ingenuità del tono (“Quale bocca infernal fumida e nera \ e ripiena di Morte e di sciagura…”) ma anche perché è datata Hibbing, Minnesota, 1912 – lo stesso anno dello sciopero di Pant Creek e Cabin Creek, e la stessa città mineraria dove, trent’anni dopo, sarebbe nato Robert Zimmerman, detto Bob Dylan.
Soprattutto, sono di grande utilità l’appendice documentaria e molti dei saggi che costituiscono la parte più importante del libro. Così, Norberto Lombardi colloca Monongah in un contesto terrificante di massacri sul lavoro, con migliaia di vittime, compresi tantissimi italiani: “La tragedia di Monongah è… solo l’apice di un percorso cadenzato di lutti e di dolore… che denota una strutturale esposizione ai rischi e la mancanza di efficaci regole d protezione e di controlli.” Potrebbe averlo scritto adesso: Monongah non è lontano da Newurgh, dove morirono 38 mintaori nel 1886, o da Fairmont, dove nel 1968 ne morirono 78 minatori. Il disastro più recente, in Wet Virginia, è del 2006: dodici morti. Ma ho fra le mani il ritaglio di un giornale di quelle parti che dice, i disastri con molte vittime fanno notizia, ma in miniera si muore uno alla volta, tutti i giorni (ci vuole la strage della Thyssenkrupp a Torino perché media e politici si accorgano dei nostri morti quotidiani).
Ancora: Andreina De Clementi collega la vicenda degli italiani di Monongah alle ragioni storiche dell’emigrazione dalle campagne italiane; Rudolph Vecoli riassume la storia delle lotte e descrive le condizioni feudali a cui si ribellavano i minatori (“In queste company towns i baroni del carbone controllavano tutto, le capanne, le botteghe, i servizi sanitari, le scuole e le chiese, e talvolta anche lo stesso pensiero dei lavoratori. La paga degli operai non era in dollari correnti ma in script della compagnia”, redimibili solo allo spaccio aziendale dove ogni aumento di salario era compensato da un equivalente aumento dei prezzi. Stefano Luconi allarga lo sguardo a tutte le lotte degli operai italiani negli Stati Uniti, dai sigarai siciliani in Florida alle operaie tessili di Lawrence in Massachusetts (dove inventarono la frase “vogliamo il pane, e vogliamo anche le rose”): una storia davvero cancellata da a un’immagine oleografica, conservatrice e sbagliata degli italo-americani promossa da associazioni “etniche” e governanti interessati (d’altronde già molti anni fa Bruno Cartosio aveva parlato di queste vicende come componente di quel movimento operaio internazionale che troppo spesso viene spezzettato nelle narrazioni storiche paese per paese). E poi, l’appendice documentaria, con quei laceranti elenchi di nomi, le lettere, la scrittura faticosa delle lettere dei migranti riprodotte anastaticamente e quella burocratica delle istituzioni, il tira e molla sugli indennizzi fra Washington, Stati Uniti e comuni come Duronia del Sannio o Torella del Sannio, le fotografie, le lapidi, i monumenti commemorativi…
Una classica canzone di Alfredo Bandelli sugli emigranti li chiamava “i deportati della borghesia.” Deportati, importati, contrabbandati, rispediti indietro, ammazzati, archiviati se va bene con duecento dollari alle vedove o ai figli. Il paragone fra gli italiani emigrati e i rumeni o senegalesi immigrati è troppo inevitabile per avere bisogno di sottolinearlo. A me invece viene in mente un’altra cosa. Nello stesso anno in cui l’aviazione bombardava i minatori in West Virginia, gli aerei inglesi bombardavano a tappeto la città di Baghdad. Io credo che anche i morti di Monongah nel 1907 e quelli nell’Irak di oggi sono collegati, parte dello stesso processo: una rivoluzione industriale, una modernità, un dominio di classe che fin dall’inizio hanno mangiato energia, e per continuare a mangiarne massacrano le persone, dell’alto con le bombe nelle guerre per il petrolio in Medio Oriente o nel profondo delle miniere per il carbone. Ne sono morti ancora un centinaio, pochi giorni fa, in Cina.
Languages: Neapolitan, Italian
Versione dei Renanera
[la parte del testo in napoletano è stata composta da Lino Vairetti]
Vento di terra, vento di mare (2019)
[la parte del testo in napoletano è stata composta da Lino Vairetti]
Vento di terra, vento di mare (2019)
Sti ccase, sti pprete
e stu gravone ca pittava e nir nir nir stu munno
‘O sole nasceva ma je nun ‘o vereva mai
Cca abbasce era scuro
Nisciuno parlava
Sulo ‘o rumore ‘e chesta pala
Ca scava, ca scava, ca scava…
Le case le pietre ed il carbone dipingeva
di nero il mondo
Il sole nasceva ma io non lo vedevo mai
laggiù era buio
Nessuno parlava solo il rumore di una pala
che scava, che scava
Le mani la fronte hanno il sudore di chi muore
Negli occhi nel cuore c’è un vuoto grande più del mare
Ritorna alla mente il viso caro di chi spera
Questa sera come tante in un ritorno.
Tu quando tornavo eri felice
Di rivedere le mie mani
Nere di fumo bianche d’amore.
Ma un’alba più nera mentre il paese si risveglia
Un sordo fragore ferma il respiro di chi è fuori
Paura terrore sul viso caro di chi spera
Questa sera come tante in un ritorno.
Io non ritornavo e tu piangevi
E non poteva il mio sorriso
Togliere il pianto dal tuo bel viso.
Tu quando tornavo eri felice
Di rivedere le mie mani
Nere di fumo bianche d’amore.
Sempe sti ccase, sempe sti pprete
e stu gravone ca pittava e nir nir nir stu munno
‘O sole nasceva ma je nun ‘o vereva
Pecchè cca abbasce è sempre scuro
Scuro scuro scuro scuro scuro scuro comme ‘e a notte
Nisciuno ca parlava, nisciuno murmuriava
Sulo ‘o rumore ‘e chesta pala
Ca scava, ca scava, ca scava… a notte e o juorno, ‘o juorno e a notte
Senza e se fermà, senza e se fermà…
e stu gravone ca pittava e nir nir nir stu munno
‘O sole nasceva ma je nun ‘o vereva mai
Cca abbasce era scuro
Nisciuno parlava
Sulo ‘o rumore ‘e chesta pala
Ca scava, ca scava, ca scava…
Le case le pietre ed il carbone dipingeva
di nero il mondo
Il sole nasceva ma io non lo vedevo mai
laggiù era buio
Nessuno parlava solo il rumore di una pala
che scava, che scava
Le mani la fronte hanno il sudore di chi muore
Negli occhi nel cuore c’è un vuoto grande più del mare
Ritorna alla mente il viso caro di chi spera
Questa sera come tante in un ritorno.
Tu quando tornavo eri felice
Di rivedere le mie mani
Nere di fumo bianche d’amore.
Ma un’alba più nera mentre il paese si risveglia
Un sordo fragore ferma il respiro di chi è fuori
Paura terrore sul viso caro di chi spera
Questa sera come tante in un ritorno.
Io non ritornavo e tu piangevi
E non poteva il mio sorriso
Togliere il pianto dal tuo bel viso.
Tu quando tornavo eri felice
Di rivedere le mie mani
Nere di fumo bianche d’amore.
Sempe sti ccase, sempe sti pprete
e stu gravone ca pittava e nir nir nir stu munno
‘O sole nasceva ma je nun ‘o vereva
Pecchè cca abbasce è sempre scuro
Scuro scuro scuro scuro scuro scuro comme ‘e a notte
Nisciuno ca parlava, nisciuno murmuriava
Sulo ‘o rumore ‘e chesta pala
Ca scava, ca scava, ca scava… a notte e o juorno, ‘o juorno e a notte
Senza e se fermà, senza e se fermà…
Contributed by Dq82 - 2022/1/9 - 16:16
×
Note for non-Italian users: Sorry, though the interface of this website is translated into English, most commentaries and biographies are in Italian and/or in other languages like French, German, Spanish, Russian etc.
[D'Adamo-De Scalzi-De Palo]
Album: New Trolls
Si compiono oggi, 6 dicembre 2007, cento anni dalla tragedia mineraria di Monongah, nello stato della West Virginia. Secondo le stime ufficiali le vittime furono 425, di cui 171 emigrati italiani. Per lo più abruzzesi e molisani; oggi, secondo quanto raccontatoci dalla nostra amministratrice Marcia, che vive in Molise, in tutta la regione si tengono commemorazioni di quell'immane strage; la quale, secondo stime e indagini meno ufficiali, reclamò un numero ancora più alto di morti.
Abbiamo quindi scelto anche noi, per il nostro percorso sull'emigrazione e sulla guerra del lavoro, di ricordarla con questa famosa canzone dei New Trolls che parla di una miniera, e del dramma di chi vi lavora e vi muore. Una canzone che non vogliamo dedicare solo alle vittime di Monongah, ma anche a quelle di Marcinelle dell'8 agosto 1956. A quelle di Ribolla del 4 maggio 1954, la cui storia fu narrata in un memorabile e terribile reportage da Luciano Bianciardi. E a tutte le altre che, ancora oggi, anno di grazia 2007, continuano a morire nelle miniere di tutto il mondo, dalla Cina all'Ucraina, dagli Stati Uniti al Sudafrica, in tutti i paesi del mondo, con un numero di vittime annuali che equivale, senza mezzi termini, a quello di una guerra. In condizioni spesso ancora disumane, senza neppure le più elementari norme di sicurezza.
La vogliamo dedicare anche a tutte le vittime, a tutti gli uomini e a tutte le donne che ogni giorno muoiono sul lavoro, non solo quello in miniera. Anche stamani, a Torino. Un operaio morto, altri sei in fin di vita. Il bollettino quotidiano. Oggi che si vota al parlamento il "pacchetto sicurezza" con le sue norme fasciste e razziste prese dal "governo di centrosinistra", della sicurezza che davvero sarebbe necessaria, quella di chi lavora, si continua tranquillamente a fregarsene, blaterando "moniti" e parole all'aria. Intanto i lavoratori continuano a crepare. Per loro l'unico pacchetto è una bara.
Tra le vittime italiane di Monongah risultò trovarsi anche un minatore che aveva il nome di Frank Vendetta. Quella che continuano a gridare questi, e tutti gli altri morti in nome dello sfruttamento e del profitto. E noi siamo con loro. Stiamo con chi lavora e chi lotta, non con i padroni. [CCG/AWS Staff]
it.wikipedia
Monongah è una cittadina negli Stati Uniti d'America, nella Virginia Occidentale, nella Contea di Marion, e fu teatro nel 1906 del più grande disastro minerario della storia americana. Nel censimento del 2000 contava 939 abitanti.
Il 6 dicembre 1907, alle ore 10,30 del mattino, nelle gallerie 6 e 8 della miniera di carbone situata a Monongah, cittadina che allora contava 3 mila abitanti, si verificò il più grave disastro minerario che la storia degli Stati Uniti d’America ricordi. L'incidente rappresenta anche la più grave sciagura mineraria italiana.
L'esplosione fu tanto violenta da essere avvertita a diversi chilometri di distanza, come pure le vibrazioni del terreno. Frammenti del tetto del locale motori, pesanti più di 50 kg, furono scagliati a oltre 150 metri. Una dozzina di medici accorse all'entrata della miniera, ma - tranne poche eccezioni - il loro intervento sfortunatamente non fu necessario, data l'assenza di sopravvissuti.
I componenti delle squadre di soccorso non poterono resistere all'interno della miniera per più di 15 minuti consecutivi a causa della mancanza di adeguati respiratori. Alcuni di essi perirono durante il loro intervento.
Per diversi giorni madri, mogli, fidanzate e sorelle sostarono in angosciosa attesa dinanzi all'ingresso dell'impianto, osservando, strillando e piangendo. Alcune pregavano, altre cantavano e altre ancora - nella disperazione - ridevano istericamente.
All'epoca della tragedia di Monongah la legislazione sulla sicurezza e igiene del lavoro nelle miniere degli Stati Uniti d'America era assai carente, e tale rimase per lungo tempo. Per i minatori era assai difficile migliorare le tremende condizioni in cui erano costretti a lavorare: tre italiani che nel 1879, a Eureka, in Nevada, avevano promosso uno sciopero per cambiarle, furono barbaramente linciati.
È sufficiente pensare che sino a pochi anni prima della strage del 1907 i minatori - come misura di sicurezza - erano soliti portare con sé delle gabbiette contenenti uccellini. Questi infatti, a causa della loro fragilità, in caso di presenza di gas sarebbero velocemente morti, segnalando in tal modo ai lavoratori l'esistenza di un imminente pericolo.
Nel 1910, sulla spinta del dramma di Monongah, il Congresso, allo scopo di condurre ricerche per ridurre il numero degli incidenti, istituì l'Ufficio delle Miniere (Bureau of Mines), un ente del Ministero dell'Ambiente (Department of the Interior). Infatti il rapporto della commissione presieduta dal medico legale Amos sottolineava la persistenza di problemi irrisolti riguardanti le esplosioni nelle minieri di carbone e raccomandava al Congresso appunto l'istituzione di un ufficio di indagini ("bureau of investigation and information").
Al Bureau of Mines furono però attribuiti poteri assai limitati e si dovette attendere il 1941 affinché gli fossero riconosciute autorità ispettive.
La commissione d'inchiesta della contea di Marion che fu istituita per indagare sulla sciagura rese pubbliche le proprie conclusioni nel pomeriggio del 16 gennaio 1908.
Nella loro relazione il coroner E. S. Amos e i suoi collaboratori confermarono le ipotesi già espresse sia nel rapporto degli ispettori minerari dello Stato dell'Ohio sia dal Capo Ispettore minerario James W. Paul: il disastro era da attribuire ad un'esplosione, la cui origine rimaneva ignota e controversa, verificatasi nella galleria 8.
Alcuni addossarono la colpa dell'esplosione ad un'imprudenza commessa da uno dei numerosi "raccoglitori d'ardesia" o "ragazzi dell'interruttore". Questi erano i giovanissimi aiutanti di dieci, dodici, quattordici anni che, grazie al "buddy system", non erano registrati in alcun elenco e scendevano nei pozzi assieme ai minatori.
In altre ricerche si ritiene che deflagrazione sarebbe stata innescata dalle scintille provenienti da un cavo elettrico tranciato da un carrello andato fuori controllo.
Secondo un'altra ipotesi, il giorno precedente il disastro le miniere rimasero chiuse e la Fairmont Coal Company, proprietaria dell'impianto, per risparmiare energia, tenne spenti gli aeratori. Ciò avrebbe determinato l'accumulo di gas che fu alla base dell'esplosione. Quest'ipotesi renderebbe comprensibile il rapido oblìo che seguì l'incidente. Infatti, se ciò fosse vero, la Fairmont Coal Company, potente e influente compagnia mineraria, avrebbe avuto ogni interesse ad "insabbiare" velocemente una catastrofe di cui si sarebbe resa responsabile.
Le cause del disastro rimangono tuttora sconosciute. L'estrema violenza della deflagrazione fa propendere per l'ipotesi secondo cui la sciagura sarebbe stata provocata da un'esplosione di grisou, il pericoloso gas delle miniere (Firedamp in inglese). Lo scoppio di tale gas è infatti caratterizzato dalla liberazione di notevoli quantità di energia ed ha spesso conseguenze. La pericolosità nelle miniere di carbone delle polveri finemente suddivise deriva da una delle proprietà dei solidi quando questi sono coinvolti nelle reazioni chimiche.
Come previsto dalla Commissione del coroner Amos nel 1908, l'assenza di sopravvissuti ha reso estremamente difficile - se non pressoché impossibile - la ricostruzione della dinamica della catastrofe.
La camera ardente fu allestita nell'edificio della First National Bank della città. Successivamente, per mancanza di spazio, centinaia di bare furono allineate di fronte all'edificio, nel corso principale della città. Nacquero discussioni sull'identificazione delle vittime e, più di una volta, una salma fu reclmata da due famiglie. Un cimitero speciale, presto riempito, fu ricavato sul fianco della brulla collina. File di bare aperte furono sepolte nel freddo suolo della West Virginia.
Le rovine delle miniere furono murate e molte delle nuove abitazioni dei minatori furono costruite sul versante della collina sopra la miniera.
La sciagura ebbe un'enorme eco nell'opinione pubblica del Paese. Il più grave disastro minerario statunitense, sino ad allora, era stato quello di Fayetteville, ancora nella Virginia Occidentale, giusto il 29 gennaio dell'anno prima. Ottanta vittime, allora. A Monongah si annunciavano quattro o cinque volte tanto. E la guerra dei numeri era appena all'inizio.
In un primo momento - secondo il rapporto della citata Commissione - sembrava che le vittime fossero "circa 350". Già nei giorni immediatamente successivi alcuni resoconti giornalistici parlarono però di 425 morti. Tale cifra divenne successivamente quella "ufficiale", confermata dai rapporti redatti dalla Monongah Mines Relief Committee, la commissione che provvide al risarcimento dei parenti dei minatori scomparsi.
Alla raccolta contribuì generosamente il magnate statunitense Andrew Carnegie e 17.500 dollari furono elargiti dalla Fairmont Coal Company, che successivamente erogò un'ulteriore somma ai minatori sopravvissuti. Non risulta che il Governo italiano abbia erogato fondi per i parenti delle vittime. Il 27 dicembre 1907 più di duemila quotidiani promossero una raccolta di fondi per aiutare le 250 vedove e i mille orfani lasciati dalle vittime. Essa fruttò circa centocinquantamila dollari che furono poi devoluti come sussidio agli sfortunati familiari dei minatori scomparsi.
Le 171 vittime "ufficiali" italiane erano emigrati da località molisane (un centinaio), calabresi (una quarantina) e abruzzesi (una trentina). È bene ricordare che gli Italiani e, in particolare i meridionali, non erano considerati bianchi ma molto vicino ai Neri. Tra i paesi più colpiti i molisani Frosolone (14 vittime), Duronia, Roccamandolfi, Bagnoli del Trigno, Torella del Sannio, i calabresi San Giovanni in Fiore (una trentina di vittime), San Nicola dell’Alto, Falerna, Strongoli, Gizzeria, Castrovillari e gli abruzzesi Atri, Civitella Roveto, Civita d'Antino, Canistro e la lucana Noepoli. Fra gli altri persero la vita anche il ponzano Luigi Feola, un bellunese di Vallesella e un piemontese di Premia. Il fratello di quest'ultimo, Giuseppe D'Andrea, sacerdote dell'Ordine degli Scalabriniani, aiutò il Reale Agente Consolare, Giuseppe Caldera, che era a Fairmont, a redarre centinaia di atti di morte.
Il numero dei caduti italiani fa della tragedia mineraria di Monongah una delle più gravi - se non la più grave - mai abbattutesi sulla comunità italiana: nel pur tristemente assai più noto disastro di Marcinelle perirono 262 vittime, 136 delle quali italiane. Monongah con i suoi morti rappresenta oggi l'icona del sacrificio dei nostri lavoratori costretti ad emigrare per poter sopravvivere.
A Monongah, una statua intitolata a Santa Barbara, patrona dei minatori commemora sia le vittime identificate (di cui viene riportato l'elenco) sia quelle rimaste senza nome. Il 16 Maggio 2006 il Comune di Falerna (CZ) ha erogato un contributo di 150,00 euro per la costruzione della statua.
Un impressionante monumento "naturale" è rappresentato dalla cosiddetta collina di carbone, un cumulo creato da Caterina Davia, madre di quattro figli e vedova di un minatore rimasto seppellito nella miniera. La donna, sconvolta dalla scomparsa del marito, ogni giorno, per ventinove anni, si sarebbe recata alla miniera, distante tre chilometri, per prelevare un sacco di carbone che avrebbe poi svuotato accanto alla propria casa. Riteneva che in tal modo avrebbe alleviato il peso del terreno che gravava sul marito lì sepolto.
Nessuno fra quanti erano presenti nella miniera si salvò. Il numero e l'identità della maggior parte degli scomparsi sono rimasti ignoti a causa della presenza di moltissimi minatori che all'ingresso in miniera non venivano registrati negli elenchi della Fairmont Coal Company, proprietaria dell'impianto e sussidiaria della Consolidated Coal Company. All'epoca, infatti, era in uso il citato buddy system: i minatori erano soliti avvalersi, e di ciò non erano obbligati a dare comunicazione al datore di lavoro, dell'aiuto di parenti - anche bambini - e amici con i quali poi dividevano la paga. La retribuzione infatti non era legata alle ore effettivamente lavorate ma alla quantitá di carbone portato in superficie. Monongah con i suoi morti rappresenta oggi l'icona del sacrificio dei nostri lavoratori costretti ad emigrare per poter sopravvivere.
Recentemente è stato realizzato il film-documentario "Monongah, Marcinelle americana" che ha attinto immagini storiche fornite dal Museo dell'Immigrazione di Ellis Island di New York, e da materiale fornito dal Museo dell'Emigrazione di Gualdo Tadino, dall'Istituto storico Ferruccio Parri di Bologna e dal Museo etnografico di Bomba.
A Frosolone (Isernia), in piazza Municipio, c'è un'epigrafe che ricorda il sacrificio dei quattordici frosolonesi.
La tragedia ebbe un tale effetto sulla comunità calabrese che ancor oggi, in quelle zone, quando si vuole indicare la drammaticità di un avvenimento, si usa dire che è una "minonga" e tuttora, nella zona di San Giovanni in Fiore, si utilizza l'espressione "non vado mica a minonga" quando si vuole intendere che non si ha intenzione di scomparire senza lasciare traccia.