Asimbonanga
Asimbonang' uMandela thina
Laph'ekhona
Laph'ehleli khona
Oh the sea is cold and the sky is grey
Look across the Island into the Bay
We are all islands till comes the day
We cross the burning water
Asimbonanga
Asimbonang' uMandela thina
Laph'ekhona
Laph'ehleli khona
A seagull wings across the sea
Broken silence is what I dream
Who has the words to close the distance
Between you and me
Asimbonanga
Asimbonang' uMandela thina
Laph'ekhona
Laph'ehleli khona
Steve Biko
Victoria Mxenge
Neil Aggett
Asimbonanga
Asimbonang 'umfowethu thina
Laph'ekhona
Laph'wafela khona
Hey wena
Hey wena nawe
Siyofika nini la' siyakhona
Asimbonang' uMandela thina
Laph'ekhona
Laph'ehleli khona
Oh the sea is cold and the sky is grey
Look across the Island into the Bay
We are all islands till comes the day
We cross the burning water
Asimbonanga
Asimbonang' uMandela thina
Laph'ekhona
Laph'ehleli khona
A seagull wings across the sea
Broken silence is what I dream
Who has the words to close the distance
Between you and me
Asimbonanga
Asimbonang' uMandela thina
Laph'ekhona
Laph'ehleli khona
Steve Biko
Victoria Mxenge
Neil Aggett
Asimbonanga
Asimbonang 'umfowethu thina
Laph'ekhona
Laph'wafela khona
Hey wena
Hey wena nawe
Siyofika nini la' siyakhona
Contributed by Riccardo Venturi - 2007/8/29 - 10:32
Language: English
La resa completa in inglese del testo
English complete lyrics
English complete lyrics
WE HAVE NOT SEEN HIM (MANDELA)
We have not seen him
We have not seen Mandela
In the place where he is
In the place where he is kept
Oh the sea is cold and the sky is grey
Look across the Island into the Bay
We are all islands till comes the day
We cross the burning water
We have not seen him
We have not seen Mandela
In the place where he is
In the place where he is kept
A seagull wings across the sea
Broken silence is what I dream
Who has the words to close the distance
Between you and me
We have not seen him
We have not seen Mandela
In the place where he is
In the place where he is kept
Steve Biko
Victoria Mxenge
Neil Aggett
We have not seen him
We have not seen our brother
In the place where he is
In the place where he died
Hey you!
Hey you and you as well
When will we arrive at our destination
We have not seen him
We have not seen Mandela
In the place where he is
In the place where he is kept
Oh the sea is cold and the sky is grey
Look across the Island into the Bay
We are all islands till comes the day
We cross the burning water
We have not seen him
We have not seen Mandela
In the place where he is
In the place where he is kept
A seagull wings across the sea
Broken silence is what I dream
Who has the words to close the distance
Between you and me
We have not seen him
We have not seen Mandela
In the place where he is
In the place where he is kept
Steve Biko
Victoria Mxenge
Neil Aggett
We have not seen him
We have not seen our brother
In the place where he is
In the place where he died
Hey you!
Hey you and you as well
When will we arrive at our destination
Contributed by Riccardo Venturi - 2007/8/29 - 10:49
Language: Italian
Versione italiana di Kiocciolina
NON LO ABBIAMO VISTO (MANDELA)
Non lo abbiamo visto
Non abbiamo visto Mandela
Nel posto in cui è
Nel posto in cui viene tenuto
Oh, il mare è freddo e il cielo è grigio
Guarda attraverso l'isola la Baia
Siamo tutti isole finché non verrà il giorno
In cui attraverseremo l'acqua bruciante
Non lo abbiamo visto
Non abbiamo visto Mandela
Nel posto in cui è
Nel posto in cui viene tenuto
Un gabbiano vola sul mare
L'infrangersi del silenzio è ciò che sogno
Chi ha le parole per dipanare la distanza
Tra te e me
Non lo abbiamo visto
Non abbiamo visto Mandela
Nel posto in cui è
Nel posto in cui viene tenuto
Steve Biko
Victoria Mxenge
Neil Aggett
Non lo abbiamo visto
Non abbiamo visto i nostri fratelli
Nel posto in cui è
Nel posto in cui è morto
Hey tu!
Hey tu, e anche tu
Quando arriveremo a destinazione?
Non lo abbiamo visto
Non abbiamo visto Mandela
Nel posto in cui è
Nel posto in cui viene tenuto
Oh, il mare è freddo e il cielo è grigio
Guarda attraverso l'isola la Baia
Siamo tutti isole finché non verrà il giorno
In cui attraverseremo l'acqua bruciante
Non lo abbiamo visto
Non abbiamo visto Mandela
Nel posto in cui è
Nel posto in cui viene tenuto
Un gabbiano vola sul mare
L'infrangersi del silenzio è ciò che sogno
Chi ha le parole per dipanare la distanza
Tra te e me
Non lo abbiamo visto
Non abbiamo visto Mandela
Nel posto in cui è
Nel posto in cui viene tenuto
Steve Biko
Victoria Mxenge
Neil Aggett
Non lo abbiamo visto
Non abbiamo visto i nostri fratelli
Nel posto in cui è
Nel posto in cui è morto
Hey tu!
Hey tu, e anche tu
Quando arriveremo a destinazione?
Contributed by Kiocciolina - 2007/9/7 - 19:22
Language: French
La versione francese dal sito In My African Dream
Paroles françaises d'après le site In My African Dream
Paroles françaises d'après le site In My African Dream
NOUS NE L'AVONS PAS VU (MANDELA)
Nous ne l’avons pas vu
Nous n‘avons pas vu Mandela
Là où il est
Là où il est prisonnier
Oh, la mer est glaciale
Et le ciel est gris
Regarde au-delà de l’île
Jusqu’à la baie
Nous ne l’avons pas vu
Nous n‘avons pas vu Mandela
Là où il est
Là où il est prisonnier
Nous sommes tous des îles jusqu‘à
Ce qu’arrive le jour
Où nous traverserons l’eau
En flammes.
Nous ne l’avons pas vu
Nous n‘avons pas vu Mandela
Là où il est
Là où il est prisonnier
Une mouette survole la mer
Je rêve de silence brisé
Qui détient les mots
Qui refermeront la distance qui nous sépare.
Nous ne l’avons pas vu
Nous n’avons pas vu notre frêre
Là où il est
Là où il est mort
Steve Biko
Victoria Mxenge
Neil Aggett
Nous ne l’avons pas vu
Nous n’avons pas vu notre frêre
Là où il est
Là où il est mort
Hé, toi
Et toi et toi aussi
Quand arriverons-nous à notre
Vraie destination?
Nous ne l’avons pas vu
Nous n‘avons pas vu Mandela
Là où il est
Là où il est prisonnier
Oh, la mer est glaciale
Et le ciel est gris
Regarde au-delà de l’île
Jusqu’à la baie
Nous ne l’avons pas vu
Nous n‘avons pas vu Mandela
Là où il est
Là où il est prisonnier
Nous sommes tous des îles jusqu‘à
Ce qu’arrive le jour
Où nous traverserons l’eau
En flammes.
Nous ne l’avons pas vu
Nous n‘avons pas vu Mandela
Là où il est
Là où il est prisonnier
Une mouette survole la mer
Je rêve de silence brisé
Qui détient les mots
Qui refermeront la distance qui nous sépare.
Nous ne l’avons pas vu
Nous n’avons pas vu notre frêre
Là où il est
Là où il est mort
Steve Biko
Victoria Mxenge
Neil Aggett
Nous ne l’avons pas vu
Nous n’avons pas vu notre frêre
Là où il est
Là où il est mort
Hé, toi
Et toi et toi aussi
Quand arriverons-nous à notre
Vraie destination?
Contributed by Riccardo Venturi - 2007/9/24 - 13:05
Sono reduce dal concerto che Johnny Clegg ha tenuto a Basilea e devo dire che quel "vecchiaccio" (53 anni) ancora è coinvolgente come pochi. Complice anche l'atmosfera raccolta, in una sala del casinò dell'aeroporto (ci voleva un concerto del genere per farmi entrare in un casinò -assieme alla Manuela appena...reduce dal Sudafrica e quindi "imbevuta" di questo genere di musica- dato che detesto ogni forma di gioco d'azzardo)...ma proprio una bellissima cosa, condita anche dall'estrema simpatia del personaggio (che ci siamo ritrovati anche come vicino di camera in albergo). Di straforo abbiamo eseguito anche diverse foto del concerto, che saranno inserite rigorosamente non appena disponibili. Ovviamente "Asimbonanga" è stata eseguita...uno dei bis. Bella, bella, bella davvero.
Riccardo Venturi - 2007/9/24 - 01:49
Dois nacionalistas que lutaram pela liberdade e igualdade do seu povo, fazendo-os ver que todos somos iguais e não é a cor da pele, a religião, ou o poder econômico que nos faz ser maior ou melhor que alguém.....infelizmente as pessoas são de uma hipocrisia sem tamanho pois, falam todo o tempo em Deus sem seguir na maioria das vezes os seus desejos, pois se isso realmente acontecesse, não teriam acontecido todos esses absurdos que mancharam a história da humanidade e que lamentávelmente ainda acontece muito nos dias de hoje......na próxima vou mandar a letra de uma música que escrevi sobre as raízes do preconceito racial em nosso país, que aliás, ainda é absurdamente enorme....
Berilo Pastor Souza ( Brasil) - 2011/4/8 - 02:00
“...DOPO LE SEI SOLO IL VENTO E IL SILENZIO CIRCOLAVANO PER LE STRADE...”
UN RICORDO DELL'AMICA FEBE CAVAZZUTTI ROSSI
(Gianni Sartori)
Nella notte del 2 febbraio 2016 se ne è andata Febe Cavazzutti Rossi. Pastora valdese, ha vissuto gran parte della sua vita a Padova. Una presenza costante nella chiesa metodista di questa città, come organista e predicatrice, e una testimonianza immensa di fede, serenità e forza d'animo.
Febe era nata nel 1931 a Vicenza (dove in seguito tornerà come insegnante di inglese) e aveva trascorso parte degli anni giovanili a Firenze. In questa città suo padre, il pastore metodista Gaspare Cavazzutti (già collaboratore di Henry James Piggot) si distinse per aver salvato molti cittadini di religione ebraica negli anni delle persecuzioni nazi-fasciste.
Di quel periodo buio Febe ricordava con particolare amarezza la tragica fine di due ragazze sue amiche, nipoti di un cugino di Einstein, destinate a essere trucidate, insieme alla zia, per mano dei soldati tedeschi. Un tragico evento (raccontato nel film “Il cielo cade”) che determinò la morte anche dello zio, suicidatosi per disperazione.
In anni più recenti la lezione paterna si tradusse in un attivo sostegno alle lotta dei Neri del Sudafrica sottoposti al tallone di un nuovo nazismo, quello dell'apartheid. Nonostante (a causa di un incidente stradale per una gomma scoppiata in autostrada tra Vicenza e Padova), dovesse muoversi con una carrozzella, Febe era partita per il Sudafrica partecipando a molte iniziative, al punto che il regime la espulse dal Paese.
Chiunque abbia partecipato alle campagne degli anni Ottanta contro il regime razzista di Pretoria la ricorda sicuramente. La rivedo all'Arena di Verona in occasione dell'incontro del 30 maggio 1987 “Sudafrica e noi: strappare le radici dell'ingiustizia”. Di quel giorno ricordo anche tanti altri amici presenti in Arena per ribadire un secco NO a Botha, alle fabbriche di armi (molte italiane) che rifornivano il regime di Pretoria (inevitabile pensare a quanto avviene oggi con la Turchia che anche con le armi di Finmeccanica sta massacrando i curdi), alle banche (ancora quelle italiane) che lo finanziavano.
Alcuni di loro purtroppo nel frattempo ci hanno lasciato, come Benny Nato (all'epoca rappresentante dell'African National Congress in Italia), Beyers Naudé (Segretario generale del Consiglio Sudafricano delle Chiese e, in quanto boero, chiamato “il grande traditore” dai suoi connazionali bianchi), Davide Maria Turoldo...
Tra quelli ancora sulla breccia, Alessandro Zanotelli (ex direttore di Nigrizia), il vicentino Mario Costalunga (entrambi tra i fondatori dei Costruttori di Pace), il reverendo T. F. Farisani (Vescovo vicario delle Chiese Evangeliche Luterane del Sudafrica e vittima della tortura), il comboniano Efrem Tresoldi che in seguito si trasferì proprio in Sudafrica...
Talvolta le inviavo qualche mio articolo che “riveduto e corretto” (e ridimensionato) dalla sua acuta intelligenza, veniva ospitato da “Riforma”, il settimanale in lingua italiana delle Chiese evangeliche, battiste e valdesi. Gli ultimi due, un ricordo di Theresa Machabane Ramashamole, morta nel novembre 2015 (l'unica donna dei Sei di Sharpeville, un gruppo di militanti neri condannati a morte per impiccagione e salvati all'ultimo minuto, di cui mi ero occupato negli anni Ottanta e che in anni più recenti avevo anche conosciuto) e un articolo sulla Resistenza dei curdi a Kobane. Tra l'altro devo dire che ci eravamo ritrovati in sintonia nel considerare la lotta dei curdi come analoga a quella dei movimenti antiapartheid del passato. In particolare si mostrava molto interessata e solidale con le donne curde e con il loro protagonismo.
Nel 2004 l'avevo intervistata prendendo spunto da un suo articolo su “Riforma” (“Dieci anni di democrazia in Sudafrica”) dove, con la consueta chiarezza, analizzava il voto del 14 aprile 2004.
Febe era convinta che nel 1994 il Sudafrica avesse realizzato “ l'evento più straordinario della sua lunga e sofferta storia”: le elezioni a suffragio universale “aprendo a quei suoi abitanti che fino ad allora non erano che lo scarto umano privo di diritti”. Nel suo articolo sottolineava come tutto si fosse svolto ordinatamente con un'affluenza del 95% su un totale di 20 milioni e 674.926 elettori. Tre giorni dopo Pansy Tlakula (Chief Electoral Officer) poteva già dare i risultati: “Con umiltà sto davanti per dichiarare con orgoglio che abbiamo raggiunto gli obiettivi prefissi. Abbiamo avuto una campagna elettorale forte, in cui i partiti non hanno sfoggiato i meriti della vittoria sull'apartheid, ma hanno affrontato i problemi del nostro paese. La nostra gente ha esercitato la pazienza e un profondo rispetto per questo atto di libertà”.
In questa elezioni l'ANC, il partito di Nelson Mandela, aveva guadagnato il 69% dei voti, con grande distacco dal secondo partito il Democratic Alliance (DA, 13%) e febe ricordava che il presidente del DA, Joe Serename, aveva lavorato lungamente con il South African Council of Churches negli anni bui del razzismo istituzionalizzato, pagando anche un prezzo altissimo a livello personale: l'assassinio di un fratello e di altri familiari da parte delle squadre della morte segregazioniste. Disastrosi invece erano stati i risultati del National Party (“che -spiegava Febe – ha praticato l'apartheid con la frusta in una mano e la Bibbia nell'altra”) ridotto soltanto all'1,7%.
UNA DONNA CONTRO L'APARTHEID
Riporto qui la mia intervista di allora (2004), per onorare questa persona che per tutta la vita si è impegnata al fianco degli oppressi. Un'occasione per “ripassare” la Storia recente (e non dimenticare cos'era l'apartheid) e soprattutto un modo per ricordare Febe , sapendo che l'ingiustizia, lo sfruttamento e l'oppressione non scompaiano magicamente con la fine di un regime, ma si riproducono sotto altre spoglie. Per cui, va detto, occorre sempre vigilare. Così come Febe insegnava a chi ha avuto l'onore di conoscerla.
D. Dell'Arena '87 ricordo in particolare l'intervento del reverendo Farisani (anche perché lo concluse a pugno chiuso, niente male per un prete). Si muoveva ancora con difficoltà a causa delle torture subite. Farisani, uno Zulu, disse di aver fatto parte dell'Inkatha Freedom Party (Ifp), ma di essersene allontanato quando si era reso conto che il leader, Bhutelezi (noto anche in Italia in quanto invitato a Rimini da Comunione e Liberazione), faceva il gioco dei razzisti di Pretoria alimentando la violenza tra i Neri. E' accaduto qualcosa del genere anche durante l'ultima campoagna elettorale (del 2004 nda)?
Febe: In effetti è stata questa l'unica nota stonata e paurosa. Il Kwa Zulu Natal è la roccaforte di Inkatha Freedom Party di Buthelezi che per alcuni anni ha osteggiato il processo di liberazione, uccidendo e devastando, in una guerriglia fratricida e con la confessa connivenza del governo sudafricano di allora. La saggezza di Nelson Mandela, che aveva dato riconoscimento politico all'Ipf mettendo Buthelezi a capo del ministero degli Interni, aveva poi prodotto la pacificazione. Si comprende tuttavia come in queste elezioni del 2004 l'Ifp abbia rivisto nell'Anc un nemico e abbia fatto nuovamente ricorso a violenze e intimidazioni, soprattutto a Pietermaritzburg. I locali della nostra Chiesa metodista si trovano al centro della città e per tre giorni il pastore, Sol Jacob*, ha dovuto chiedere ogni attività per evitare il peggio.
Va anche ricordato che nel Natal, contemporaneamente alle elezioni nazionali, si sono svolte quelle regionali. Per la prima volta l'Anc ha superato l'Ifp col 46, 93% contro il 36,82%. Per dare a Buthelezi la maggioranza non è servito nemmeno l'apporto di Da (Democratic Alliance), forse grazie ai 50mila bianchi di Pietemaritzburg che hanno votato per l'Anc, spaventati dalla volontà dell'Ifp di trasferire la capitale a Ulundi, nel cuore della terra Zulu.
D. Lei, mi diceva, considera importante che la maggior parte dei presidenti di seggio in queste elezioni siano state donne. E per quanto riguarda i ministeri?
Febe: I ministri del nuovo governo sono stati nominati e hanno prestato giuramento il 28 aprile 2004. Tra di loro c'è una buona presenza femminile; oggi le donne ministro sono 10 su 21 in dicasteri chiave come Esteri, Interni, Giustizia, Istruzione, Salute, Agricoltura, Risorse idriche, Risorse minerarie (oro e diamanti), Pubblica amministrazione, Opere pubbliche.
D. A distanza di qualche anno sembra quasi impossibile che un regime come quello dell'apartheid sudafricano abbia potuto durare così a lungo in pieno ventesimo secolo. Capita talvolta di sentirsi chiedere: “Ma i Bianchi del Sudafrica cosa pensavano? Come vedevano i Neri? Come giudicavano le scelte, la legislazione del loro governo?”.
Febe: I Bianchi sostanzialmente sembravano non interessarsene, non sapevano e non vedevano niente. Forse perché in fondo avevano paura, paura per il semplice fatto di avere i Neri vicino a loro. Era una situazione difficile anche solo da immaginare, il contatto non c'era. Quando si girava per Città del Capo o Johannesburg o Durban, appariva evidente che la massa dei lavoratori era nera (i commessi dei negozi per esempio, ma anche nelle banche); sembrava stessero bene; sembravano “liberi”...Ma nessun Bianco ha mai chiesto ad un proprio dipendente: Dove abiti?”.
Per i Bianchi quelle leggi erano giuste; loro si sentivano intelligenti, loro preparavano un futuro dove anche i Neri sarebbero stati in grado di autogovernarsi. Vedi il grande inganno delle “homelands” dove nessun Bianco sarebbe mai entrato. Le leggi erano considerate giuste per i Bianchi e per i Neri. A volte le regole erano veramente assurde. Basti pensare che la “mamy” che accudiva i bambini nelle ville dei Bianchi, doveva per legge restare sulla soglia della stanza quando il bambino dormiva. Non doveva mai dormire o mangiare in casa, quindi doveva avere una stanza fuori. Sempre per legge in casa non doveva portare nessuno, nemmeno i figli. Il contratto doveva essere di un anno più tre settimane (non pagate) di vacanze. Quindi queste donne a servizio non vedevano i loro figli per un anno e intanto nei loro luoghi di origine le nonne badavano anche a venti o trenta bambini.
D. Ma, mi chiedo, possibile che a una madre bianca non venisse mai in mente che anche quella donna a servizio era una madre, che anche lei aveva dei sentimenti?
Febe: Penso che all'origine ci fosse una sorta di apura atavica. Un'altra legge molto significativa per capire quel peiodo è quella che imponeva a tutti i Bianchi di avere il porto d'armi e di esercitarsi con sagome di forma umana. Naturalmente anche questo generava altra paura.
D. Tornando alla sua descrizione della massa di lavoratori neri presenti nelle città durante il giorno...Cosa succedeva ad una certa ora?
Febe: Alla sera, tra le cinque e le sei, questa massa di gente doveva sfollare, essere fuori. Dopo le sei solo il vento e il silenzio circolavano per le strade...
D. E i Bianchi...?
Febe: I Bianchi restavano chiusi dentro per la paura anche se ormai i Neri se ne erano già andati. SI credeva, o si voleva far credere, che questo modo di vivere fosse una cosa buona, utile per tutti.
D. Quindi il Nero in un certo senso era un invisibile...?
Febe: In pratica non lo vedevano. Eppure le township (Alexandra, Soweto...) facevano parte della municipalità. Le township dove abitavano i lavoratori neri erano in generale ad una trentina di chilometri dalle città e quasi senza collegamenti, ma alle otto dovevano essere presenti sul posto di lavoro. Un dipendente dopo tre giorni di ritardo veniva licenziato e dopo altri tre giorni senza lavoro doveva andarsene anche dalla città.
D. Lei ha visto di persona come vivevano i Neri in questa sorta di ghetti. Ce ne può parlare?
Febe: Ricordo in particolare un insediamento presso Città del Capo, a circa trenta chilometri dalla città, dove un gran numero di persone viveva in tende dell'esercito dell'ultima guerra mondiale. Eppure nei Neri del Sudafrica, anche quando vivevano in queste misere condizioni, ho sempre trovato una enorme dignità e una grandissima pulizia. Durante quella visita ci eravamo fermati davanti a una tendina dove erano nate due bambine. Quando la mamma è uscita ho visto che le bambine erano con la cuffietta inamidata: E fuori, bada bene, c'era il fango, la melma...Chiesi dove avesse mai trovato l'acqua necessaria e mi rispose che a circa dieci chilometri c'era un cimitero dei Bianchi dove l'acqua pulita non mancava mai. Naturalmente i Bianchi che visitavano il cimitero non si accorgevano di niente, forse nemmeno sospettavano della presenza di quell'insediamento.
A Crossroad (uno dei luoghi maggiormente interessati dagli scontri quasi quotidiani tra i Neri delle baraccopoli e la polizia sudafricana negli anni Ottanta) sono entrata la tempo della rivolta. Conservo due foto di chiese in lamiera e cartone, una cattolica e una battista e ricordo un pastore che aveva come minimo una comunità di centomila persone da seguire. In queste aree i Bianchi non avrebbero potuto entrare neanche volendo perché la polizia non lo avrebbe permesso. Oggi scoprono realtà per loro sconosciute di miseria e degrado, ma la povertà di oggi è il frutto degli anni dell'apartheid. Nel 1985, poco prima che mi dessero il bando (la proibizione di rientrare in Sudafrica per almeno cinque anni), andai da un mio amico che più tardi entrò a far parte del Pac (Pan African Congress) e gli chiesi: “Ci saranno centomila Bianchi dalla vostra parte?”. “No -mi rispose – nemmeno cinquantamila, forse cinquemila”.
D. Eppure l'apartheid, che sembrava destinato a durare in eterno dato lo strapotere economico e militare dei Bianchi, alla fine è caduto. Mi diceva che tra i Neri era chiara la consapevolezza della sua fine prossima e che questa consapevolezza derivava in parte dalla fede...
Febe: All'epoca ci si poneva spesso questa domanda: ma quanto durerà? Sembrava impossibile uscirne, soprattutto conoscendo la forza di questo sistema, ma tutti a quel tempo mi dicevano che sarebbero occorsi cinque anni. E cinque anni sono stati. Ricordo anche che nelle chiese si pregava e si era sicuri che il signore rispondeva, il Signore che tira giù dal trono i potenti. L'inno che ora è diventato inno nazionale del Sudafrica (“Dio benedica l'Africa”) noi lo cantavamo in chiesa. E Dio ci ha ascoltato.
Non considero una semplice coincidenza il fatto che Mandela sia metodista. Naturalmente si guarda bene dal pubblicizzarlo (per garantire la separazione tra Stato e Chiesa), ma quella è comunque la sua radice.
D. Ritiene che la componente religiosa fosse presente anche nel 1960, al momento della scelta di Mandela di prendere le armi contro il regime (dopo la strage di Sharpeville, quando la polizia massacrò una folla inerme di Neri che protestavano pacificamente)?
Febe: In quel momento Mandela si dovette separare da Luthuli (un predicatore metodista) che predicava la non violenza assoluta, ma lo fece di malincuore. Anche perché, va detto, l'ala armata (Umkhonto we Sizwe: ferro di lancia della nazione) si rese responsabile di azioni discutibili. In genere comunque erano fuori dalla Rsa, nello Zambia e in Namibia. Chi tentò effettivamente di portare la lotta armata dentro al Sudafrica fu il Pac, ma durò poco. Vorrei anche dire che in fondo quello di “prendere le armi” fu un ragionamento “da Bianchi”.
D. Aveva anche accennato al fatto che molti dei problemi attuali del Sudafrica (criminalità, violenza contro le donne...) sarebbero il frutto degli anni dell'apartheid...
Febe: Gli anni dell'apartheid sono stati anni terribili, soprattutto per i giovani. Si calcola che furono circa 85mila i bambini incarcerati e torturati. Venivano portati in tribunale come “sovversivi”. Ricordo due gemelline di tredici anni, arrestate anche loro insieme al padre perché durante una perquisizione avevano trovato in casa “Arcipelago Gulag”. Altri bambini vennero arrestati perché casualmente avevano i quaderni con gli stessi colori dell'Anc (verde, oro e nero)...E quando non li arrestavano li “ripassavano” con la frusta. Venivano sospettati per ragioni assurde, per esempio se a scuola dimostravano un eccessivo interesse per la Storia o se cantavano a squarciagola. Ugualmente se alle partite facevano il tifo per gli anglosassoni invece che per i Boeri. Una volta il figlio di Desmond Tutu venne arrestato mentre assisteva ad un processo soltanto perché gli era scappato da ridere. Io lo dicevo sempre: questa è una generazione distrutta. I genitori stessi erano disperati perchè vedevano che i loro figli degeneravano. Naturalmente c'era anche la violenza che proveniva da alcuni Neri, come Buthelezi e le sue bande ben organizzate.**
D. Cosa può dirci sui processi che hanno portato i carnefici a confrontarsi con le vittime, a guardarsi negli occhi, ad autodenunciarsi e a venire in qualche modo assolti (talvolta perdonati)?
Febe: In questi processi i due presidenti erano Desmond Tutu e Khoza Mgojo, pastore metodista (la Truth and Reconcilation Commission era suddivisa in tre Commissioni specifiche, e loro erano i presidenti di una di queste). Hanno avuto poco aiuto, ma hanno fatto un lavoro enorme. Tutu in particolare è un grandissimo organizzatore e in questo gli è stata di grande aiuto la moglie. La gente si iscriveva per parlare; per primi venivano le vittime e da questo nasceva il collegamento con i responsabili (i torturatori, le squadre della morte, i “vigilantes”...) che venivano convocati.
Ovviamente erano incontri laceranti, ma in qualche modo in grado di ricomporre rapporti umani.
D. E' probabile che i mandanti di eccidi e torture non si siano neanche presentati...
Febe: Anche De Klerk, non parliamo poi di Botha (il primo parzialmente, il secondo totalmente) si sono rifiutati di dare testimonianza. Botha è stato particolarmente sprezzante nel rifiutarsi di comparire. Ma è importante sottolineare che non ci sono state vendette, faide, perché la cultura dei Neri sudafricani, degli anziani soprattutto, era questa; per me è stato l'ultimo atto di una testimonianza di grande civiltà, di una cultura tradizionale che rischia di scomparire. In qualche modo ha smentito coloro che consideravano la questione del Sudafrica prettamente politica, legata in qualche modo al rischio del “comunismo” (anche se il Partito comunista in Sudafrica era soprattutto un partito di Bianchi, comunque una corrente di pensiero politico minoritaria); si trattava di una menzogna pretestuosa destinata a giustificare e perpetuare l'apartheid. Io penso che i principi religiosi siano stati fondamentali, che la resistenza derivasse dalla profonda spiritualità degli africani, qualunque fosse la forma religiosa di appartenenza compresa la tradizione animista.
D. Ha avuto modo di conoscere personalmente persone depositarie di queste tradizioni che, presumo, saranno state in gran parte sradicate dall'opera di “evangelizzazione” degli europei?
Febe: Io non so cosa fosse esattamente la religione dei Neri prima della seconda metà dell'800, ma una volta, a duemila metri di altezza, siamo arrivati in un villaggio di circa duemila anime avvolto nella nebbia. Erano tutti animisti. C'erano anche quattro suore che avevano aperto una scuola. Ricordo una suora molto giovane, irlandese, che parlava sia Zulu che Afrikaneer. Un'altra era esperta in agricoltura, una medico e un'altra, ingegnere, costruiva i pozzi per l'acqua. Era una zona dedita all'allevamento del bestiame: alla mano d'opera nera era permesso solo di bere dalle stesse pozze del bestiame con conseguenze sanitarie immaginabili.
Io, che sono sempre un po' sospettosa, ho cominciato a far domande: mi risposero che tra quella gente avevano imparato molto, anche in materia di fede.
Quando nasceva un bambino era normale chiamarlo con nomi il cui significato era “Grazie a Dio”, “Benedetto dal Signore”...
Nella loro scuola c'erano circa 600 allieve. Chiesi: “Voi insegnate a leggere, a scrivere...Catechizzate anche?”. Mi risposero che avevano smesso di farlo. Quando raccontavano una storia della Bibbia venivano ascoltate molto volentieri, anche perché alcune vecchie regole (per es. nel Levitico) erano identiche a quelle dell'antica religione animista praticata dagli abitanti del villaggio.
Io temo che anche il cristianesimo “esportato” con la nostra mentalità, abbia fatto dei danni in Africa. Penso per esempio al problema della contraccezione che veniva praticato in modo naturale, con l'uso delle erbe...
D. La divisione tra Bianchi e Neri si riproduceva anche all'interno delle diverse Chiese?
Febe: le due comunità, bianca e nera, non si incontravano.; nelle chiese dei Bianchi i Neri non c'erano. Quando Desmond Tutu divenne vescovo a Johannesburg in una Chiesa anglicana bianca, in chiesa non andava più nessuno. Lo ricordo bene perché andai a trovarlo ed era solo, disperso, in mezzo a tutti quei banchi ottocenteschi.
Va anche detto che forse nelle chiese protestanti, dove vige una maggiore libertà, le cose erano un po' più facili. Tutte le decisioni vengono prese dalla base, non dall'alto e quindi nel Sinodo ci si incontrava; a tale proposito c'erano dei permessi speciali (già nei primi anni '80 il presidente di turno della Chiesa Metodista era un africano nero).
Una volta Beyers Naudè mi disse. “La cosa che mi rattrista di più è che in questo modo i Bianchi perdono la fraternità dei Neri”. Ho compreso realmente cosa intendesse dire dopo aver partecipato ad un incontro in una chiesa frequantata solo da neri. In Sudafrica si canta sempre, alla cerimonia si arriva mezz'ora prima perché si canta e ppoi si canta anche alla fine. Ci si mette in fila e si esce ordinatamente sempre cantando. Quella volta mi avevano messo in mezzo e tutti, cantando, sono venuti a darmi la mano, in fila. Ad un certo punto venne avanti piano una vecchietta che zoppicava un po' e intanto frugava. Mi ha preso le mani mettendoci un “rand” (circa mille lire) dicendo: “Questa è l'unica cosa che possiedo e la voglio dare a te che sei venuta fin qui a trovarci...”. Poi naturalmente l'ho dato al pastore.
D. Qualche volta sento dire che forse il prezzo pagato per abbattere l'apartheid è stato troppo alto e i risultati inferiori alle legittime aspettative. Cosa ne pensa?
Febe: Dico che, nonostante tutto, non c'è confronto con l'epoca dell'apartheid. Certo si pensava che le cose cambiassero più in fretta, ma credo comunque che ne valesse la pena. Pensiamo soltanto al problema delle famiglie divise, lacerate. Spesso gli uomini, per lavorare, dovevano viver ein condizioni indegne negli “ostelli”, lontano dalle famiglie, con contratti di due anni (e quattro settimane di ferie). Io ho potuto vederli solo dopo la fine dell'apartheid. Esistevano due livelli di controllo, la polizia esterna e quella interna. In alcuni casi uscivano solo attraverso dei tunnel per recarsi al lavoro, per esempio in miniera. Dormivano in sedici per stanza; i letti erano a castello, ma non erano sufficienti; il refettorio aveva la centro una lunga tavola in cemento, le sedie fissate al suolo. Questi lavoratori vivevano in condizioni orribili. L'unica cosa che negli “ostelli” circolava in quantità e a buon mercato era una pessima qualità di birra che distruggeva i reni. Dieci-dodici anni di questa vita e ne uscivano abbruttiti. Quando tornavano a casa avevano ormai dimenticato le loro tradizioni, o meglio: no, non le avevano dimenticate, ma non ne erano più i portatori.
Le donne nel frattempo li avevano sopravanzati ed erano loro ormai al centro della vita stessa; era come se loro non servissero più a niente. Le conseguenze oggi sono stupri e violenze sulle donne, come conseguenza di quegli anni.
Nelle township, arrivati a quindici anni i figli dovevano andarsene nella homeland alla quale erano assegnati a seconda della lingua imparata dalla madre. Era lo smembramento di un popolo. Naturalmente in qualche caso oggi si assiste anche alla perdita di posti di lavoro, come in molte miniere dove non c'era mai stata innovazione tecnologica, dato che la mano d'opera a basso costo era in grande quantità; oppure in alcune vaste estensioni di terra vicino alla Namibia. Qui, sulle grandi proprietà delle immense fattorie, la mano d'opera viveva senza diritti, ma avendo comunque la possibilità di viverci; le donne ei bambini che lavoravano e anche la mano d'opera esterna, venivano pagati in modo irrisorio; oggi questo non è più possibile e i proprietari bianchi hanno cacciato dai loro terreni la mano d'opera che non sono disposti a pagare secondo le nuove norme.
Certo, risalire la china è duro, ma ora almeno possono risalire. Basta guardare cos'è successo alle ultime elezioni (aprile 2004 nda). Una partecipazione del 90%; in soli tre giorni tutti i risultati erano disponibili. Non per niente la persona responsabile dell'organizzazione delle elezioni era una donna, Pansy Tlakula.
Gianni Sartori
*nota: il rev. Sol Jacob, pastore emerito della Chiesa metodista e docente di Etica al Federal theological seminary, è stato presidente dell'associazione delle chiese metodiste. Ha partecipato alla lotta di liberazione dall'apartheid, è stato incarcerato e posto in isolamento. Sfidando il regime, nel 1977, nella regione del kwaZulu ha fondato una scuola materna interrazziale e interreligiosa che attualmente ospita circa 150 bambini. Nel 2008 ha avviato un progetto di lotta all'Hiv-Aids che si prende cura in particolare degli orfani. Dirige una catena di assistenza alla povertà estrema, con distribuzione di cibo, corsi di formazione e cura dei bambini di strada. Ha operato in campo ecumenico nel South African Council of Churches e presso l'Onu per la Commissione rifugiati e migranti.
** nota. Soprannominato Quisling, Buthelezi (lo ricordo per giovani e smemorati) veniva invitato a Rimini da Comunione e Liberazione e fu anche un riferimento per l'area “tercerista” nostrana (chissà, forse gli ricordava gli Ascari...)
UN RICORDO DELL'AMICA FEBE CAVAZZUTTI ROSSI
(Gianni Sartori)
Nella notte del 2 febbraio 2016 se ne è andata Febe Cavazzutti Rossi. Pastora valdese, ha vissuto gran parte della sua vita a Padova. Una presenza costante nella chiesa metodista di questa città, come organista e predicatrice, e una testimonianza immensa di fede, serenità e forza d'animo.
Febe era nata nel 1931 a Vicenza (dove in seguito tornerà come insegnante di inglese) e aveva trascorso parte degli anni giovanili a Firenze. In questa città suo padre, il pastore metodista Gaspare Cavazzutti (già collaboratore di Henry James Piggot) si distinse per aver salvato molti cittadini di religione ebraica negli anni delle persecuzioni nazi-fasciste.
Di quel periodo buio Febe ricordava con particolare amarezza la tragica fine di due ragazze sue amiche, nipoti di un cugino di Einstein, destinate a essere trucidate, insieme alla zia, per mano dei soldati tedeschi. Un tragico evento (raccontato nel film “Il cielo cade”) che determinò la morte anche dello zio, suicidatosi per disperazione.
In anni più recenti la lezione paterna si tradusse in un attivo sostegno alle lotta dei Neri del Sudafrica sottoposti al tallone di un nuovo nazismo, quello dell'apartheid. Nonostante (a causa di un incidente stradale per una gomma scoppiata in autostrada tra Vicenza e Padova), dovesse muoversi con una carrozzella, Febe era partita per il Sudafrica partecipando a molte iniziative, al punto che il regime la espulse dal Paese.
Chiunque abbia partecipato alle campagne degli anni Ottanta contro il regime razzista di Pretoria la ricorda sicuramente. La rivedo all'Arena di Verona in occasione dell'incontro del 30 maggio 1987 “Sudafrica e noi: strappare le radici dell'ingiustizia”. Di quel giorno ricordo anche tanti altri amici presenti in Arena per ribadire un secco NO a Botha, alle fabbriche di armi (molte italiane) che rifornivano il regime di Pretoria (inevitabile pensare a quanto avviene oggi con la Turchia che anche con le armi di Finmeccanica sta massacrando i curdi), alle banche (ancora quelle italiane) che lo finanziavano.
Alcuni di loro purtroppo nel frattempo ci hanno lasciato, come Benny Nato (all'epoca rappresentante dell'African National Congress in Italia), Beyers Naudé (Segretario generale del Consiglio Sudafricano delle Chiese e, in quanto boero, chiamato “il grande traditore” dai suoi connazionali bianchi), Davide Maria Turoldo...
Tra quelli ancora sulla breccia, Alessandro Zanotelli (ex direttore di Nigrizia), il vicentino Mario Costalunga (entrambi tra i fondatori dei Costruttori di Pace), il reverendo T. F. Farisani (Vescovo vicario delle Chiese Evangeliche Luterane del Sudafrica e vittima della tortura), il comboniano Efrem Tresoldi che in seguito si trasferì proprio in Sudafrica...
Talvolta le inviavo qualche mio articolo che “riveduto e corretto” (e ridimensionato) dalla sua acuta intelligenza, veniva ospitato da “Riforma”, il settimanale in lingua italiana delle Chiese evangeliche, battiste e valdesi. Gli ultimi due, un ricordo di Theresa Machabane Ramashamole, morta nel novembre 2015 (l'unica donna dei Sei di Sharpeville, un gruppo di militanti neri condannati a morte per impiccagione e salvati all'ultimo minuto, di cui mi ero occupato negli anni Ottanta e che in anni più recenti avevo anche conosciuto) e un articolo sulla Resistenza dei curdi a Kobane. Tra l'altro devo dire che ci eravamo ritrovati in sintonia nel considerare la lotta dei curdi come analoga a quella dei movimenti antiapartheid del passato. In particolare si mostrava molto interessata e solidale con le donne curde e con il loro protagonismo.
Nel 2004 l'avevo intervistata prendendo spunto da un suo articolo su “Riforma” (“Dieci anni di democrazia in Sudafrica”) dove, con la consueta chiarezza, analizzava il voto del 14 aprile 2004.
Febe era convinta che nel 1994 il Sudafrica avesse realizzato “ l'evento più straordinario della sua lunga e sofferta storia”: le elezioni a suffragio universale “aprendo a quei suoi abitanti che fino ad allora non erano che lo scarto umano privo di diritti”. Nel suo articolo sottolineava come tutto si fosse svolto ordinatamente con un'affluenza del 95% su un totale di 20 milioni e 674.926 elettori. Tre giorni dopo Pansy Tlakula (Chief Electoral Officer) poteva già dare i risultati: “Con umiltà sto davanti per dichiarare con orgoglio che abbiamo raggiunto gli obiettivi prefissi. Abbiamo avuto una campagna elettorale forte, in cui i partiti non hanno sfoggiato i meriti della vittoria sull'apartheid, ma hanno affrontato i problemi del nostro paese. La nostra gente ha esercitato la pazienza e un profondo rispetto per questo atto di libertà”.
In questa elezioni l'ANC, il partito di Nelson Mandela, aveva guadagnato il 69% dei voti, con grande distacco dal secondo partito il Democratic Alliance (DA, 13%) e febe ricordava che il presidente del DA, Joe Serename, aveva lavorato lungamente con il South African Council of Churches negli anni bui del razzismo istituzionalizzato, pagando anche un prezzo altissimo a livello personale: l'assassinio di un fratello e di altri familiari da parte delle squadre della morte segregazioniste. Disastrosi invece erano stati i risultati del National Party (“che -spiegava Febe – ha praticato l'apartheid con la frusta in una mano e la Bibbia nell'altra”) ridotto soltanto all'1,7%.
UNA DONNA CONTRO L'APARTHEID
Riporto qui la mia intervista di allora (2004), per onorare questa persona che per tutta la vita si è impegnata al fianco degli oppressi. Un'occasione per “ripassare” la Storia recente (e non dimenticare cos'era l'apartheid) e soprattutto un modo per ricordare Febe , sapendo che l'ingiustizia, lo sfruttamento e l'oppressione non scompaiano magicamente con la fine di un regime, ma si riproducono sotto altre spoglie. Per cui, va detto, occorre sempre vigilare. Così come Febe insegnava a chi ha avuto l'onore di conoscerla.
D. Dell'Arena '87 ricordo in particolare l'intervento del reverendo Farisani (anche perché lo concluse a pugno chiuso, niente male per un prete). Si muoveva ancora con difficoltà a causa delle torture subite. Farisani, uno Zulu, disse di aver fatto parte dell'Inkatha Freedom Party (Ifp), ma di essersene allontanato quando si era reso conto che il leader, Bhutelezi (noto anche in Italia in quanto invitato a Rimini da Comunione e Liberazione), faceva il gioco dei razzisti di Pretoria alimentando la violenza tra i Neri. E' accaduto qualcosa del genere anche durante l'ultima campoagna elettorale (del 2004 nda)?
Febe: In effetti è stata questa l'unica nota stonata e paurosa. Il Kwa Zulu Natal è la roccaforte di Inkatha Freedom Party di Buthelezi che per alcuni anni ha osteggiato il processo di liberazione, uccidendo e devastando, in una guerriglia fratricida e con la confessa connivenza del governo sudafricano di allora. La saggezza di Nelson Mandela, che aveva dato riconoscimento politico all'Ipf mettendo Buthelezi a capo del ministero degli Interni, aveva poi prodotto la pacificazione. Si comprende tuttavia come in queste elezioni del 2004 l'Ifp abbia rivisto nell'Anc un nemico e abbia fatto nuovamente ricorso a violenze e intimidazioni, soprattutto a Pietermaritzburg. I locali della nostra Chiesa metodista si trovano al centro della città e per tre giorni il pastore, Sol Jacob*, ha dovuto chiedere ogni attività per evitare il peggio.
Va anche ricordato che nel Natal, contemporaneamente alle elezioni nazionali, si sono svolte quelle regionali. Per la prima volta l'Anc ha superato l'Ifp col 46, 93% contro il 36,82%. Per dare a Buthelezi la maggioranza non è servito nemmeno l'apporto di Da (Democratic Alliance), forse grazie ai 50mila bianchi di Pietemaritzburg che hanno votato per l'Anc, spaventati dalla volontà dell'Ifp di trasferire la capitale a Ulundi, nel cuore della terra Zulu.
D. Lei, mi diceva, considera importante che la maggior parte dei presidenti di seggio in queste elezioni siano state donne. E per quanto riguarda i ministeri?
Febe: I ministri del nuovo governo sono stati nominati e hanno prestato giuramento il 28 aprile 2004. Tra di loro c'è una buona presenza femminile; oggi le donne ministro sono 10 su 21 in dicasteri chiave come Esteri, Interni, Giustizia, Istruzione, Salute, Agricoltura, Risorse idriche, Risorse minerarie (oro e diamanti), Pubblica amministrazione, Opere pubbliche.
D. A distanza di qualche anno sembra quasi impossibile che un regime come quello dell'apartheid sudafricano abbia potuto durare così a lungo in pieno ventesimo secolo. Capita talvolta di sentirsi chiedere: “Ma i Bianchi del Sudafrica cosa pensavano? Come vedevano i Neri? Come giudicavano le scelte, la legislazione del loro governo?”.
Febe: I Bianchi sostanzialmente sembravano non interessarsene, non sapevano e non vedevano niente. Forse perché in fondo avevano paura, paura per il semplice fatto di avere i Neri vicino a loro. Era una situazione difficile anche solo da immaginare, il contatto non c'era. Quando si girava per Città del Capo o Johannesburg o Durban, appariva evidente che la massa dei lavoratori era nera (i commessi dei negozi per esempio, ma anche nelle banche); sembrava stessero bene; sembravano “liberi”...Ma nessun Bianco ha mai chiesto ad un proprio dipendente: Dove abiti?”.
Per i Bianchi quelle leggi erano giuste; loro si sentivano intelligenti, loro preparavano un futuro dove anche i Neri sarebbero stati in grado di autogovernarsi. Vedi il grande inganno delle “homelands” dove nessun Bianco sarebbe mai entrato. Le leggi erano considerate giuste per i Bianchi e per i Neri. A volte le regole erano veramente assurde. Basti pensare che la “mamy” che accudiva i bambini nelle ville dei Bianchi, doveva per legge restare sulla soglia della stanza quando il bambino dormiva. Non doveva mai dormire o mangiare in casa, quindi doveva avere una stanza fuori. Sempre per legge in casa non doveva portare nessuno, nemmeno i figli. Il contratto doveva essere di un anno più tre settimane (non pagate) di vacanze. Quindi queste donne a servizio non vedevano i loro figli per un anno e intanto nei loro luoghi di origine le nonne badavano anche a venti o trenta bambini.
D. Ma, mi chiedo, possibile che a una madre bianca non venisse mai in mente che anche quella donna a servizio era una madre, che anche lei aveva dei sentimenti?
Febe: Penso che all'origine ci fosse una sorta di apura atavica. Un'altra legge molto significativa per capire quel peiodo è quella che imponeva a tutti i Bianchi di avere il porto d'armi e di esercitarsi con sagome di forma umana. Naturalmente anche questo generava altra paura.
D. Tornando alla sua descrizione della massa di lavoratori neri presenti nelle città durante il giorno...Cosa succedeva ad una certa ora?
Febe: Alla sera, tra le cinque e le sei, questa massa di gente doveva sfollare, essere fuori. Dopo le sei solo il vento e il silenzio circolavano per le strade...
D. E i Bianchi...?
Febe: I Bianchi restavano chiusi dentro per la paura anche se ormai i Neri se ne erano già andati. SI credeva, o si voleva far credere, che questo modo di vivere fosse una cosa buona, utile per tutti.
D. Quindi il Nero in un certo senso era un invisibile...?
Febe: In pratica non lo vedevano. Eppure le township (Alexandra, Soweto...) facevano parte della municipalità. Le township dove abitavano i lavoratori neri erano in generale ad una trentina di chilometri dalle città e quasi senza collegamenti, ma alle otto dovevano essere presenti sul posto di lavoro. Un dipendente dopo tre giorni di ritardo veniva licenziato e dopo altri tre giorni senza lavoro doveva andarsene anche dalla città.
D. Lei ha visto di persona come vivevano i Neri in questa sorta di ghetti. Ce ne può parlare?
Febe: Ricordo in particolare un insediamento presso Città del Capo, a circa trenta chilometri dalla città, dove un gran numero di persone viveva in tende dell'esercito dell'ultima guerra mondiale. Eppure nei Neri del Sudafrica, anche quando vivevano in queste misere condizioni, ho sempre trovato una enorme dignità e una grandissima pulizia. Durante quella visita ci eravamo fermati davanti a una tendina dove erano nate due bambine. Quando la mamma è uscita ho visto che le bambine erano con la cuffietta inamidata: E fuori, bada bene, c'era il fango, la melma...Chiesi dove avesse mai trovato l'acqua necessaria e mi rispose che a circa dieci chilometri c'era un cimitero dei Bianchi dove l'acqua pulita non mancava mai. Naturalmente i Bianchi che visitavano il cimitero non si accorgevano di niente, forse nemmeno sospettavano della presenza di quell'insediamento.
A Crossroad (uno dei luoghi maggiormente interessati dagli scontri quasi quotidiani tra i Neri delle baraccopoli e la polizia sudafricana negli anni Ottanta) sono entrata la tempo della rivolta. Conservo due foto di chiese in lamiera e cartone, una cattolica e una battista e ricordo un pastore che aveva come minimo una comunità di centomila persone da seguire. In queste aree i Bianchi non avrebbero potuto entrare neanche volendo perché la polizia non lo avrebbe permesso. Oggi scoprono realtà per loro sconosciute di miseria e degrado, ma la povertà di oggi è il frutto degli anni dell'apartheid. Nel 1985, poco prima che mi dessero il bando (la proibizione di rientrare in Sudafrica per almeno cinque anni), andai da un mio amico che più tardi entrò a far parte del Pac (Pan African Congress) e gli chiesi: “Ci saranno centomila Bianchi dalla vostra parte?”. “No -mi rispose – nemmeno cinquantamila, forse cinquemila”.
D. Eppure l'apartheid, che sembrava destinato a durare in eterno dato lo strapotere economico e militare dei Bianchi, alla fine è caduto. Mi diceva che tra i Neri era chiara la consapevolezza della sua fine prossima e che questa consapevolezza derivava in parte dalla fede...
Febe: All'epoca ci si poneva spesso questa domanda: ma quanto durerà? Sembrava impossibile uscirne, soprattutto conoscendo la forza di questo sistema, ma tutti a quel tempo mi dicevano che sarebbero occorsi cinque anni. E cinque anni sono stati. Ricordo anche che nelle chiese si pregava e si era sicuri che il signore rispondeva, il Signore che tira giù dal trono i potenti. L'inno che ora è diventato inno nazionale del Sudafrica (“Dio benedica l'Africa”) noi lo cantavamo in chiesa. E Dio ci ha ascoltato.
Non considero una semplice coincidenza il fatto che Mandela sia metodista. Naturalmente si guarda bene dal pubblicizzarlo (per garantire la separazione tra Stato e Chiesa), ma quella è comunque la sua radice.
D. Ritiene che la componente religiosa fosse presente anche nel 1960, al momento della scelta di Mandela di prendere le armi contro il regime (dopo la strage di Sharpeville, quando la polizia massacrò una folla inerme di Neri che protestavano pacificamente)?
Febe: In quel momento Mandela si dovette separare da Luthuli (un predicatore metodista) che predicava la non violenza assoluta, ma lo fece di malincuore. Anche perché, va detto, l'ala armata (Umkhonto we Sizwe: ferro di lancia della nazione) si rese responsabile di azioni discutibili. In genere comunque erano fuori dalla Rsa, nello Zambia e in Namibia. Chi tentò effettivamente di portare la lotta armata dentro al Sudafrica fu il Pac, ma durò poco. Vorrei anche dire che in fondo quello di “prendere le armi” fu un ragionamento “da Bianchi”.
D. Aveva anche accennato al fatto che molti dei problemi attuali del Sudafrica (criminalità, violenza contro le donne...) sarebbero il frutto degli anni dell'apartheid...
Febe: Gli anni dell'apartheid sono stati anni terribili, soprattutto per i giovani. Si calcola che furono circa 85mila i bambini incarcerati e torturati. Venivano portati in tribunale come “sovversivi”. Ricordo due gemelline di tredici anni, arrestate anche loro insieme al padre perché durante una perquisizione avevano trovato in casa “Arcipelago Gulag”. Altri bambini vennero arrestati perché casualmente avevano i quaderni con gli stessi colori dell'Anc (verde, oro e nero)...E quando non li arrestavano li “ripassavano” con la frusta. Venivano sospettati per ragioni assurde, per esempio se a scuola dimostravano un eccessivo interesse per la Storia o se cantavano a squarciagola. Ugualmente se alle partite facevano il tifo per gli anglosassoni invece che per i Boeri. Una volta il figlio di Desmond Tutu venne arrestato mentre assisteva ad un processo soltanto perché gli era scappato da ridere. Io lo dicevo sempre: questa è una generazione distrutta. I genitori stessi erano disperati perchè vedevano che i loro figli degeneravano. Naturalmente c'era anche la violenza che proveniva da alcuni Neri, come Buthelezi e le sue bande ben organizzate.**
D. Cosa può dirci sui processi che hanno portato i carnefici a confrontarsi con le vittime, a guardarsi negli occhi, ad autodenunciarsi e a venire in qualche modo assolti (talvolta perdonati)?
Febe: In questi processi i due presidenti erano Desmond Tutu e Khoza Mgojo, pastore metodista (la Truth and Reconcilation Commission era suddivisa in tre Commissioni specifiche, e loro erano i presidenti di una di queste). Hanno avuto poco aiuto, ma hanno fatto un lavoro enorme. Tutu in particolare è un grandissimo organizzatore e in questo gli è stata di grande aiuto la moglie. La gente si iscriveva per parlare; per primi venivano le vittime e da questo nasceva il collegamento con i responsabili (i torturatori, le squadre della morte, i “vigilantes”...) che venivano convocati.
Ovviamente erano incontri laceranti, ma in qualche modo in grado di ricomporre rapporti umani.
D. E' probabile che i mandanti di eccidi e torture non si siano neanche presentati...
Febe: Anche De Klerk, non parliamo poi di Botha (il primo parzialmente, il secondo totalmente) si sono rifiutati di dare testimonianza. Botha è stato particolarmente sprezzante nel rifiutarsi di comparire. Ma è importante sottolineare che non ci sono state vendette, faide, perché la cultura dei Neri sudafricani, degli anziani soprattutto, era questa; per me è stato l'ultimo atto di una testimonianza di grande civiltà, di una cultura tradizionale che rischia di scomparire. In qualche modo ha smentito coloro che consideravano la questione del Sudafrica prettamente politica, legata in qualche modo al rischio del “comunismo” (anche se il Partito comunista in Sudafrica era soprattutto un partito di Bianchi, comunque una corrente di pensiero politico minoritaria); si trattava di una menzogna pretestuosa destinata a giustificare e perpetuare l'apartheid. Io penso che i principi religiosi siano stati fondamentali, che la resistenza derivasse dalla profonda spiritualità degli africani, qualunque fosse la forma religiosa di appartenenza compresa la tradizione animista.
D. Ha avuto modo di conoscere personalmente persone depositarie di queste tradizioni che, presumo, saranno state in gran parte sradicate dall'opera di “evangelizzazione” degli europei?
Febe: Io non so cosa fosse esattamente la religione dei Neri prima della seconda metà dell'800, ma una volta, a duemila metri di altezza, siamo arrivati in un villaggio di circa duemila anime avvolto nella nebbia. Erano tutti animisti. C'erano anche quattro suore che avevano aperto una scuola. Ricordo una suora molto giovane, irlandese, che parlava sia Zulu che Afrikaneer. Un'altra era esperta in agricoltura, una medico e un'altra, ingegnere, costruiva i pozzi per l'acqua. Era una zona dedita all'allevamento del bestiame: alla mano d'opera nera era permesso solo di bere dalle stesse pozze del bestiame con conseguenze sanitarie immaginabili.
Io, che sono sempre un po' sospettosa, ho cominciato a far domande: mi risposero che tra quella gente avevano imparato molto, anche in materia di fede.
Quando nasceva un bambino era normale chiamarlo con nomi il cui significato era “Grazie a Dio”, “Benedetto dal Signore”...
Nella loro scuola c'erano circa 600 allieve. Chiesi: “Voi insegnate a leggere, a scrivere...Catechizzate anche?”. Mi risposero che avevano smesso di farlo. Quando raccontavano una storia della Bibbia venivano ascoltate molto volentieri, anche perché alcune vecchie regole (per es. nel Levitico) erano identiche a quelle dell'antica religione animista praticata dagli abitanti del villaggio.
Io temo che anche il cristianesimo “esportato” con la nostra mentalità, abbia fatto dei danni in Africa. Penso per esempio al problema della contraccezione che veniva praticato in modo naturale, con l'uso delle erbe...
D. La divisione tra Bianchi e Neri si riproduceva anche all'interno delle diverse Chiese?
Febe: le due comunità, bianca e nera, non si incontravano.; nelle chiese dei Bianchi i Neri non c'erano. Quando Desmond Tutu divenne vescovo a Johannesburg in una Chiesa anglicana bianca, in chiesa non andava più nessuno. Lo ricordo bene perché andai a trovarlo ed era solo, disperso, in mezzo a tutti quei banchi ottocenteschi.
Va anche detto che forse nelle chiese protestanti, dove vige una maggiore libertà, le cose erano un po' più facili. Tutte le decisioni vengono prese dalla base, non dall'alto e quindi nel Sinodo ci si incontrava; a tale proposito c'erano dei permessi speciali (già nei primi anni '80 il presidente di turno della Chiesa Metodista era un africano nero).
Una volta Beyers Naudè mi disse. “La cosa che mi rattrista di più è che in questo modo i Bianchi perdono la fraternità dei Neri”. Ho compreso realmente cosa intendesse dire dopo aver partecipato ad un incontro in una chiesa frequantata solo da neri. In Sudafrica si canta sempre, alla cerimonia si arriva mezz'ora prima perché si canta e ppoi si canta anche alla fine. Ci si mette in fila e si esce ordinatamente sempre cantando. Quella volta mi avevano messo in mezzo e tutti, cantando, sono venuti a darmi la mano, in fila. Ad un certo punto venne avanti piano una vecchietta che zoppicava un po' e intanto frugava. Mi ha preso le mani mettendoci un “rand” (circa mille lire) dicendo: “Questa è l'unica cosa che possiedo e la voglio dare a te che sei venuta fin qui a trovarci...”. Poi naturalmente l'ho dato al pastore.
D. Qualche volta sento dire che forse il prezzo pagato per abbattere l'apartheid è stato troppo alto e i risultati inferiori alle legittime aspettative. Cosa ne pensa?
Febe: Dico che, nonostante tutto, non c'è confronto con l'epoca dell'apartheid. Certo si pensava che le cose cambiassero più in fretta, ma credo comunque che ne valesse la pena. Pensiamo soltanto al problema delle famiglie divise, lacerate. Spesso gli uomini, per lavorare, dovevano viver ein condizioni indegne negli “ostelli”, lontano dalle famiglie, con contratti di due anni (e quattro settimane di ferie). Io ho potuto vederli solo dopo la fine dell'apartheid. Esistevano due livelli di controllo, la polizia esterna e quella interna. In alcuni casi uscivano solo attraverso dei tunnel per recarsi al lavoro, per esempio in miniera. Dormivano in sedici per stanza; i letti erano a castello, ma non erano sufficienti; il refettorio aveva la centro una lunga tavola in cemento, le sedie fissate al suolo. Questi lavoratori vivevano in condizioni orribili. L'unica cosa che negli “ostelli” circolava in quantità e a buon mercato era una pessima qualità di birra che distruggeva i reni. Dieci-dodici anni di questa vita e ne uscivano abbruttiti. Quando tornavano a casa avevano ormai dimenticato le loro tradizioni, o meglio: no, non le avevano dimenticate, ma non ne erano più i portatori.
Le donne nel frattempo li avevano sopravanzati ed erano loro ormai al centro della vita stessa; era come se loro non servissero più a niente. Le conseguenze oggi sono stupri e violenze sulle donne, come conseguenza di quegli anni.
Nelle township, arrivati a quindici anni i figli dovevano andarsene nella homeland alla quale erano assegnati a seconda della lingua imparata dalla madre. Era lo smembramento di un popolo. Naturalmente in qualche caso oggi si assiste anche alla perdita di posti di lavoro, come in molte miniere dove non c'era mai stata innovazione tecnologica, dato che la mano d'opera a basso costo era in grande quantità; oppure in alcune vaste estensioni di terra vicino alla Namibia. Qui, sulle grandi proprietà delle immense fattorie, la mano d'opera viveva senza diritti, ma avendo comunque la possibilità di viverci; le donne ei bambini che lavoravano e anche la mano d'opera esterna, venivano pagati in modo irrisorio; oggi questo non è più possibile e i proprietari bianchi hanno cacciato dai loro terreni la mano d'opera che non sono disposti a pagare secondo le nuove norme.
Certo, risalire la china è duro, ma ora almeno possono risalire. Basta guardare cos'è successo alle ultime elezioni (aprile 2004 nda). Una partecipazione del 90%; in soli tre giorni tutti i risultati erano disponibili. Non per niente la persona responsabile dell'organizzazione delle elezioni era una donna, Pansy Tlakula.
Gianni Sartori
*nota: il rev. Sol Jacob, pastore emerito della Chiesa metodista e docente di Etica al Federal theological seminary, è stato presidente dell'associazione delle chiese metodiste. Ha partecipato alla lotta di liberazione dall'apartheid, è stato incarcerato e posto in isolamento. Sfidando il regime, nel 1977, nella regione del kwaZulu ha fondato una scuola materna interrazziale e interreligiosa che attualmente ospita circa 150 bambini. Nel 2008 ha avviato un progetto di lotta all'Hiv-Aids che si prende cura in particolare degli orfani. Dirige una catena di assistenza alla povertà estrema, con distribuzione di cibo, corsi di formazione e cura dei bambini di strada. Ha operato in campo ecumenico nel South African Council of Churches e presso l'Onu per la Commissione rifugiati e migranti.
** nota. Soprannominato Quisling, Buthelezi (lo ricordo per giovani e smemorati) veniva invitato a Rimini da Comunione e Liberazione e fu anche un riferimento per l'area “tercerista” nostrana (chissà, forse gli ricordava gli Ascari...)
Gianni Sartori - 2016/3/15 - 23:34
Addio a Johnny Clegg
(ANSA) - ROMA, 16 LUG - Addio a Johnny Clegg. Il musicista, antropologo e ballerino sudafricano è morto a 66 anni, dopo una battaglia contro il cancro al pancreas. Il suo manager, Roddy Quin - riferisce l'Associated Press - ha annunciato che Clegg si è spento serenamente nella sua casa di Johannesburg.
Soprannominato 'lo Zulu bianco', Clegg ha raggiunto il successo internazionale schierandosi con i diritti dei neri e contro le barriere razziali imposte dall'apartheid, mescolando influenze zulu con lo stile del pop britannico. Uno dei suoi brani più noti è Asimbonanga, "non l'abbiamo mai visto" in lingua zulu: un riferimento al fatto che in Sudafrica il regime dell'apartheid vietava la pubblicazione della prigionia di Nelson Mandela. Nel 2008 aveva partecipato a Londra al grande concerto per i 90 anni del leader sudafricano.
"La parte più dura del mio viaggio - aveva dichiarato Clegg a dicembre al canale news sudafricano eNCA - sarà nei prossimi due anni".
(ANSA) - ROMA, 16 LUG - Addio a Johnny Clegg. Il musicista, antropologo e ballerino sudafricano è morto a 66 anni, dopo una battaglia contro il cancro al pancreas. Il suo manager, Roddy Quin - riferisce l'Associated Press - ha annunciato che Clegg si è spento serenamente nella sua casa di Johannesburg.
Soprannominato 'lo Zulu bianco', Clegg ha raggiunto il successo internazionale schierandosi con i diritti dei neri e contro le barriere razziali imposte dall'apartheid, mescolando influenze zulu con lo stile del pop britannico. Uno dei suoi brani più noti è Asimbonanga, "non l'abbiamo mai visto" in lingua zulu: un riferimento al fatto che in Sudafrica il regime dell'apartheid vietava la pubblicazione della prigionia di Nelson Mandela. Nel 2008 aveva partecipato a Londra al grande concerto per i 90 anni del leader sudafricano.
"La parte più dura del mio viaggio - aveva dichiarato Clegg a dicembre al canale news sudafricano eNCA - sarà nei prossimi due anni".
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Lyrics and Music by Johnny Clegg & Savuka
Testo e musica di Johhny Clegg & Savuka
Album: Third World Child
Also performed by Joan Baez in her album "Recently"
Interpretata anche da Joan Baez nel suo album "Recently"
Grazie a Manuela per avermi mandato, appena rientrata dal Sudafrica, questa canzone. E grazie per averlo fatto con queste parole: "...contro ogni razzismo, per scuotere tutti quelli che ancora non vogliono vedere... E io la voglio personalmente dedicare alla giunta comunale fiorentina "di sinistra", quella che intitola il palazzetto dello sport a Nelson Mandela e poi fa le ordinanze anti-lavavetri. Mi piacerebbe che Nelson Mandela scrivesse a questi loschi figuri chiedendo loro di intitolare il palazzetto alla razzista fascista Oriana Fallaci (quella che voleva cacciare gli "sporchi somali" da Firenze), sarebbe più adeguato. Ricordiamo che nel 1987, quando la canzone fu composta, Nelson Mandela era ancora prigioniero a Robben Island.[RV]
Johnny Clegg forme alors Savuka, son nouveau groupe au mélange détonant de musique africaine et de rock qui part à la conquête de la scène internationale. Fou de danse et de musique, il n'aura de cesse d'affirmer l'originalité de la culture sud-africaine : pas celle, refermée sur elle-même, de l'apartheid érigé par le gouvernement raciste de Prétoria, mais une culture qui permette à toutes les races du pays de s'exprimer et de s'entendre.
Son célèbre Asimbonanga, en hommage à Nelson Mandela, censuré par le régime ségrégationniste de l'époque fit le tour du monde et fait partie désormais du répertoire national de la jeune démocratie. Plus intimes, ses nouvelles chansons n'en conservent pas moins leurs accents festifs, ceux d'un rock zoulou où se mêlent mélodies traditionnelles africaines, saxos, guitares électriques et bandonéons. Véritable bête de scène, occupant l'espace comme personne, Johnny Clegg n'a rien perdu de sa verve ni de son énergie légendaire. Ses concerts sont toujours aussi spectaculaires et les incroyables danses zoulous qui ont fait son succès à travers le monde conservent toute leur fougue.
In questa sua canzone, Johnny Clegg onora quattro personaggi che hanno lottato contro l'apartheid. Ovviamente nessun bisogno di presentazione per Nelson Mandela, mentre per Steve Biko si rimanda all'introduzione alla canzone di Peter Gabriel. Restano gli altri due.
Victoria Mxenge, (1942 - 1985) è stata un'importante attivista anti-apartheid, di professione infermiera e levatrice; si mise però a studiare giurisprudenza dopo che il marito, Griffiths Mxenge, fu ucciso da alcuni poliziotti guidati da Dirk Coetzee. Il fatto avvenne nella township di Umlazi, a Durban; Mxenge fu ritrovato pugnalato a morte vicino al campo di calcio di Umlazi.
Victoria Mxenge divenne una dirigente dello United Democratic Front e della Natal Organisation of Women e, una volta divenuta avvocato, fece parte del collegio di difesa dello UDF e del Natal Indian Congress durante la stagione dei processi razzisti di Pietermaritzburg. Fu a sua volta assassinata poco dopo il processo. Al suo funerale presero parte oltre 10.000 persone. I suoi assassini sono stati processati dalla Truth and Reconciliation Commission dopo la fine dell'apartheid.
Neil Aggett (1953-1982), bianco nato in Kenya ma trasferito in Sudafrica nel 1964, si laureò in medicina nel 1976. Lavorò come medico negli ospedali per neri (sotto l'apartheid, anche gli ospedali erano segregati) a Umtara, Tembisa e infine al Baragwanath Hospital di Soweto, dove divenne un popolarissimo sindacalista (aveva, tra le altre cose, imparato la lingua zulu).
Nominato dirigente del Sindacato dei Lavoratori Alimentari e Conservieri del Transvaal, organizzò un vittorioso sciopero contro un gigante sudafricano del settore, Fatti's & Moni's. Fu per questo motivo perseguitato dalle Security Forces (si noti il legame inscindibile tra "sicurezza" e repressione). Dopo che gli fu affidata l'organizzazione di una campagna di sensibilizzazione di bassa a Langa, presso Città del Capo, fu arrestato il 27 novembre 1981.
Fu ritrovato morto in cella il 5 febbraio 1982, dopo 70 giorni di detenzione senza processo. Nella storia dell'apartheid sudafricano fu la 51a vittima in carcere, ed il primo bianco a subire questa fine dal 1963. Secondo la versione della South African Security Police sarebbe stato un suicidio mentre si trovava alla John Vorster Square Police Station; Aggett si sarebbe impiccato con una sciarpa che un amico gli aveva tessuto personalmente. Il 29 giugno successivo, un'inchiesta rivelò però che la sua morte era avvenuta in seguito alle torture ricevute. Nonostante questo, nessun agente fu imputato per l'omicidio.
Si dice che la morte di Aggett abbia contribuito a far sì che la polizia razzista sudafricana studiasse altri metodi per sbarazzarsi degli oppositori, principalmente farli sparire senza possibilità di ritrovarne neppure il cadavere.