Locked away on an island
Not allowed to see the world
Guarded by a thousand rifles
In a prison lined with dirt
There's a man who inspires millions
to live like they are free
He's a guerrilla in the greatest sense
A revolutionary
He took up arms in '84
to fight the Turkish state
and protect the Kurdish people
from another deadly fate
Some may call him a terrorist
but you know it's not that way
And when politicians didn't care
He formed the PKK
Ocalan
He built camps up in the mountains
Launched attacks against the state
For the years of persecution
and their policies of hate
On a mission for the freedom
of the people of his land
He's the life and blood
and heart and soul
of all of Kurdistan
He liberated women
Helped them shed religion's chains
Built a path for every person
from the cradle to the grave
An intellect and passion
like the world has rarely seen
He's a leader without privillage
and I think that we should free
Ocalan
They arrested him in Italy
then sent him on his way
No other European state
would sign off on his plane
So he ended up in Kenya
where he was finally betrayed
by the hidden hand of the secret service
and the CIA
They shipped him back to Turkey
in a big public display
Called the media and film crews
before they locked him away
Held a puppet trial
then had their death sentence overturned
If they'd only take another look
I think that they could learn from
Ocalan
Not allowed to see the world
Guarded by a thousand rifles
In a prison lined with dirt
There's a man who inspires millions
to live like they are free
He's a guerrilla in the greatest sense
A revolutionary
He took up arms in '84
to fight the Turkish state
and protect the Kurdish people
from another deadly fate
Some may call him a terrorist
but you know it's not that way
And when politicians didn't care
He formed the PKK
Ocalan
He built camps up in the mountains
Launched attacks against the state
For the years of persecution
and their policies of hate
On a mission for the freedom
of the people of his land
He's the life and blood
and heart and soul
of all of Kurdistan
He liberated women
Helped them shed religion's chains
Built a path for every person
from the cradle to the grave
An intellect and passion
like the world has rarely seen
He's a leader without privillage
and I think that we should free
Ocalan
They arrested him in Italy
then sent him on his way
No other European state
would sign off on his plane
So he ended up in Kenya
where he was finally betrayed
by the hidden hand of the secret service
and the CIA
They shipped him back to Turkey
in a big public display
Called the media and film crews
before they locked him away
Held a puppet trial
then had their death sentence overturned
If they'd only take another look
I think that they could learn from
Ocalan
envoyé par Dq82 - 7/12/2020 - 20:18
Gianni Sartori - 31/12/2021 - 09:50
12 febbraio: PER LA LIBERTA’ DI OCALAN E DEL POPOLO CURDO
Intervista con Yilmaz Orkan di UIKI ONLUS
( a cura di Gianni Sartori)
D. Attualmente la Turchia, nella persona di Erdogan, appare pervasa da instancabile attivismo. Dopo gli interventi militari in Libia, Nagorno Karabakh, Nord dell’Iraq e della Siria…pretenderebbe di candidarsi al ruolo di mediatore tra Russia e Ucraina.Tale atteggiamento esprime realmente forza, potenza o è - anche -un modo per distrarre l’opinione pubblica turca dai problemi interni, sociali ed economici?
R. Come ben sappiano quando un Paese è ideologicamente schierato per la guerra, si organizza in funzione di ciò perdendo il senso democratico e diventando autoritario. Nel caso dell’odierna Turchia vediamo che ha inviato mercenari in Nagorno Karabakh, in Libia e altrove. Tutto ciò è funzionale all’economia e incide sul bilancio in quanto tali interventi vanno adeguatamente finanziati.
Al momento si calcola che la lira turca abbia perso circa il 100 per cento del suo valore, con un’inflazione ormai al 119 per cento (anche se ufficialmente la danno al 50 per cento). Anche per questo (oltre che perché non arriva il gas dall’Iran) tante imprese e attività commerciali stanno chiudendo. Con la conseguente perdita di posti di lavoro.
Per esempio al momento ci sarebbero difficoltà nel comprare un’auto.
Per lo più le aziende chiudono non potendo acquistare materie prime né in euro (oggi un euro corrisponde a 15, 50 centesimi di lira turca) né in dollari.
Assistiamo a uno spettacolo abnorme, con l’economia in via di dissoluzione. E di conseguenza la vita, i rapporti sociali, a causa della mancanza di lavoro (con il 60% dei lavoratori ridotti allo stipendio minimo, con stipendi da 240 euro al mese e prezzi simili a quelli europei).
Mi diceva in questi giorni uno degli avvocati del presidente Ocalan che era stato al mercato per comprare della verdura e che - per dirne una - i cetrioli erano a 2 euro al chilo. Per non parlare della carne, più cara che in Italia.
Per i pensionati, spesso con soli 120 euro al mese, va anche peggio.
Senza poi dimenticare i circa 7-8 milioni di migranti (siriani, afgani, bengalesi, yemeniti, pakistani, africani…) attualmente stanziati in Turchia. Soprattutto nella grandi città (Istanbul, Ankara, Smirne…) dato che non esiste un sistema organizzato di campi profughi, tantomeno un programma per l’integrazione.
Una situazione (ormai paragonabile a quella di alcuni paesi dell’America Latina) che porta a un incremento della criminalità.
Attualmente si conteggiano da due a dieci morti assassinati al giorno. Ricordo che Erdogan ha incamerato i soldi della UE per gestire l’immigrazione, ma senza intervenire a livello sociale. Molti ospedali non sono in grado di operare per mancanza di materiali, di attrezzature. Oppure sono i pazienti a doverseli procurare (come è stato chiesto a un mio amico ricoverato in questi giorni).
Intanto Ankara continua ad aggredire le città curde, uccidendo civili, sia in Bakur che in Rojava e supportando i terroristi.
Emblematico quanto è avvenuto recentemente con l’uccisione del capo dell’Isis. Come sai, gli Stati Uniti non avevano informato la Turchia dell’imminente attacco temendo che questa lo avrebbe allertato consentendogli la fuga. Del resto fino a poco tempo fa se ne stava tranquillo in territorio turco e l’abitazione dov’era al momento dell’attacco si trova a circa 500 metri dal posto di controllo turco.
Per la cronaca, la sede della versione locale di Al Qaida si trova ancora più vicino, a circa 300 metri.
Un conferma che la Turchia sostiene, protegge i vari gruppi islamisti radicali, sia in Turchia che nei territori occupati del nord della Siria. Si accorda, coordina con questi. Durante gli scontri del recente attacco al carcere, la Turchia ha colpito con i droni militanti e volontari che correvano in aiuto delle FDS contro i miliziani jihadisti.
Sia gli Stati Uniti che l’Unione Europea - a anche la Russia - dovrebbero comprendere che con la Turchia (così come con l’Iran) non è possibile costruire in Siria un sistema democratico e federale. Entrambi, Turchia e Iran, strumentalizzano la religione per ritagliarsi un ruolo di leader dell’islam (rispettivamente sunnita e sciita).
Così come hanno fatto in passato gli Ottomani.
Tornando alla Turchia, ripeto che stiamo parlando di un Paese economicamente distrutto, in crisi, con il rischio concreto di precipitare nella guerra civile.
Assurdo che un Paese in queste difficoltà, paradossalmente pretenda di candidarsi a far da mediatore tra Ucraina e Russia.
D. In recenti incontri con esponenti politici tedeschi, membri del governo, Erdogan sollecitava una ulteriore repressione nei confronti del dissenso curdo, in particolare di quella parte della diaspora che fa rifermento a Ocalan. Trovando, vedi le espulsioni di richiedenti asilo, una certa comprensione.
Come commenti tale politica da parte di Berlino?
R. La collaborazione tra Germania e Turchia è di vecchia data. Non per niente Hitler considerava Ataturk come uno dei suoi “maestri”.
Troviamo talvolta le manifestazioni di una medesima mentalità fascista, la presunzione di appartenere a una razza superiore.
Per esempio tutta la storia insegnata nelle scuole e università turche parla della grandezza della Turchia e degli Ottomani in particolare.
Addirittura, secondo alcuni accademici, tutte le lingue deriverebbero da una lingua proto- turca (teoria della lingua del Sole: Güneş Dil Teorisi). Anche se poi, andando a controllare, è invece la lingua turca ad aver adottato termini di origine persiana, araba, curda e anche francese.
L’esasperato nazionalismo turco è una vera e propria malattia, a mio avviso inguaribile. E in questo si può cogliere qualche analogia con il nazionalismo tedesco. Negli ultimi decenni tale alleanza storica è venuta a rafforzarsi anche per la presenza sul suolo tedesco di circa due milioni di cittadini di origine turca.
Dopo la seconda guerra mondiale i rapporti commerciali, il giro di affari dell’export-importtra i due Paesi, è cresciuto in maniera esponenziale.
Inoltre nella visione della Germania la Turchia rappresenta un baluardo contro gli “attacchi” di Asia e Africa (in senso lato, sia commerciale che per quanto riguarda le migrazioni). Questo spiega i sei miliardi di euro concessi dalla Merkel per fermare i flussi migratori.
In cambio, quando la Turchia attacca i curdi, Berlino volge gli occhi altrove.
Quando in Germania un curdo commette un reato anche non grave (tipo una manifestazione non autorizzata, l’esposizione della bandiera del PKK…) viene regolarmente perseguito penalmente.
Invece quando - per dirne una - si è scoperto che la Turchia inviava autentici killer per assassinare esponenti della diaspora curda, le indagini andavano quanto meno a rilento. Due pesi e due misure.
Anche recentemente due associazioni (una di musicisti curdi, un’altra per la pubblicazione e diffusione di libri in lingua curda) sono state interdette. Costrette a chiudere.
D. Il recente assalto jihadista al carcere di Sima sarebbe stato orchestrato direttamente dalla Turchia. A tuo parere, cosa si ripromettevano?
R: Come ho detto la Turchia da tempo strumentalizza la religione e ora anche le milizie jihadiste per i suoi scopi. Soprattutto per arrivare a occupare e controllare definitivamente il Rojava. Già all’epoca del trattato di Losanna (1923) la Turchia protestava che questa regione dovrebbe far parte dello Stato turco. Ma vedendo che le sue ambizioni si scontravano con la politica della coalizione internazionale, Erdogan ha deciso di collaborare con l’Isis. In un primo tempo per occupare Kobane, poi tutto il Rojava. Come sai la cosa gli è andata male. Kobane ha resistito. Ora come ora cerca di riuscire nei suoi intenti collaborando con la Russia e con L’Iran.
Ovviamente il suo scopo principale è quello di impadronirsi delle risorse petrolifere del Rojava.
D. Dovendo descrivere in breve la situazione in Rojava. Come ha saputo reagire agli attacchi turchi l’Amministrazione autonoma (AANES)?
R. Secondo me ha reagito bene, non male sicuramente.
Una settimana fa ne parlavo con un compagno, rappresentante dell’Unione dei comuni e dei cantoni del Rojava. Mi ha spiegato che dopo l’attacco al carcere l’autostrada per Kobane (la 712 presumo, nda) risultava pericolosa da percorrere, ma che avevano già realizzato un altro percorso (andando da Hassakè fino a Raqqa e poi a Kobane) per cui, se pur con un giro leggermente più lungo, la strada è percorribile in sicurezza. Diciamo che siamo organizzati, efficienti.
Vorrei anche ricordare che durante l’assalto jihadista al carcere di Sina, tutta la popolazione (arabi, assiri, curdi…) è intervenuta per aiutare le FDS. I maggiori problemi per l’Amministrazione autonoma sono costituiti dai ricorrenti attacchi dei droni turchi. Per questo - e non da ieri - chiediamo che venga istituita una No-fly zone (NFZ, zona di interdizione del volo). Qui vivono circa cinque milioni di persone, ma data la mancanza di sicurezza in molti se non stanno andando, scappano via (e ovviamente in genere verso l’Europa).
Ci sarebbe poi bisogno di ulteriori riconoscimenti da parte delle istituzioni internazionali dell’AANES e anche di fermare l’embargo in atto, sia da parte della Turchia che dell’Iraq (vedi il sostanziale collaborazionismo del clan Barzani). Rompendo tale isolamento, la regione potrebbe senz’altro risollevarsi.
D. Qualche tua considerazione sui recenti attacchi della Turchia in Bashur (il Kurdistan entro i confini irachenI). Attacchi condotti anche utilizzando armi chimiche, gas asfissianti proibiti dalla Convenzione di Ginevra.
R. Con questi gas la Turchia ha ucciso una cinquantina di militanti curdi. Abbiamo quindi chiesto alle Nazioni Unite di prenderne atto, di venire a verificare.
Chiediamo di inviare esperti in grado di interrogare gli abitanti delle zone colpite, di raccogliere campioni da analizzare dato che finora non sappiamo con certezza che tipo di gas abbiano usato.
Ma finora l’agenzia non ci ha nemmeno risposto.
Per questo motivo ci sono state - e ci sono tuttora - manifestazioni davanti alla sede delle Nazioni Unite di Ginevra a anche in Olanda, alla sede dell’Organisation for the Prohibition of Chemical Weapons (OPCW).
Concludo ricordando che il 12 febbraio si svolgeranno alcune manifestazioni per la liberazione del presidente Ocalan. A Roma, a Milano e anche a Cagliari. Invitando tutti coloro che hanno a cuore la democrazia, la libertà e i diritti dei popoli a partecipare.
Gianni Sartori
Intervista con Yilmaz Orkan di UIKI ONLUS
( a cura di Gianni Sartori)
D. Attualmente la Turchia, nella persona di Erdogan, appare pervasa da instancabile attivismo. Dopo gli interventi militari in Libia, Nagorno Karabakh, Nord dell’Iraq e della Siria…pretenderebbe di candidarsi al ruolo di mediatore tra Russia e Ucraina.Tale atteggiamento esprime realmente forza, potenza o è - anche -un modo per distrarre l’opinione pubblica turca dai problemi interni, sociali ed economici?
R. Come ben sappiano quando un Paese è ideologicamente schierato per la guerra, si organizza in funzione di ciò perdendo il senso democratico e diventando autoritario. Nel caso dell’odierna Turchia vediamo che ha inviato mercenari in Nagorno Karabakh, in Libia e altrove. Tutto ciò è funzionale all’economia e incide sul bilancio in quanto tali interventi vanno adeguatamente finanziati.
Al momento si calcola che la lira turca abbia perso circa il 100 per cento del suo valore, con un’inflazione ormai al 119 per cento (anche se ufficialmente la danno al 50 per cento). Anche per questo (oltre che perché non arriva il gas dall’Iran) tante imprese e attività commerciali stanno chiudendo. Con la conseguente perdita di posti di lavoro.
Per esempio al momento ci sarebbero difficoltà nel comprare un’auto.
Per lo più le aziende chiudono non potendo acquistare materie prime né in euro (oggi un euro corrisponde a 15, 50 centesimi di lira turca) né in dollari.
Assistiamo a uno spettacolo abnorme, con l’economia in via di dissoluzione. E di conseguenza la vita, i rapporti sociali, a causa della mancanza di lavoro (con il 60% dei lavoratori ridotti allo stipendio minimo, con stipendi da 240 euro al mese e prezzi simili a quelli europei).
Mi diceva in questi giorni uno degli avvocati del presidente Ocalan che era stato al mercato per comprare della verdura e che - per dirne una - i cetrioli erano a 2 euro al chilo. Per non parlare della carne, più cara che in Italia.
Per i pensionati, spesso con soli 120 euro al mese, va anche peggio.
Senza poi dimenticare i circa 7-8 milioni di migranti (siriani, afgani, bengalesi, yemeniti, pakistani, africani…) attualmente stanziati in Turchia. Soprattutto nella grandi città (Istanbul, Ankara, Smirne…) dato che non esiste un sistema organizzato di campi profughi, tantomeno un programma per l’integrazione.
Una situazione (ormai paragonabile a quella di alcuni paesi dell’America Latina) che porta a un incremento della criminalità.
Attualmente si conteggiano da due a dieci morti assassinati al giorno. Ricordo che Erdogan ha incamerato i soldi della UE per gestire l’immigrazione, ma senza intervenire a livello sociale. Molti ospedali non sono in grado di operare per mancanza di materiali, di attrezzature. Oppure sono i pazienti a doverseli procurare (come è stato chiesto a un mio amico ricoverato in questi giorni).
Intanto Ankara continua ad aggredire le città curde, uccidendo civili, sia in Bakur che in Rojava e supportando i terroristi.
Emblematico quanto è avvenuto recentemente con l’uccisione del capo dell’Isis. Come sai, gli Stati Uniti non avevano informato la Turchia dell’imminente attacco temendo che questa lo avrebbe allertato consentendogli la fuga. Del resto fino a poco tempo fa se ne stava tranquillo in territorio turco e l’abitazione dov’era al momento dell’attacco si trova a circa 500 metri dal posto di controllo turco.
Per la cronaca, la sede della versione locale di Al Qaida si trova ancora più vicino, a circa 300 metri.
Un conferma che la Turchia sostiene, protegge i vari gruppi islamisti radicali, sia in Turchia che nei territori occupati del nord della Siria. Si accorda, coordina con questi. Durante gli scontri del recente attacco al carcere, la Turchia ha colpito con i droni militanti e volontari che correvano in aiuto delle FDS contro i miliziani jihadisti.
Sia gli Stati Uniti che l’Unione Europea - a anche la Russia - dovrebbero comprendere che con la Turchia (così come con l’Iran) non è possibile costruire in Siria un sistema democratico e federale. Entrambi, Turchia e Iran, strumentalizzano la religione per ritagliarsi un ruolo di leader dell’islam (rispettivamente sunnita e sciita).
Così come hanno fatto in passato gli Ottomani.
Tornando alla Turchia, ripeto che stiamo parlando di un Paese economicamente distrutto, in crisi, con il rischio concreto di precipitare nella guerra civile.
Assurdo che un Paese in queste difficoltà, paradossalmente pretenda di candidarsi a far da mediatore tra Ucraina e Russia.
D. In recenti incontri con esponenti politici tedeschi, membri del governo, Erdogan sollecitava una ulteriore repressione nei confronti del dissenso curdo, in particolare di quella parte della diaspora che fa rifermento a Ocalan. Trovando, vedi le espulsioni di richiedenti asilo, una certa comprensione.
Come commenti tale politica da parte di Berlino?
R. La collaborazione tra Germania e Turchia è di vecchia data. Non per niente Hitler considerava Ataturk come uno dei suoi “maestri”.
Troviamo talvolta le manifestazioni di una medesima mentalità fascista, la presunzione di appartenere a una razza superiore.
Per esempio tutta la storia insegnata nelle scuole e università turche parla della grandezza della Turchia e degli Ottomani in particolare.
Addirittura, secondo alcuni accademici, tutte le lingue deriverebbero da una lingua proto- turca (teoria della lingua del Sole: Güneş Dil Teorisi). Anche se poi, andando a controllare, è invece la lingua turca ad aver adottato termini di origine persiana, araba, curda e anche francese.
L’esasperato nazionalismo turco è una vera e propria malattia, a mio avviso inguaribile. E in questo si può cogliere qualche analogia con il nazionalismo tedesco. Negli ultimi decenni tale alleanza storica è venuta a rafforzarsi anche per la presenza sul suolo tedesco di circa due milioni di cittadini di origine turca.
Dopo la seconda guerra mondiale i rapporti commerciali, il giro di affari dell’export-importtra i due Paesi, è cresciuto in maniera esponenziale.
Inoltre nella visione della Germania la Turchia rappresenta un baluardo contro gli “attacchi” di Asia e Africa (in senso lato, sia commerciale che per quanto riguarda le migrazioni). Questo spiega i sei miliardi di euro concessi dalla Merkel per fermare i flussi migratori.
In cambio, quando la Turchia attacca i curdi, Berlino volge gli occhi altrove.
Quando in Germania un curdo commette un reato anche non grave (tipo una manifestazione non autorizzata, l’esposizione della bandiera del PKK…) viene regolarmente perseguito penalmente.
Invece quando - per dirne una - si è scoperto che la Turchia inviava autentici killer per assassinare esponenti della diaspora curda, le indagini andavano quanto meno a rilento. Due pesi e due misure.
Anche recentemente due associazioni (una di musicisti curdi, un’altra per la pubblicazione e diffusione di libri in lingua curda) sono state interdette. Costrette a chiudere.
D. Il recente assalto jihadista al carcere di Sima sarebbe stato orchestrato direttamente dalla Turchia. A tuo parere, cosa si ripromettevano?
R: Come ho detto la Turchia da tempo strumentalizza la religione e ora anche le milizie jihadiste per i suoi scopi. Soprattutto per arrivare a occupare e controllare definitivamente il Rojava. Già all’epoca del trattato di Losanna (1923) la Turchia protestava che questa regione dovrebbe far parte dello Stato turco. Ma vedendo che le sue ambizioni si scontravano con la politica della coalizione internazionale, Erdogan ha deciso di collaborare con l’Isis. In un primo tempo per occupare Kobane, poi tutto il Rojava. Come sai la cosa gli è andata male. Kobane ha resistito. Ora come ora cerca di riuscire nei suoi intenti collaborando con la Russia e con L’Iran.
Ovviamente il suo scopo principale è quello di impadronirsi delle risorse petrolifere del Rojava.
D. Dovendo descrivere in breve la situazione in Rojava. Come ha saputo reagire agli attacchi turchi l’Amministrazione autonoma (AANES)?
R. Secondo me ha reagito bene, non male sicuramente.
Una settimana fa ne parlavo con un compagno, rappresentante dell’Unione dei comuni e dei cantoni del Rojava. Mi ha spiegato che dopo l’attacco al carcere l’autostrada per Kobane (la 712 presumo, nda) risultava pericolosa da percorrere, ma che avevano già realizzato un altro percorso (andando da Hassakè fino a Raqqa e poi a Kobane) per cui, se pur con un giro leggermente più lungo, la strada è percorribile in sicurezza. Diciamo che siamo organizzati, efficienti.
Vorrei anche ricordare che durante l’assalto jihadista al carcere di Sina, tutta la popolazione (arabi, assiri, curdi…) è intervenuta per aiutare le FDS. I maggiori problemi per l’Amministrazione autonoma sono costituiti dai ricorrenti attacchi dei droni turchi. Per questo - e non da ieri - chiediamo che venga istituita una No-fly zone (NFZ, zona di interdizione del volo). Qui vivono circa cinque milioni di persone, ma data la mancanza di sicurezza in molti se non stanno andando, scappano via (e ovviamente in genere verso l’Europa).
Ci sarebbe poi bisogno di ulteriori riconoscimenti da parte delle istituzioni internazionali dell’AANES e anche di fermare l’embargo in atto, sia da parte della Turchia che dell’Iraq (vedi il sostanziale collaborazionismo del clan Barzani). Rompendo tale isolamento, la regione potrebbe senz’altro risollevarsi.
D. Qualche tua considerazione sui recenti attacchi della Turchia in Bashur (il Kurdistan entro i confini irachenI). Attacchi condotti anche utilizzando armi chimiche, gas asfissianti proibiti dalla Convenzione di Ginevra.
R. Con questi gas la Turchia ha ucciso una cinquantina di militanti curdi. Abbiamo quindi chiesto alle Nazioni Unite di prenderne atto, di venire a verificare.
Chiediamo di inviare esperti in grado di interrogare gli abitanti delle zone colpite, di raccogliere campioni da analizzare dato che finora non sappiamo con certezza che tipo di gas abbiano usato.
Ma finora l’agenzia non ci ha nemmeno risposto.
Per questo motivo ci sono state - e ci sono tuttora - manifestazioni davanti alla sede delle Nazioni Unite di Ginevra a anche in Olanda, alla sede dell’Organisation for the Prohibition of Chemical Weapons (OPCW).
Concludo ricordando che il 12 febbraio si svolgeranno alcune manifestazioni per la liberazione del presidente Ocalan. A Roma, a Milano e anche a Cagliari. Invitando tutti coloro che hanno a cuore la democrazia, la libertà e i diritti dei popoli a partecipare.
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 9/2/2022 - 21:11
Gianni Sartori - 17/1/2023 - 19:07
Lo slogan “Jin, Jiyan, Azadi” non è roba da borghesia radical-chic: è un messaggio rivoluzionario scandito dalle combattenti curde e scritto sui muri delle celle.
QUALCHE CONSIDERAZIONE SULLA GENEALOGIA DI “DONNA VITA LIBERTA’”.
UNA “FORMULA MAGICA” GIA' UTILIZZATA DA OCALAN ANCORA NEL 2006
Gianni Sartori
Pretendere con le modeste forze a mia disposizione - e la mancanza di adeguati titoli accademici - di recensire, commentare, divulgare (e fatalmente riassumere) quella che possiamo definire una “esplorazione” delle origini e del significato dello slogan “Jin, Jiyan, Azadi” (“Donna, Vita, Libertà”) della militante curda Somayeh Rostampour * è senz’altro, almeno da parte mia, eccessivo.
D’altra parte gli “addetti ai lavori” sembrano il più delle volte intenti o a strumentalizzarlo oppure - forse peggio - a utilizzarlo senza criterio o adeguata conoscenza. Vedi il caso di qualche parlamentare europea nostrana e di corporazioni parastatali senz’altro rispettabili, ma che difficilmente possono identificarsi con la pluridecennale lotta di liberazione del popolo curdo.
Quasi una mancanza di rispetto per chi lo ha ideato, rappresentato direi quasi incarnato: le donne curde in lotta contro l’oppressione patriarcale, statale e capitalista in tutte le sue variegate forme.
Quindi mi ci proverò.
Il movimento di rivolta femminista (non appaia eccessivo definirlo pre-insurrezionale) che per oltre sei mesi ha infiammato il Rojhilat e l’intero l’Iran (e che al momento sembra entrato in una fase di riflessione) ha una precisa data d’inizio: il 16 settembre 2022. In quella data veniva ammazzata dalla polizia morale della Repubblica islamica Jina (Masha all’anagrafe dato che il nome curdo era stato proibito) Amini.
Una ribellione contro non solo l’obbligo del hijab, ma anche contro quelli che Somayeh Rostampour qualifica come “44 anni di apartheid sessuale, patriarcato, dittatura militare, neoliberismo, nazionalismo e teocrazia islamista”. E scusate se è poco.
Un movimento propedeutico alla caduta del regime e a un cambio radicale dei rapporti sociali.
Fermo restando che - come per ogni movimento rivoluzionario - non mancano rischi concreti di strumentalizzazione (sia da parte di Stati come Israele e USA, sia da parte, per esempio, dei nostalgici monarchici).
Stando ai dati delle Ong, nei primi tre mesi del movimento sono stati arrestati oltre 18mila manifestanti, migliaia risultano feriti e circa cinquecento uccisi negli scontri o sotto tortura (tra cui una settantina di minori). Dopo quelle già eseguite, si teme per le altre condanne a morte già emesse o previste (circa un centinaio). In genere senza prove sostanziali, con confessioni estorte con la tortura. Per non parlare delle condizioni indegne di prigionia e dei maltrattamenti subiti dalle persone arrestate, in particolare dalle donne.
Quando come sottolinea Somayeh Rostampour, viene gridato che questa è “una rivoluzione delle donne, non chiamatela più una manifestazione” significa che questa volta (rispetto ai movimenti di protesta del passato) le cose sono differenti.
Quanto allo slogan adottato, ”Jin, Jiyan, Azadi”, veniva scandito da migliaia di abitanti di Saqqez (Rojhilat, Kurdistan sotto occupazione iraniana) al momento della sepoltura di Jina che le autorità avrebbero voluto si svolgesse in segreto.
Venne poi utilizzato in un’altra città curda, a Sanadaj e successivamente dagli studenti di Teheran. Da allora in poi si è udito distintamente in ogni città e villaggio dell’intero Paese.
Ma, si chiede la studiosa e militante curda “come era arrivato questo slogan a Saqqez?”. E anche “qual’è il suo significato politico e sociale, la sua genealogia?”.
“Jin, Jiyan, Azadi” non è diventato “la parola d’ordine del sollevamento in Iran per caso, non è caduto dal cielo”. Deriva da una lunga storia di lotte sociali. Rappresenta "l’eredità del movimento delle donne curde in quella parte del Kurdistan posto entro i confini ella Turchia, il Bakur”.
Riporta quindi quanto aveva scritto nello scorso settembre Atefeh Nabavii (a lungo in cella con Shirin Alamholi, esponente del PJAK, giustiziata a 28 anni nel 2009 e il cui corpo non è mai stato restituito alla famiglia):
“Ho inteso per la prima volta lo slogan Jin, Jiyan, Azadi da Shirin Alamholi nella prigione di Evin, era scritto sul muro della cella, a fianco del suo letto”.
Sia il PJAK (Partito per una vita libera nel Kurdistan ) nel Rojhilat che il movimento delle donne in Bakur attingono la loro visione del mondo dal pensiero di Abdullah Ocalan, il fondatore del PKK nel 1978. Partito che inizialmente utilizzava mezzi pacifici, ma che dopo il colpo di Stato del 1980 aveva adottato la lotta armata. Come è noto dal 1999 quello che possiamo definire il “Mandela curdo” è imprigionato (dopo un sequestro illegale in Kenia) nel carcere di Imrali.
Inizialmente, in quella che viene considera ta “fase marxista-nazionalista”, Ocalan era stato influenzato anche dal maoismo, oltre che dal pensiero di Franz Fanon (“I dannati della Terra”) e di Ernesto Guevara. Ma fin dagli esordi aveva fortemente incoraggiato il protagonismo delle donne nella lotta di liberazione. In quanto “la liberazione del Kurdistan non sarà possibile senza la liberazione delle donne”.
Distinguendosi in questo dalla maggior parte delle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria, non solo da quelle mediorientali.
Ossia “il PKK metteva in luce la questione femminile nella cornice del moderno nazionalismo curdo che principalmente si basava sulla difesa della patria curda, del proprio territorio, della cultura e della lingua curde”.
In seguito, sostanzialmente dal 1995, nel PKK avviene quella che Somayeh Rostampour definisce una “rivoluzione culturale”. Allontanandosi sia dall’ortodossia marxista più rigorosa, sia dalla rivendicazione di una patria indipendente (il “Grande Kurdistan”) evolvendo in direzione di una visione politica incentrata sul concetto di “democrazia” (in parte a scapito di quello di “classe”). Nella sua elaborazione Ocalan va a individuare i soggetti del processo rivoluzionario non solo nei lavoratori, ma soprattutto nelle donne e nelle pratiche ecologiste.
Elaborando una sintesi di comunalismo e autonomia sociale denominata “Confederalismo democratico” e fondato su tre pilastri: le comuni, le donne e l’ecologia.
La questione delle donne diventa ancora più centrale e la componente femminista del PKK acquista ulteriore importanza, sia nell’elaborazione politica che nella pratica sociale. Oltre che nella Resistenza, ovviamente.
Già in precedenza comunque, Ocalan aveva analizzato e recuperato le antiche tradizioni matriarcali (matrilineari) mesopotamiche (vedi l’antagonismo tra il dio maschile Enkidu e la dea guerriera Ishtar) in contrapposizione sia al patriarcato che all’imperialismo e al colonialismo.
Nella convinzione che le donne, le prime a creare la vita e a coltivare le conoscenze indispensabili per essa, ne erano state espropriate dagli uomini.
Come Ocalan stesso ha dichiarato, il suo obiettivo politico era quello di “restituire alle donne la fiducia in se stesse che avevano perduto dimostrando che il patriarcato non era un principio eterno e naturale della storia, ma bensì il risultato di pratiche storiche”. Per concludere che “il patriarcato poteva essere superato”.
Almeno dal 1990 Ocalan aveva utilizzato insieme, in diverse occasioni, i concetti di “Donna” e di “Vita”.
Anche perché la radice delle parole donna (Jin) e vita (Jiyan) in lingua curda è la medesima.
Non a caso nel 1999 il PKK pubblicava un documento intitolato “Jin Jiyan” e dal 2000 lo slogan “Jin, Jiyan” è stato ampiamente e sistematicamente utilizzato dalle donne curde in Bakur (il Kurdistan sotto occupazione turca).
Da questo punto di vista l’espressione “Jin, Jiyan” è di molto antecedente all’attuale “Jin, Jiyan, Azadi”.
E anche la parola “Azadi” (Libertà) rientrava tra i concetti basilari del PKK. Libertà dai rapporti sociali di dominio - di potere - sia dal capitalismo che dallo Stato e dal patriarcato.
Stando alle testimonianze raccolte, nel 2002 durante la cerimonia funebre organizzata da militanti del PKK per una vittima di femminicidio, le donne presenti avevano scandito lo slogan “Jin, Jiyan, Azadi “ nella sua interezza. Da allora si era andato diffondendo diventando quasi una tradizione, soprattutto per le donne assassinate.
Sempre Ocalan aveva utilizzato le tre parole insieme - forse per la prima volta - nel quarto dei suoi liberi scritti in prigione “La crisi della civilizzazione in Medio Oriente e la soluzione della civilizzazione democratica” nel 2006.
Non particolarmente utilizzato fino al 2008, esplose, letteralmente, in Rojava e Bakur soprattutto dal 2013.
In una lettera scritta nel 2013 (ci ricorda Somayeh Rostampour) Öcalan evidenziava la potenza tutta politica dello slogan Jin, Jyian, Azadi nella ricerca di una "vita degna”.
Arrivando a definirlo una “formula magica” in grado di fornire un modello per le donne dell’intero Medio Oriente.
Naturalmente “né la storia del PKK, né quella delle donne nel movimento, possono venir ridotte a quella del loro dirigente”.
Il PKK è “un movimento sociale e politico che si è sviluppato non solamente nell’ambito politico, ma nella vita quotidiana di milioni di persone ormai per varie generazioni”.
E sono le donne del PKK, sia le combattenti che quelle che agiscono nella società civile, che hanno fatto di “Jin, Jiyan, Azadi “ l’idea centrale del movimento. “Femminisando” la politica in Kurdistan e condizionando anche quella della Turchia.
Andando di casa in casa, parlando con donne di ogni condizione sociale, trasformando la questione di genere da una istanza delle élites a un problema che riguarda tutti gli oppressi.
Per concludere con Somayeh Rostampour che “quanto è accaduto il 17 settembre a Saqqez durante il funerali di Jina Amini non era un avvenimento senza precedenti”. Ma piuttosto “la prosecuzione di una tradizione politica rivoluzionaria di lunga data originariamente sortita dal PKK”. Tradizione in cui hanno avuto un ruolo preponderante anche le “madri per la giustizia”, quelle che avevano perduto i loro figli nella lotta di liberazione sia in Bakur che nel Rojhilat (v. Le “Madri del sabato” e le Dadkhaah).
Gianni Sartori
*Nota 1:Jin, Jiyan, Azadi (Woman, Life, Freedom): The Genealogy of a Slogan
UNA “FORMULA MAGICA” GIA' UTILIZZATA DA OCALAN ANCORA NEL 2006
Gianni Sartori
Pretendere con le modeste forze a mia disposizione - e la mancanza di adeguati titoli accademici - di recensire, commentare, divulgare (e fatalmente riassumere) quella che possiamo definire una “esplorazione” delle origini e del significato dello slogan “Jin, Jiyan, Azadi” (“Donna, Vita, Libertà”) della militante curda Somayeh Rostampour * è senz’altro, almeno da parte mia, eccessivo.
D’altra parte gli “addetti ai lavori” sembrano il più delle volte intenti o a strumentalizzarlo oppure - forse peggio - a utilizzarlo senza criterio o adeguata conoscenza. Vedi il caso di qualche parlamentare europea nostrana e di corporazioni parastatali senz’altro rispettabili, ma che difficilmente possono identificarsi con la pluridecennale lotta di liberazione del popolo curdo.
Quasi una mancanza di rispetto per chi lo ha ideato, rappresentato direi quasi incarnato: le donne curde in lotta contro l’oppressione patriarcale, statale e capitalista in tutte le sue variegate forme.
Quindi mi ci proverò.
Il movimento di rivolta femminista (non appaia eccessivo definirlo pre-insurrezionale) che per oltre sei mesi ha infiammato il Rojhilat e l’intero l’Iran (e che al momento sembra entrato in una fase di riflessione) ha una precisa data d’inizio: il 16 settembre 2022. In quella data veniva ammazzata dalla polizia morale della Repubblica islamica Jina (Masha all’anagrafe dato che il nome curdo era stato proibito) Amini.
Una ribellione contro non solo l’obbligo del hijab, ma anche contro quelli che Somayeh Rostampour qualifica come “44 anni di apartheid sessuale, patriarcato, dittatura militare, neoliberismo, nazionalismo e teocrazia islamista”. E scusate se è poco.
Un movimento propedeutico alla caduta del regime e a un cambio radicale dei rapporti sociali.
Fermo restando che - come per ogni movimento rivoluzionario - non mancano rischi concreti di strumentalizzazione (sia da parte di Stati come Israele e USA, sia da parte, per esempio, dei nostalgici monarchici).
Stando ai dati delle Ong, nei primi tre mesi del movimento sono stati arrestati oltre 18mila manifestanti, migliaia risultano feriti e circa cinquecento uccisi negli scontri o sotto tortura (tra cui una settantina di minori). Dopo quelle già eseguite, si teme per le altre condanne a morte già emesse o previste (circa un centinaio). In genere senza prove sostanziali, con confessioni estorte con la tortura. Per non parlare delle condizioni indegne di prigionia e dei maltrattamenti subiti dalle persone arrestate, in particolare dalle donne.
Quando come sottolinea Somayeh Rostampour, viene gridato che questa è “una rivoluzione delle donne, non chiamatela più una manifestazione” significa che questa volta (rispetto ai movimenti di protesta del passato) le cose sono differenti.
Quanto allo slogan adottato, ”Jin, Jiyan, Azadi”, veniva scandito da migliaia di abitanti di Saqqez (Rojhilat, Kurdistan sotto occupazione iraniana) al momento della sepoltura di Jina che le autorità avrebbero voluto si svolgesse in segreto.
Venne poi utilizzato in un’altra città curda, a Sanadaj e successivamente dagli studenti di Teheran. Da allora in poi si è udito distintamente in ogni città e villaggio dell’intero Paese.
Ma, si chiede la studiosa e militante curda “come era arrivato questo slogan a Saqqez?”. E anche “qual’è il suo significato politico e sociale, la sua genealogia?”.
“Jin, Jiyan, Azadi” non è diventato “la parola d’ordine del sollevamento in Iran per caso, non è caduto dal cielo”. Deriva da una lunga storia di lotte sociali. Rappresenta "l’eredità del movimento delle donne curde in quella parte del Kurdistan posto entro i confini ella Turchia, il Bakur”.
Riporta quindi quanto aveva scritto nello scorso settembre Atefeh Nabavii (a lungo in cella con Shirin Alamholi, esponente del PJAK, giustiziata a 28 anni nel 2009 e il cui corpo non è mai stato restituito alla famiglia):
“Ho inteso per la prima volta lo slogan Jin, Jiyan, Azadi da Shirin Alamholi nella prigione di Evin, era scritto sul muro della cella, a fianco del suo letto”.
Sia il PJAK (Partito per una vita libera nel Kurdistan ) nel Rojhilat che il movimento delle donne in Bakur attingono la loro visione del mondo dal pensiero di Abdullah Ocalan, il fondatore del PKK nel 1978. Partito che inizialmente utilizzava mezzi pacifici, ma che dopo il colpo di Stato del 1980 aveva adottato la lotta armata. Come è noto dal 1999 quello che possiamo definire il “Mandela curdo” è imprigionato (dopo un sequestro illegale in Kenia) nel carcere di Imrali.
Inizialmente, in quella che viene considera ta “fase marxista-nazionalista”, Ocalan era stato influenzato anche dal maoismo, oltre che dal pensiero di Franz Fanon (“I dannati della Terra”) e di Ernesto Guevara. Ma fin dagli esordi aveva fortemente incoraggiato il protagonismo delle donne nella lotta di liberazione. In quanto “la liberazione del Kurdistan non sarà possibile senza la liberazione delle donne”.
Distinguendosi in questo dalla maggior parte delle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria, non solo da quelle mediorientali.
Ossia “il PKK metteva in luce la questione femminile nella cornice del moderno nazionalismo curdo che principalmente si basava sulla difesa della patria curda, del proprio territorio, della cultura e della lingua curde”.
In seguito, sostanzialmente dal 1995, nel PKK avviene quella che Somayeh Rostampour definisce una “rivoluzione culturale”. Allontanandosi sia dall’ortodossia marxista più rigorosa, sia dalla rivendicazione di una patria indipendente (il “Grande Kurdistan”) evolvendo in direzione di una visione politica incentrata sul concetto di “democrazia” (in parte a scapito di quello di “classe”). Nella sua elaborazione Ocalan va a individuare i soggetti del processo rivoluzionario non solo nei lavoratori, ma soprattutto nelle donne e nelle pratiche ecologiste.
Elaborando una sintesi di comunalismo e autonomia sociale denominata “Confederalismo democratico” e fondato su tre pilastri: le comuni, le donne e l’ecologia.
La questione delle donne diventa ancora più centrale e la componente femminista del PKK acquista ulteriore importanza, sia nell’elaborazione politica che nella pratica sociale. Oltre che nella Resistenza, ovviamente.
Già in precedenza comunque, Ocalan aveva analizzato e recuperato le antiche tradizioni matriarcali (matrilineari) mesopotamiche (vedi l’antagonismo tra il dio maschile Enkidu e la dea guerriera Ishtar) in contrapposizione sia al patriarcato che all’imperialismo e al colonialismo.
Nella convinzione che le donne, le prime a creare la vita e a coltivare le conoscenze indispensabili per essa, ne erano state espropriate dagli uomini.
Come Ocalan stesso ha dichiarato, il suo obiettivo politico era quello di “restituire alle donne la fiducia in se stesse che avevano perduto dimostrando che il patriarcato non era un principio eterno e naturale della storia, ma bensì il risultato di pratiche storiche”. Per concludere che “il patriarcato poteva essere superato”.
Almeno dal 1990 Ocalan aveva utilizzato insieme, in diverse occasioni, i concetti di “Donna” e di “Vita”.
Anche perché la radice delle parole donna (Jin) e vita (Jiyan) in lingua curda è la medesima.
Non a caso nel 1999 il PKK pubblicava un documento intitolato “Jin Jiyan” e dal 2000 lo slogan “Jin, Jiyan” è stato ampiamente e sistematicamente utilizzato dalle donne curde in Bakur (il Kurdistan sotto occupazione turca).
Da questo punto di vista l’espressione “Jin, Jiyan” è di molto antecedente all’attuale “Jin, Jiyan, Azadi”.
E anche la parola “Azadi” (Libertà) rientrava tra i concetti basilari del PKK. Libertà dai rapporti sociali di dominio - di potere - sia dal capitalismo che dallo Stato e dal patriarcato.
Stando alle testimonianze raccolte, nel 2002 durante la cerimonia funebre organizzata da militanti del PKK per una vittima di femminicidio, le donne presenti avevano scandito lo slogan “Jin, Jiyan, Azadi “ nella sua interezza. Da allora si era andato diffondendo diventando quasi una tradizione, soprattutto per le donne assassinate.
Sempre Ocalan aveva utilizzato le tre parole insieme - forse per la prima volta - nel quarto dei suoi liberi scritti in prigione “La crisi della civilizzazione in Medio Oriente e la soluzione della civilizzazione democratica” nel 2006.
Non particolarmente utilizzato fino al 2008, esplose, letteralmente, in Rojava e Bakur soprattutto dal 2013.
In una lettera scritta nel 2013 (ci ricorda Somayeh Rostampour) Öcalan evidenziava la potenza tutta politica dello slogan Jin, Jyian, Azadi nella ricerca di una "vita degna”.
Arrivando a definirlo una “formula magica” in grado di fornire un modello per le donne dell’intero Medio Oriente.
Naturalmente “né la storia del PKK, né quella delle donne nel movimento, possono venir ridotte a quella del loro dirigente”.
Il PKK è “un movimento sociale e politico che si è sviluppato non solamente nell’ambito politico, ma nella vita quotidiana di milioni di persone ormai per varie generazioni”.
E sono le donne del PKK, sia le combattenti che quelle che agiscono nella società civile, che hanno fatto di “Jin, Jiyan, Azadi “ l’idea centrale del movimento. “Femminisando” la politica in Kurdistan e condizionando anche quella della Turchia.
Andando di casa in casa, parlando con donne di ogni condizione sociale, trasformando la questione di genere da una istanza delle élites a un problema che riguarda tutti gli oppressi.
Per concludere con Somayeh Rostampour che “quanto è accaduto il 17 settembre a Saqqez durante il funerali di Jina Amini non era un avvenimento senza precedenti”. Ma piuttosto “la prosecuzione di una tradizione politica rivoluzionaria di lunga data originariamente sortita dal PKK”. Tradizione in cui hanno avuto un ruolo preponderante anche le “madri per la giustizia”, quelle che avevano perduto i loro figli nella lotta di liberazione sia in Bakur che nel Rojhilat (v. Le “Madri del sabato” e le Dadkhaah).
Gianni Sartori
*Nota 1:Jin, Jiyan, Azadi (Woman, Life, Freedom): The Genealogy of a Slogan
Gianni Sartori - 10/3/2023 - 14:44
Mentre rimane incerta e oscura la sorte del presidente curdo Ocalan (nuovamente proibite le visite, sia per i familiari che per gli avvocati), la Svezia procede a tappe forzate nella sua marcia di avvicinamento e integrazione nella Nato. Nonostante qualche “incidente di percorso”, sempre a causa della questione curda.
MENTRE OCALAN RIMANE SOSTANZIALMENTE “DESAPARECIDO”, PER LA SVEZIA L’INTEGRAZIONE NELLA NATO E’ ORMAI QUASI UNA CERTEZZA ( A SPESE DEI CURDI PRESUMIBILMENTE)
Gianni Sartori
Stando a quanto dichiarato dal segretario generale Jens Stoltenberg, l’adesione della Svezia alla Nato sarebbe ormai “assolutamente possibile”.
Anzi, con la rielezione di Erdogan e mentre il Parlamento turco è in fase di costituzione, si sarebbe spalancata una nuova “finestra”.
Anche se - i soliti curdi - un nuovo incidente, l’ennesimo, ha fatto infuriare il rieletto presidente turco.
Da tempo, oltre all’estradizione dei militanti curdi, Ankara pretende da Stoccolma un maggiore controllo sulla comunità curda in Svezia. Impedendo lo svolgimento di manifestazioni ostili al regime turco e a favore della liberazione di Ocalan, imprigionato dal 1999 a Imrali e da due anni completamente tagliato fuori dal mondo, al punto che si teme per la sua stessa vita.
La prossima iniziativa sarebbe prevista per domenica. Nel frattempo il “Comitato Rojava” ha diffuso un video in cui (oltre alla richiesta di scarcerazione per il leader curdo) si vedono chiaramente il volto di Ocalan e la bandiera curda proiettati nottetempo sulla facciata del parlamento svedese.
Operazione definita da Ankara “inaccettabile” accusando il governo svedese di consentire attività propagandistiche a quelli che considera “fiancheggiatori del PKK”.
Richiedendo - attraverso il portavoce della presidenza Fahrettin Altun - un’immediata inchiesta sull’episodio e l’arresto dei responsabili.
Minacciando in caso contrario di porre ulteriori ostacoli all’entrata della Svezia nella Nato.
Come è noto, dopo decenni di neutralità e di non-allineamento sia la Svezia che la Finlandia, avevano chiesto di poter aderire all’Alleanza atlantica.
E’ possibile che per dare il suo assenso, ora Erdogan pretenda in cambio (oltre alla repressione della diaspora curda) la fornitura da parte degli Stati Uniti degli aerei da combattimento F-16 (come auspica da tempo).
Mentre per Blinken si tratterebbe di “due questioni distinte”, in precedenza Biden ne aveva già parlato in un incontro con Erdogan.
Purtroppo nel frattempo rimane drammaticamente incerta la situazione di Ocalan a cui per l’ennesima volta viene interdetta la possibilità di visite. Sia per i familiari che per gli avvocati.
Le continue richieste degli avvocati per poterlo incontrare vengono regolarmente rigettate (anche recentemente, in aprile). A un precedente divieto assoluto di visita di tre mesi, in aprile se ne è aggiunto uno ulteriore per ben sei mesi.
Tuttavia gli avvocati non demordono e contro tale proibizione hanno immediatamente deposto richieste a livello individuale presso la Corte costituzionale (AYM).
Gianni Sartori
MENTRE OCALAN RIMANE SOSTANZIALMENTE “DESAPARECIDO”, PER LA SVEZIA L’INTEGRAZIONE NELLA NATO E’ ORMAI QUASI UNA CERTEZZA ( A SPESE DEI CURDI PRESUMIBILMENTE)
Gianni Sartori
Stando a quanto dichiarato dal segretario generale Jens Stoltenberg, l’adesione della Svezia alla Nato sarebbe ormai “assolutamente possibile”.
Anzi, con la rielezione di Erdogan e mentre il Parlamento turco è in fase di costituzione, si sarebbe spalancata una nuova “finestra”.
Anche se - i soliti curdi - un nuovo incidente, l’ennesimo, ha fatto infuriare il rieletto presidente turco.
Da tempo, oltre all’estradizione dei militanti curdi, Ankara pretende da Stoccolma un maggiore controllo sulla comunità curda in Svezia. Impedendo lo svolgimento di manifestazioni ostili al regime turco e a favore della liberazione di Ocalan, imprigionato dal 1999 a Imrali e da due anni completamente tagliato fuori dal mondo, al punto che si teme per la sua stessa vita.
La prossima iniziativa sarebbe prevista per domenica. Nel frattempo il “Comitato Rojava” ha diffuso un video in cui (oltre alla richiesta di scarcerazione per il leader curdo) si vedono chiaramente il volto di Ocalan e la bandiera curda proiettati nottetempo sulla facciata del parlamento svedese.
Operazione definita da Ankara “inaccettabile” accusando il governo svedese di consentire attività propagandistiche a quelli che considera “fiancheggiatori del PKK”.
Richiedendo - attraverso il portavoce della presidenza Fahrettin Altun - un’immediata inchiesta sull’episodio e l’arresto dei responsabili.
Minacciando in caso contrario di porre ulteriori ostacoli all’entrata della Svezia nella Nato.
Come è noto, dopo decenni di neutralità e di non-allineamento sia la Svezia che la Finlandia, avevano chiesto di poter aderire all’Alleanza atlantica.
E’ possibile che per dare il suo assenso, ora Erdogan pretenda in cambio (oltre alla repressione della diaspora curda) la fornitura da parte degli Stati Uniti degli aerei da combattimento F-16 (come auspica da tempo).
Mentre per Blinken si tratterebbe di “due questioni distinte”, in precedenza Biden ne aveva già parlato in un incontro con Erdogan.
Purtroppo nel frattempo rimane drammaticamente incerta la situazione di Ocalan a cui per l’ennesima volta viene interdetta la possibilità di visite. Sia per i familiari che per gli avvocati.
Le continue richieste degli avvocati per poterlo incontrare vengono regolarmente rigettate (anche recentemente, in aprile). A un precedente divieto assoluto di visita di tre mesi, in aprile se ne è aggiunto uno ulteriore per ben sei mesi.
Tuttavia gli avvocati non demordono e contro tale proibizione hanno immediatamente deposto richieste a livello individuale presso la Corte costituzionale (AYM).
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 31/5/2023 - 17:44
Gianni Sartori - 27/11/2023 - 17:49
SOLIDARIETA’ AI PRIGIONIERI IN SCIOPERO DELLA FAME DA PARTE DELLA COMUNITA’ DEMOCRATICA CURDA IN SVIZZERA
Gianni Sartori
Il 27 novembre era iniziato l’ennesima protesta dei prigionieri curdi, accusati di far parte del PKK e del PAJK, nelle carceri del Kurdistan del Nord (Bakur). E ancora una volta, come spesso in passato, la forma prescelta è quella dello sciopero della fame. Sciopero che dovrebbe protrarsi fino al 15 febbraio 2024.
Due date scelte non a caso. Il 27 novembre 1978 venne fondato il PKK nel villaggio di Fîsê (distretto di Licê, Amed).
Mentre il 15 febbraio è il giorno del sequestro di Abdullah Ocalan e della sua deportazione in Turchia. La loro principale richiesta è appunto la liberazione del “Mandela curdo” (condizione minima indispensabile per una “soluzione politica della questione curda”) rinchiuso nella prigione di massima sicurezza di tipo F dell’isola di Imralî (la “Robben Island” turca) ormai da 25 anni. Inoltre nessuno tra i suoi familiare e avvocati ha potuto visitarlo da ben 32 mesi.
Periodo in cui non si sono avute notizie attendibili sulle sue condizioni di salute.
Il 6 dicembre la protesta dei prigionieri curdi è stata ricordata e rivendicata dalla veglia che dal 25 gennaio del 2021 si svolge ogni mercoledì a Ginevra davanti alla sede svizzera dell’ONU.
Realizzata dai militanti della Comunità Democratica Curda in Svizzera nel contesto della campagna "Dem dema azadiye" (Tempo di Libertà) allo scopo di richiedere sia la scarcerazione di Ocalan, sia la sospensione degli attacchi e massacri operati da Ankara in Kurdistan (nell’assordante silenzio anche dell’ONU).
Mehmet Latif Çelebi, co-presidente del Centro Comunitario Democratico Curdo di Ginevra(CDK-Ge), ha annunciato una marcia di protesta che si svolgerà il 13 dicembre (quarto anniversario della loro iniziativa del mercoledì).
A nome del Gruppo Serhildan (associazione internazionalista di solidarietà con il Rojava presente in Svizzera, Francia e Belgio) Anne Claude ha nuovamente denunciato le condizioni di detenzione in cui versa Ocalan sostenendo che “ormai da tre anni questo isolamento si è trasformato in tortura vera e propria e le preoccupazioni per la sua stessa vita sono ulteriormente aumentate”.
Gianni Sartori
Gianni Sartori
Il 27 novembre era iniziato l’ennesima protesta dei prigionieri curdi, accusati di far parte del PKK e del PAJK, nelle carceri del Kurdistan del Nord (Bakur). E ancora una volta, come spesso in passato, la forma prescelta è quella dello sciopero della fame. Sciopero che dovrebbe protrarsi fino al 15 febbraio 2024.
Due date scelte non a caso. Il 27 novembre 1978 venne fondato il PKK nel villaggio di Fîsê (distretto di Licê, Amed).
Mentre il 15 febbraio è il giorno del sequestro di Abdullah Ocalan e della sua deportazione in Turchia. La loro principale richiesta è appunto la liberazione del “Mandela curdo” (condizione minima indispensabile per una “soluzione politica della questione curda”) rinchiuso nella prigione di massima sicurezza di tipo F dell’isola di Imralî (la “Robben Island” turca) ormai da 25 anni. Inoltre nessuno tra i suoi familiare e avvocati ha potuto visitarlo da ben 32 mesi.
Periodo in cui non si sono avute notizie attendibili sulle sue condizioni di salute.
Il 6 dicembre la protesta dei prigionieri curdi è stata ricordata e rivendicata dalla veglia che dal 25 gennaio del 2021 si svolge ogni mercoledì a Ginevra davanti alla sede svizzera dell’ONU.
Realizzata dai militanti della Comunità Democratica Curda in Svizzera nel contesto della campagna "Dem dema azadiye" (Tempo di Libertà) allo scopo di richiedere sia la scarcerazione di Ocalan, sia la sospensione degli attacchi e massacri operati da Ankara in Kurdistan (nell’assordante silenzio anche dell’ONU).
Mehmet Latif Çelebi, co-presidente del Centro Comunitario Democratico Curdo di Ginevra(CDK-Ge), ha annunciato una marcia di protesta che si svolgerà il 13 dicembre (quarto anniversario della loro iniziativa del mercoledì).
A nome del Gruppo Serhildan (associazione internazionalista di solidarietà con il Rojava presente in Svizzera, Francia e Belgio) Anne Claude ha nuovamente denunciato le condizioni di detenzione in cui versa Ocalan sostenendo che “ormai da tre anni questo isolamento si è trasformato in tortura vera e propria e le preoccupazioni per la sua stessa vita sono ulteriormente aumentate”.
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 7/12/2023 - 08:39
PER IL POPOLO CURDO UNITA’ E SOLIDARIETA’ SONO INDISPENSABILI
Gianni Sartori
Due leader curdi (esponenti rispettivamente del PUK e del PKK) concordano sulla necessità di una ritrovata unità del popolo curdo e mettono in guardia sulle conseguenze deleterie di una guerra intra-curda.
Recentemente, in occasione del 36° anniversario del massacro di Halabja (oltre 5mila curdi assassinati dalle armi chimiche), il presidente dell’Unione Patriottica Curda (PUK) Bafil Talabani aveva dichiarato che “ i curdi necessitano di unità e solidarietà e non di allontanarsi gli uni dagli altri. Dobbiamo porre le nostre differenza al servizio dei nostri comuni interessi. Non dimentichiamo che il destino di tutti noi è uno soltanto. Il senso di responsabilità di fronte al nostro paese e alla nostra nazione deve prevalere sulle divergenze. Il nostro lavoro deve essere per tutti”.
La presa di posizione di Talabani aveva incontrato il favore di un altro importante esponente curdo, Murat Karayılan, del comitato esecutivo del PKK (Partito dei Lavoratori Curdi).
Infatti in un’intervista all’agenzia di stampa ANF, aveva definito l’atteggiamento del PUK come autenticamente “nazionale”, una forma di resistenza di fronte alle pressioni e minacce turche.
Nell’intervista aveva anche approfondito la questione dell’inasprimento del conflitto nella regione. Diventata “teatro di una guerra intensa” non solamente nelle zone controllate dal PKK nel Sud-Kurdistan (Iraq), ma anche nel Nord-Kurdistan (Turchia). In particolare nel corso del 2003.
Ricordando tuttavia come la resistenza curda non fosse mai venuta meno, soprattutto lungo la linea di Zap, Avaşîn e Metîna.
Confermando cos' “non solo la capacità di lotta del PKK (con l’adozione di tecniche moderne) ma anche la determinazione nel contrastare la propaganda psicologica del regime AKP-MHP”.
Tornando poi alla politica interna curda, Karayılan aveva duramente criticato alcune organizzazioni curde che collaborano con lo Stato turco, riferendosi in particolare al PDK (Partito Democratico del Kurdistan). Deplorando gli incontri segreti (neanche tanto segreti poi) tra servizi turchi (MIT) e quelli del PDK. Tacciandoli senza mezzi termini un “tradimento della causa curda” oltre che una pratica “pericolosa e contraddittoria per le aspirazioni curde”.
Mettendo poi in guardia sulle disastrose conseguenze di un conflitto tra curdi (definito “vergognoso e regressivo”) e appellandosi “all’unità nazionale e al senso di responsabilità”.
Gianni Sartori
Gianni Sartori
Due leader curdi (esponenti rispettivamente del PUK e del PKK) concordano sulla necessità di una ritrovata unità del popolo curdo e mettono in guardia sulle conseguenze deleterie di una guerra intra-curda.
Recentemente, in occasione del 36° anniversario del massacro di Halabja (oltre 5mila curdi assassinati dalle armi chimiche), il presidente dell’Unione Patriottica Curda (PUK) Bafil Talabani aveva dichiarato che “ i curdi necessitano di unità e solidarietà e non di allontanarsi gli uni dagli altri. Dobbiamo porre le nostre differenza al servizio dei nostri comuni interessi. Non dimentichiamo che il destino di tutti noi è uno soltanto. Il senso di responsabilità di fronte al nostro paese e alla nostra nazione deve prevalere sulle divergenze. Il nostro lavoro deve essere per tutti”.
La presa di posizione di Talabani aveva incontrato il favore di un altro importante esponente curdo, Murat Karayılan, del comitato esecutivo del PKK (Partito dei Lavoratori Curdi).
Infatti in un’intervista all’agenzia di stampa ANF, aveva definito l’atteggiamento del PUK come autenticamente “nazionale”, una forma di resistenza di fronte alle pressioni e minacce turche.
Nell’intervista aveva anche approfondito la questione dell’inasprimento del conflitto nella regione. Diventata “teatro di una guerra intensa” non solamente nelle zone controllate dal PKK nel Sud-Kurdistan (Iraq), ma anche nel Nord-Kurdistan (Turchia). In particolare nel corso del 2003.
Ricordando tuttavia come la resistenza curda non fosse mai venuta meno, soprattutto lungo la linea di Zap, Avaşîn e Metîna.
Confermando cos' “non solo la capacità di lotta del PKK (con l’adozione di tecniche moderne) ma anche la determinazione nel contrastare la propaganda psicologica del regime AKP-MHP”.
Tornando poi alla politica interna curda, Karayılan aveva duramente criticato alcune organizzazioni curde che collaborano con lo Stato turco, riferendosi in particolare al PDK (Partito Democratico del Kurdistan). Deplorando gli incontri segreti (neanche tanto segreti poi) tra servizi turchi (MIT) e quelli del PDK. Tacciandoli senza mezzi termini un “tradimento della causa curda” oltre che una pratica “pericolosa e contraddittoria per le aspirazioni curde”.
Mettendo poi in guardia sulle disastrose conseguenze di un conflitto tra curdi (definito “vergognoso e regressivo”) e appellandosi “all’unità nazionale e al senso di responsabilità”.
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 17/3/2024 - 11:46
IL MOVIMENTO CURDO NON SI E' FATTO INTIMIDIRE DALLE AGGRESSIONI SQUADRISTE DEI LUPI GRIGI
Gianni Sartori
Il 25 marzo, a seguito delle celebrazioni del Newroz (l’Anno Nuovo curdo) a cui avevano partecipato molti curdi dei municipi di Houthalen-Helchteren e di Heusden-Zolder, una famiglia curda che stava rientrando a casa a Kessel-Lo (una subcommunity di Lovanio) è stata aggredita da un centinaio di nazionalisti e razzisti turchi. I curdi sono stati duramente picchiati e le loro auto distrutte. Inoltre i turchi hanno tentato di incendiarne la casa arrivando a un tentativo di linciaggio, come si può vedere in un video circolante nella rete. Altri video mostrano chiaramente persone stese a terra, immobili, circondate da esagitati che lanciano offese razziste e sessiste in turco. Gli aggressori hanno anche bruciato alcuni simboli con i colori nazionali curdi (giallo, rosso e verde).
I razzisti inalberavano bandiere turche, facevano il segno dei Lupi Grigi e lanciavano slogan islamisti: “ya Allah! Bismillah! Allahu akbar! “.
Altri curdi erano intervenuti per difendere quelli aggrediti, ma venivano sopraffatti dal numero preponderante degli aggressori. Ne è seguita una vera e propria caccia al curdo per le vie della cittadina. I feriti accertati sono una decina (qualcuno molto gravemente) mentre alcuni curdi al momento risultano ancora scomparsi.
Sia le persone del nucleo familiare vittime della prima aggressione, sia altri partecipanti al Newroz provengono da Afrin, la città invasa dalla Turchia nel 2018.
Da allora qui si registrano violenze di ogni genere contro i civili, soprattutto contro le donne, per opera dei mercenari jihadisti. Sono almeno un centinaio le donne assassinate e altrettante quelle violentate. Circa un migliaio poi sarebbero state rapite.
La sera stessa a Bruxelles veniva organizzata una manifestazione spontanea di protesta e il 25 marzo il movimento curdo, in particolare il KCDK-E (Congresso delle società democratiche del Kurdistan in Europa), chiamava i curdi e i solidali a un presidio davanti al Parlamento europeo. All’invito hanno risposto centinaia di persone e numerose organizzazioni, non solo curde. In particolare gruppi belgi antifascisti e antirazzisti. All’appuntamento di presentavano purtroppo anche molti fascisti turchi che si esibivano nel solito gesto dei Lupi Grigi, ma venivano prontamente messi in fuga. Da parte sua la polizia antisommossa tentava di impedire l’assembramento dei manifestanti filo curdi con cariche, lacrimogeni e cannoni ad acqua.
Denunciando tale eventi il KCDK-E ha dichiarato in un comunicato che “mentre milioni di persone in ogni parte del Kurdistan e centinaia di migliaia in tutta Europa celebrano con passione e con spirito di unità nazionale il Newroz, ancora una volta lo Stata turco ricorre alla nota strategia del terrore, anche in Belgio”.
Senza risparmiare il governo belga accusato di “lasciare carta bianca alle bande fasciste dello Stato turco”.
Invitando infine i curdi a organizzarsi per proteggersi dalle provocazioni. Non si esclude che tali aggressioni vengano pianificate con il supporto (complicità per il KCDK-E) del consolato turco, come risposta alle iniziative politiche del movimento di liberazione curdo (vedi in particolare le grandi manifestazioni, soprattutto in Francia e Germania, per Ocalan).
Nei giorni successivi agli attacchi razzisti in Belgio, si è assistito alla forte mobilitazione della
comunità curda anche in Germania..
A Leipzig la Federazione dei Curdi Liberi della Germania Orientale (FED-KURD) ha organizzato un presidio di protesta nei pressi della stazione ferroviaria centrale. Centinaia di partecipanti hanno scandito slogan (in curdo, tedesco e inglese) contro il regime di AKP-MHP.
Così a Francofote dove decine di curdi hanno ugualmente manifestato davanti alla stazione ferroviaria.
Un’altra protesta per gli attacchi razzisti si è svolta a Giessen.
Vi hanno preso parte numerosi cittadini tedeschi ed esponenti di associazioni della società civile chiedendo alle autorità di garantire la sicurezza di tutte le minoranze (non solo dei curdi ovviamente) presenti sul territorio tedesco.
In un’altra manifestazione a Darmstadt è stato letta pubblicamente, in tedesco, la dichiarazione del KCDK-E.
Sempre a Darmstadt, Mehmet Çopan, copresidente della Federazione FCDK-KAWA ha denunciato che “i fascisti legati allo Stato turco hanno mostrato il loro vero volto, sporco e barbaro, in Belgio. Ma devono sapere che con tali azioni non potranno mai intimidire il popolo curdo”.
Gianni Sartori
Gianni Sartori
Il 25 marzo, a seguito delle celebrazioni del Newroz (l’Anno Nuovo curdo) a cui avevano partecipato molti curdi dei municipi di Houthalen-Helchteren e di Heusden-Zolder, una famiglia curda che stava rientrando a casa a Kessel-Lo (una subcommunity di Lovanio) è stata aggredita da un centinaio di nazionalisti e razzisti turchi. I curdi sono stati duramente picchiati e le loro auto distrutte. Inoltre i turchi hanno tentato di incendiarne la casa arrivando a un tentativo di linciaggio, come si può vedere in un video circolante nella rete. Altri video mostrano chiaramente persone stese a terra, immobili, circondate da esagitati che lanciano offese razziste e sessiste in turco. Gli aggressori hanno anche bruciato alcuni simboli con i colori nazionali curdi (giallo, rosso e verde).
I razzisti inalberavano bandiere turche, facevano il segno dei Lupi Grigi e lanciavano slogan islamisti: “ya Allah! Bismillah! Allahu akbar! “.
Altri curdi erano intervenuti per difendere quelli aggrediti, ma venivano sopraffatti dal numero preponderante degli aggressori. Ne è seguita una vera e propria caccia al curdo per le vie della cittadina. I feriti accertati sono una decina (qualcuno molto gravemente) mentre alcuni curdi al momento risultano ancora scomparsi.
Sia le persone del nucleo familiare vittime della prima aggressione, sia altri partecipanti al Newroz provengono da Afrin, la città invasa dalla Turchia nel 2018.
Da allora qui si registrano violenze di ogni genere contro i civili, soprattutto contro le donne, per opera dei mercenari jihadisti. Sono almeno un centinaio le donne assassinate e altrettante quelle violentate. Circa un migliaio poi sarebbero state rapite.
La sera stessa a Bruxelles veniva organizzata una manifestazione spontanea di protesta e il 25 marzo il movimento curdo, in particolare il KCDK-E (Congresso delle società democratiche del Kurdistan in Europa), chiamava i curdi e i solidali a un presidio davanti al Parlamento europeo. All’invito hanno risposto centinaia di persone e numerose organizzazioni, non solo curde. In particolare gruppi belgi antifascisti e antirazzisti. All’appuntamento di presentavano purtroppo anche molti fascisti turchi che si esibivano nel solito gesto dei Lupi Grigi, ma venivano prontamente messi in fuga. Da parte sua la polizia antisommossa tentava di impedire l’assembramento dei manifestanti filo curdi con cariche, lacrimogeni e cannoni ad acqua.
Denunciando tale eventi il KCDK-E ha dichiarato in un comunicato che “mentre milioni di persone in ogni parte del Kurdistan e centinaia di migliaia in tutta Europa celebrano con passione e con spirito di unità nazionale il Newroz, ancora una volta lo Stata turco ricorre alla nota strategia del terrore, anche in Belgio”.
Senza risparmiare il governo belga accusato di “lasciare carta bianca alle bande fasciste dello Stato turco”.
Invitando infine i curdi a organizzarsi per proteggersi dalle provocazioni. Non si esclude che tali aggressioni vengano pianificate con il supporto (complicità per il KCDK-E) del consolato turco, come risposta alle iniziative politiche del movimento di liberazione curdo (vedi in particolare le grandi manifestazioni, soprattutto in Francia e Germania, per Ocalan).
Nei giorni successivi agli attacchi razzisti in Belgio, si è assistito alla forte mobilitazione della
comunità curda anche in Germania..
A Leipzig la Federazione dei Curdi Liberi della Germania Orientale (FED-KURD) ha organizzato un presidio di protesta nei pressi della stazione ferroviaria centrale. Centinaia di partecipanti hanno scandito slogan (in curdo, tedesco e inglese) contro il regime di AKP-MHP.
Così a Francofote dove decine di curdi hanno ugualmente manifestato davanti alla stazione ferroviaria.
Un’altra protesta per gli attacchi razzisti si è svolta a Giessen.
Vi hanno preso parte numerosi cittadini tedeschi ed esponenti di associazioni della società civile chiedendo alle autorità di garantire la sicurezza di tutte le minoranze (non solo dei curdi ovviamente) presenti sul territorio tedesco.
In un’altra manifestazione a Darmstadt è stato letta pubblicamente, in tedesco, la dichiarazione del KCDK-E.
Sempre a Darmstadt, Mehmet Çopan, copresidente della Federazione FCDK-KAWA ha denunciato che “i fascisti legati allo Stato turco hanno mostrato il loro vero volto, sporco e barbaro, in Belgio. Ma devono sapere che con tali azioni non potranno mai intimidire il popolo curdo”.
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 26/3/2024 - 10:22
I recenti avvenimenti di Kessel-Lo sarebbero una spia, l’ennesima, della strategia anti-curda in Europa alimentata da Ankara grazie alla manovalanza dei Lupi Grigi
ANCORA SULLE PROVOCAZIONI DEI LUPI GRIGI CONTRO I CURDI IN BELGIO
Gianni Sartori
Non sembra che i recenti avvenimenti del Limburgo, in Belgio, abbiano creato grande apprensione (non per ora almeno). Eppure episodi simili si erano registrati, anche recentemente, sia in Francia (oltre che contro curdi, nei confronti della comunità armena) che nei Paesi Bassi e in Germania.
Invece da più parti sono stati eufemisticamente e genericamente definiti “tensioni tra turchi e curdi fuori dai confine dello Stato turco”.
Alcuni commenti apparivano pervasi da una sospetta “equidistanza” avanzando dubbi sulle circostanze e sulla cronologia (in pratica: su chi avrebbe attaccato per primo).
Anzi, per buona parte della stampa fiamminga le maggiori responsabilità spetterebbero ai curdi. I quali domenica pomeriggio 24 marzo, al rientro dalle celebrazioni del Newroz a Kessel-Lo, avrebbero “osato” percorrere “Strada delle miniere” (Koolmijnlaan a Heusden-Zolder), abitata prevalentemente da immigrati turchi, ostentando simboli (bandiere si presume) con i colori curdi ( e forse anche con qualche ritratto di Öcalan). Scatenando la reazione dei turchi, in particolare dei simpatizzanti di Ülkü Ocakları (più conosciuti come “Lupi Grigi”).
Va anche riportato che _ secondo altre testimonianze non ben precisate -un bar turco sarebbe stato “assaltato da persone armate di mazze” a Cheratte.
Ma appunto sulle reale dinamica - e soprattutto sulla cronologia - le fonti differiscono.
Non avrebbe dubbi (stando a quanto riportava il quotidiano Belang van Limburg) il responsabile della polizia locale, Geert Verheyen, secondo cui i curdi avrebbero “cominciato a provocare la popolazione turca con bandiere”. Per cui la situazione sarebbe presto degenerata.
Diversa l’opinione (raccolta dall’agenzia Belga) degli organizzatori della manifestazione filo-curda di lunedì 25 marzo a Bruxelles per i quali “gli scontri erano la conseguenza di un attacco premeditato dei Lupi Grigi”.
Compreso il tentativo di incendiare l’abitazione di una famiglia curda, ricordo.
Rimanendo in attesa dei risultati dell’inchiesta, va comunque sottolineato che non si tratta del primo episodio del genere. E soprattutto non si dovrebbe trascurare il fatto che l’atteggiamento di gran parte degli immigrati turchi, sia in Belgio che in Germania e Francia, nei confronti della diaspora curda è quanto meno arrogante e aggressivo. Il riflesso di quanto avviene regolarmente in Turchia verso la “minoranza” curda (oltre il 20%).
Come classificare i Lupi grigi? Sicuramente come un movimento di estrema destra, fascista e razzista. Con una spinta vocazione all’uso della violenza e al militarismo. Sostenitori della totale omogeneità della popolazione entro i confini attuali dello stato turco (“Un Paese, un popolo”), ipernazionalisti e sempre più risucchiati dall’integralismo identitario sunnita (salafiti, Fratelli musulmani…).
Senza dimenticare che nacquero (negli anni sessanta) come componente giovanile di MHP (Milliyetçi Hareket Partisi, Partito del Movimento Nazionalista), panturanico e particolarmente ostile nei confronti di Curdi, Armeni e delle organizzazioni di sinistra.
Attualmente alleato governativo del partito di Erdogan (AKP).
Recentemente, nel 2020, la Francia ha preso la decisione di illegalizzarli in quanto incitavano “all’odio e alla discriminazione e coinvolti in azioni violente”.
Anche se non tutti i turchi immigrati in Belgio simpatizzano, non apertamente almeno, per i Lupi Grigi, in base a recenti sondaggi circa il 70% si dichiara a favore di Erdogan e contro i curdi.
A tre giorni di distanza dagli avvenimenti di Heusden-Zolder, ha fatto sentire la sua voce anche il Ministero degli esteri turco accusando i curdi di essere la causa degli incidenti e attribuendone la responsabilità al PKK.
Nonostante esistano numerosi video (anche quelli messi in rete dai Lupi Grigi) in cui gli aggressori si esprimono in turco.
E’ probabileche il numero dei turchi immigrati legati in qualche modo all’organizzazione Ülkü Ocakları, sia piuttosto consistente. Inoltre, secondo fonti curde, molti si sarebbero infiltrati nei partiti europei, soprattutto (purtroppo!) in quelli di sinistra (anche nei Verdi).
Chiamando i curdi alla vigilanza, in un comunicato l’organizzazione dei curdi in Europa KCDK-E denunciava che la Turchia starebbe “creando situazioni di provocazione in Europa grazie ai Lupi Grigi”. Provocazioni che negli ultimi tempi si sono andate intensificando. Soprattutto dopo l’evidente successo della campagna mondiale per la liberazione di Öcalan con l’immensa manifestazione di Colonia del 17 febbraio e le numerose celebrazioni del Newroz in molti Stati europei (a cui hanno partecipato centinaia di migliaia di persone, milioni in Kurdistan).
Eventi che hanno evidentemente turbato Ankara. Ora, attraverso questa “strategia della tensione a bassa intensità”,si tenterebbe di far criminalizzare la lotta dei curdi per l’autodeterminazione e la libertà.
Ai curdi il compito di rimanere responsabili e di non cadere nelle provocazioni.
Gianni Sartori
ANCORA SULLE PROVOCAZIONI DEI LUPI GRIGI CONTRO I CURDI IN BELGIO
Gianni Sartori
Non sembra che i recenti avvenimenti del Limburgo, in Belgio, abbiano creato grande apprensione (non per ora almeno). Eppure episodi simili si erano registrati, anche recentemente, sia in Francia (oltre che contro curdi, nei confronti della comunità armena) che nei Paesi Bassi e in Germania.
Invece da più parti sono stati eufemisticamente e genericamente definiti “tensioni tra turchi e curdi fuori dai confine dello Stato turco”.
Alcuni commenti apparivano pervasi da una sospetta “equidistanza” avanzando dubbi sulle circostanze e sulla cronologia (in pratica: su chi avrebbe attaccato per primo).
Anzi, per buona parte della stampa fiamminga le maggiori responsabilità spetterebbero ai curdi. I quali domenica pomeriggio 24 marzo, al rientro dalle celebrazioni del Newroz a Kessel-Lo, avrebbero “osato” percorrere “Strada delle miniere” (Koolmijnlaan a Heusden-Zolder), abitata prevalentemente da immigrati turchi, ostentando simboli (bandiere si presume) con i colori curdi ( e forse anche con qualche ritratto di Öcalan). Scatenando la reazione dei turchi, in particolare dei simpatizzanti di Ülkü Ocakları (più conosciuti come “Lupi Grigi”).
Va anche riportato che _ secondo altre testimonianze non ben precisate -un bar turco sarebbe stato “assaltato da persone armate di mazze” a Cheratte.
Ma appunto sulle reale dinamica - e soprattutto sulla cronologia - le fonti differiscono.
Non avrebbe dubbi (stando a quanto riportava il quotidiano Belang van Limburg) il responsabile della polizia locale, Geert Verheyen, secondo cui i curdi avrebbero “cominciato a provocare la popolazione turca con bandiere”. Per cui la situazione sarebbe presto degenerata.
Diversa l’opinione (raccolta dall’agenzia Belga) degli organizzatori della manifestazione filo-curda di lunedì 25 marzo a Bruxelles per i quali “gli scontri erano la conseguenza di un attacco premeditato dei Lupi Grigi”.
Compreso il tentativo di incendiare l’abitazione di una famiglia curda, ricordo.
Rimanendo in attesa dei risultati dell’inchiesta, va comunque sottolineato che non si tratta del primo episodio del genere. E soprattutto non si dovrebbe trascurare il fatto che l’atteggiamento di gran parte degli immigrati turchi, sia in Belgio che in Germania e Francia, nei confronti della diaspora curda è quanto meno arrogante e aggressivo. Il riflesso di quanto avviene regolarmente in Turchia verso la “minoranza” curda (oltre il 20%).
Come classificare i Lupi grigi? Sicuramente come un movimento di estrema destra, fascista e razzista. Con una spinta vocazione all’uso della violenza e al militarismo. Sostenitori della totale omogeneità della popolazione entro i confini attuali dello stato turco (“Un Paese, un popolo”), ipernazionalisti e sempre più risucchiati dall’integralismo identitario sunnita (salafiti, Fratelli musulmani…).
Senza dimenticare che nacquero (negli anni sessanta) come componente giovanile di MHP (Milliyetçi Hareket Partisi, Partito del Movimento Nazionalista), panturanico e particolarmente ostile nei confronti di Curdi, Armeni e delle organizzazioni di sinistra.
Attualmente alleato governativo del partito di Erdogan (AKP).
Recentemente, nel 2020, la Francia ha preso la decisione di illegalizzarli in quanto incitavano “all’odio e alla discriminazione e coinvolti in azioni violente”.
Anche se non tutti i turchi immigrati in Belgio simpatizzano, non apertamente almeno, per i Lupi Grigi, in base a recenti sondaggi circa il 70% si dichiara a favore di Erdogan e contro i curdi.
A tre giorni di distanza dagli avvenimenti di Heusden-Zolder, ha fatto sentire la sua voce anche il Ministero degli esteri turco accusando i curdi di essere la causa degli incidenti e attribuendone la responsabilità al PKK.
Nonostante esistano numerosi video (anche quelli messi in rete dai Lupi Grigi) in cui gli aggressori si esprimono in turco.
E’ probabileche il numero dei turchi immigrati legati in qualche modo all’organizzazione Ülkü Ocakları, sia piuttosto consistente. Inoltre, secondo fonti curde, molti si sarebbero infiltrati nei partiti europei, soprattutto (purtroppo!) in quelli di sinistra (anche nei Verdi).
Chiamando i curdi alla vigilanza, in un comunicato l’organizzazione dei curdi in Europa KCDK-E denunciava che la Turchia starebbe “creando situazioni di provocazione in Europa grazie ai Lupi Grigi”. Provocazioni che negli ultimi tempi si sono andate intensificando. Soprattutto dopo l’evidente successo della campagna mondiale per la liberazione di Öcalan con l’immensa manifestazione di Colonia del 17 febbraio e le numerose celebrazioni del Newroz in molti Stati europei (a cui hanno partecipato centinaia di migliaia di persone, milioni in Kurdistan).
Eventi che hanno evidentemente turbato Ankara. Ora, attraverso questa “strategia della tensione a bassa intensità”,si tenterebbe di far criminalizzare la lotta dei curdi per l’autodeterminazione e la libertà.
Ai curdi il compito di rimanere responsabili e di non cadere nelle provocazioni.
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 28/3/2024 - 11:45
In Francia, dopo l’estradizione di Firaz Korkmaz, altri militanti curdi rischiano di venir deportati in Turchia
MILITANTE CURDO ESPULSO DALLA FRANCIA E SPEDITO IN TURCHIA
Gianni Sartori
Firaz Korkmaz, 24 anni, si trovava in Francia, per quanto in una situazione definita “irregolare”, ormai da quattro anni. In quanto soggetto a OQTF (obbligo di lasciare il suolo francese) doveva venire scortato dall’Unesi (Unitè nationale d’éloignement) all'aeroporto di Roissy per inviarlo in Turchia.
Al momento di essere imbarcato per Istanbul si è svolta una manifestazione di parenti e solidali, tra cui esponenti del Consiglio democratico curdo in Francia e alcuni deputati comunisti (Raphaëlle Primet, Pierre Barros e Marianne Margaté) per impedirne l’estradizione. Ci sono stati scontri con la polizia locale (che conta tre feriti), ma alla fine il giovane è stato trasferito manu militari (legato, ammanettato e imbavagliato) sull’aereo della Turkish Airlines.
Il timore dei manifestanti era che una volta in Turchia venisse arrestato (come in effetti è poi accaduto appena sbarcato) e sottoposto a maltrattamenti e tortura.
Korkmaz era stato arrestato il 26 febbraio a Strasburgo con Mehmet Kopal (ugualmente a rischio espulsione) durante una manifestazione di protesta per l’isolamento totale imposto a Ocalan.
A soli tredici anni veniva arrestato una prima volta per alcune scritte filo-curde. Nuovamente a 18 anni per aver cantato e danzato in curdo sulla pubblica via con altri giovani. In seguito si era integrato nel Partito democratico dei popoli (HDP).
Il 20 marzo, mentre Firaz Korkmaz era ancora rinchiuso (con Mehmet Kopal) nel CRA (Centre de rétention administratif) di Metz-Queuleu, il movimento curdo e alcune associazioni antifasciste avevano organizzato una manifestazione davanti alla prefettura di di Metz.
In un comunicato pubblicato nel sito Serhildan si sosteneva che i due giovani demandeurs d’asile curdi avevano dovuto lasciare il loro Paese “a causa della repressione delle autorità turche contro l’opposizione curda” e che la loro domanda d’asilo nasceva dalla “ricerca di sicurezza e di libertà”.
Ma ora, proseguiva il comunicato “la Francia vuole rispedirli in un paese dove rischiano di essere perseguitati a causa del loro impegno politico, tanto più ora che il loro attivismo in Francia è stato pubblicizzato dai media dopo il loro arresto”.
Inoltre Mehmet Kopal soffrirebbe di una malattia cronica e il suo stato di salute si sarebbe aggravato durante la detenzione nel CRA. Estradato in Turchia, una volta arrestato “non usufruendo di cure adeguate, il suo stato di salute si aggraverebbe mettendo a rischio la sua stessa vita”.
E richiamava Parigi al rispetto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che vieta espressamente il rinvio di una persona in un paese dove rischia di essere sottoposta a trattamenti disumani.
Da qualche tempo i rifugiati curdi in Francia vengono sottoposti a un inasprimento amministrativo (definito nel comunicato “senza precedenti”) tanto da venir privati del permesso di soggiorno qualora siano politicamente attivi. Questo sarebbe anche il caso di un altro militante, Serhat Gültekin, ugualmente in lista per essere estradato in Turchia.
Chiedendo infine alla Francia di “porre fine a questa insopportabile repressione amministrativa e di rispettare le convenzioni sui diritti umani e i diritti dei rifugiati”.
Da parte sua anche il Consiglio Democratico Curdo in Francia (CDK-F) ha protestato per la criminalizzazione dei rifugiati curdi rivolgendosi al ministro dell’interno, Gérard Darmanin in questi termini:
“Au mépris du principe de non-refoulement, la France a livré à la torture et à la prison un jeune dont le seul crime est d’avoir milité pour les droits des Kurdes, ici ou là-bas”.
Gianni Sartori
MILITANTE CURDO ESPULSO DALLA FRANCIA E SPEDITO IN TURCHIA
Gianni Sartori
Firaz Korkmaz, 24 anni, si trovava in Francia, per quanto in una situazione definita “irregolare”, ormai da quattro anni. In quanto soggetto a OQTF (obbligo di lasciare il suolo francese) doveva venire scortato dall’Unesi (Unitè nationale d’éloignement) all'aeroporto di Roissy per inviarlo in Turchia.
Al momento di essere imbarcato per Istanbul si è svolta una manifestazione di parenti e solidali, tra cui esponenti del Consiglio democratico curdo in Francia e alcuni deputati comunisti (Raphaëlle Primet, Pierre Barros e Marianne Margaté) per impedirne l’estradizione. Ci sono stati scontri con la polizia locale (che conta tre feriti), ma alla fine il giovane è stato trasferito manu militari (legato, ammanettato e imbavagliato) sull’aereo della Turkish Airlines.
Il timore dei manifestanti era che una volta in Turchia venisse arrestato (come in effetti è poi accaduto appena sbarcato) e sottoposto a maltrattamenti e tortura.
Korkmaz era stato arrestato il 26 febbraio a Strasburgo con Mehmet Kopal (ugualmente a rischio espulsione) durante una manifestazione di protesta per l’isolamento totale imposto a Ocalan.
A soli tredici anni veniva arrestato una prima volta per alcune scritte filo-curde. Nuovamente a 18 anni per aver cantato e danzato in curdo sulla pubblica via con altri giovani. In seguito si era integrato nel Partito democratico dei popoli (HDP).
Il 20 marzo, mentre Firaz Korkmaz era ancora rinchiuso (con Mehmet Kopal) nel CRA (Centre de rétention administratif) di Metz-Queuleu, il movimento curdo e alcune associazioni antifasciste avevano organizzato una manifestazione davanti alla prefettura di di Metz.
In un comunicato pubblicato nel sito Serhildan si sosteneva che i due giovani demandeurs d’asile curdi avevano dovuto lasciare il loro Paese “a causa della repressione delle autorità turche contro l’opposizione curda” e che la loro domanda d’asilo nasceva dalla “ricerca di sicurezza e di libertà”.
Ma ora, proseguiva il comunicato “la Francia vuole rispedirli in un paese dove rischiano di essere perseguitati a causa del loro impegno politico, tanto più ora che il loro attivismo in Francia è stato pubblicizzato dai media dopo il loro arresto”.
Inoltre Mehmet Kopal soffrirebbe di una malattia cronica e il suo stato di salute si sarebbe aggravato durante la detenzione nel CRA. Estradato in Turchia, una volta arrestato “non usufruendo di cure adeguate, il suo stato di salute si aggraverebbe mettendo a rischio la sua stessa vita”.
E richiamava Parigi al rispetto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che vieta espressamente il rinvio di una persona in un paese dove rischia di essere sottoposta a trattamenti disumani.
Da qualche tempo i rifugiati curdi in Francia vengono sottoposti a un inasprimento amministrativo (definito nel comunicato “senza precedenti”) tanto da venir privati del permesso di soggiorno qualora siano politicamente attivi. Questo sarebbe anche il caso di un altro militante, Serhat Gültekin, ugualmente in lista per essere estradato in Turchia.
Chiedendo infine alla Francia di “porre fine a questa insopportabile repressione amministrativa e di rispettare le convenzioni sui diritti umani e i diritti dei rifugiati”.
Da parte sua anche il Consiglio Democratico Curdo in Francia (CDK-F) ha protestato per la criminalizzazione dei rifugiati curdi rivolgendosi al ministro dell’interno, Gérard Darmanin in questi termini:
“Au mépris du principe de non-refoulement, la France a livré à la torture et à la prison un jeune dont le seul crime est d’avoir milité pour les droits des Kurdes, ici ou là-bas”.
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 30/3/2024 - 00:27
ANCORA SUL CAMPO DI AL-HOL DOVE, SE PUR TRA MILLE DIFFICOLTA’, L’AMMINISTRAZIONE AUTONOMA DEL NORD E DELL’EST DELLA SIRIA PORTA AVANTI PROGRAMMI DI RIABILITAZIONE E REINSERIMENTO PER LA FAMIGLIE DEI MILIZIANI DELL’ISIS
Gianni Sartori
Se pur tra mille difficoltà, facilmente immaginabili vista la situazione, l’Amministrazione Autonoma Democratica del Nord e dell’Est della Siria non demorde nel tentativo di realizzare una società inclusiva, tollerante direi anche libertaria (nel senso originario, non in quello individualista-neoliberista che va per la maggiore). Tra i problemi che necessitano perlomeno di contenimento, se non proprio di rapida soluzione, quello dei campi di Hol e di Roy dove sono state raccolte le famiglie dei miliziani e mercenari dell’ISIS.
In particolare, in collaborazione con alcune Ong sia locali che internazionali, si sta impegnando per la riabilitazione di queste persone soprattutto per impedire che l’ideologia dell’islamismo radicale trovi terreno fertile tra i bambini e gli adolescenti.
Infatti le donne rimaste affiliate all’ISIS tentano di inculcare l’ideologia islamista nei bambini sia con lezioni di sharia che dando false notizie in merito agli interventi di riabilitazione.
Come ha spiegato in un’intervista Xorşîd Qiro, copresidente del campo di Hol “le associazioni legate all’Amministrazione Autonoma stanno portando avanti programmi di riabilitazione per i residenti del campo e nel contempo cerchiamo di coinvolgere altre associazioni sia locali che internazionali. Tutto ciò è di primaria importanza per quanto richieda uno sforzo immenso”.
Tra le organizzazioni che collaborano a tale progetto va segnalato il Consiglio Siriano delle Donne che interviene a sostegno delle donne e dei bambini con seminari, formazione professionale assistenza psicologica. Attualmente la gestione del “programma di sensibilizzazione e e riabilitazione per donne e bambini” del campo di Hol è affidata a Cihan Hemze (presidente del Consiglio Siriano delle Donne). Recentemente ha denunciato come “stiamo ricevendo costantemente minacce di morte e ultimamente è stata incendiata la tenda in cui lavoriamo”. Ugualmente sarebbero oggetto di minacce le donne e i bambini che partecipano ai corsi professionali e ai programmi educativi (da parte di altre donne rimaste fedeli a Daesh). Uno sforzo quello dell’amministrazione Autonoma che dovrebbe godere di supporto internazionale, soprattutto dai Paesi della coalizione anti-Isis (spesso latitanti). Se non altro per disinnescare - o almeno ridurre al minimo - la rinascita delle bande integraliste.
Gianni Sartori
Gianni Sartori
Se pur tra mille difficoltà, facilmente immaginabili vista la situazione, l’Amministrazione Autonoma Democratica del Nord e dell’Est della Siria non demorde nel tentativo di realizzare una società inclusiva, tollerante direi anche libertaria (nel senso originario, non in quello individualista-neoliberista che va per la maggiore). Tra i problemi che necessitano perlomeno di contenimento, se non proprio di rapida soluzione, quello dei campi di Hol e di Roy dove sono state raccolte le famiglie dei miliziani e mercenari dell’ISIS.
In particolare, in collaborazione con alcune Ong sia locali che internazionali, si sta impegnando per la riabilitazione di queste persone soprattutto per impedire che l’ideologia dell’islamismo radicale trovi terreno fertile tra i bambini e gli adolescenti.
Infatti le donne rimaste affiliate all’ISIS tentano di inculcare l’ideologia islamista nei bambini sia con lezioni di sharia che dando false notizie in merito agli interventi di riabilitazione.
Come ha spiegato in un’intervista Xorşîd Qiro, copresidente del campo di Hol “le associazioni legate all’Amministrazione Autonoma stanno portando avanti programmi di riabilitazione per i residenti del campo e nel contempo cerchiamo di coinvolgere altre associazioni sia locali che internazionali. Tutto ciò è di primaria importanza per quanto richieda uno sforzo immenso”.
Tra le organizzazioni che collaborano a tale progetto va segnalato il Consiglio Siriano delle Donne che interviene a sostegno delle donne e dei bambini con seminari, formazione professionale assistenza psicologica. Attualmente la gestione del “programma di sensibilizzazione e e riabilitazione per donne e bambini” del campo di Hol è affidata a Cihan Hemze (presidente del Consiglio Siriano delle Donne). Recentemente ha denunciato come “stiamo ricevendo costantemente minacce di morte e ultimamente è stata incendiata la tenda in cui lavoriamo”. Ugualmente sarebbero oggetto di minacce le donne e i bambini che partecipano ai corsi professionali e ai programmi educativi (da parte di altre donne rimaste fedeli a Daesh). Uno sforzo quello dell’amministrazione Autonoma che dovrebbe godere di supporto internazionale, soprattutto dai Paesi della coalizione anti-Isis (spesso latitanti). Se non altro per disinnescare - o almeno ridurre al minimo - la rinascita delle bande integraliste.
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 30/4/2024 - 14:22
15 AGOSTO 1984: NASCE LA LOTTA ARMATA DEL PKK (una svolta storica per l'autodeterminazione del popolo curdo e forse dell'intero Medio-oriente)
Gianni Sartori
Esattamente 40 anni fa (15 agosto 2024) iniziava per il PKK la lotta armata.
Trentasei guerriglieri guidata dal comandante Egîd (Mahsum Korkmaz) attaccarono un commissariato della polizia militare a Eruh (Bakur, Kurdistan del Nord, entro i confini della Turchia). Nello scontro a fuoco persero la vita una guardia e un ufficiale turchi. Nessuna perdita tra i guerriglieri.
Subito dopo, da una moschea di Eruh, venne proclamata la dichiarazione delle Hêzên Rizgarîya Kurdistanê (HRK, Forze di Liberazione del Kurdistan; un esplicito riferimento alle originarie Unità per la Liberazione del Vietnam): “Le HRK hanno come obiettivo quello di lottare per l'indipendenza nazionale del nostro popolo, per una società democratica, la libertà e l'unità, dirette dal PKK armato contro l'imperialismo e il fascismo coloniale turco”.
Alla prima azione ne seguì immediatamente un'altra sotto il comando di Abdullah Ekinci (Ali) a Şemdinli. Dove venne attaccata, con lanciagranate, una caserma.
Con duri scontri tra guerriglieri e soldati turchi.
Inoltre, se pur per breve tempo, entrambe le città rimasero sotto il controllo della guerriglia.
Si trattava dei primi segnali di opposizione al regime dopo il golpe del 12 settembre 1980. Da allora il 15 agosto per molti curdi è considerato “giorno festivo”.
Nei suoi diari, resi noti solo successivamante, il comandante Egîd confessava di aver sofferto molto per i dolori alle gambe (probabilmente per una malattia congenita) che gli impedivano quasi di camminare durante la lunga marcia di avvicinamento. Problema che non rivelò ai suoi compagni preferendo stoicamente soffrire in silenzio. Inevitabile l'analogia con la situazione patita da Ernesto CHE Guevara sia a Cuba che in Bolivia a causa dell'asma.
Nel caso l'attacco non avesse avuto buon esito, il “piano B” prevedeva che i guerriglieri si ritrovassero ai piedi della montagna di Çirav.
Arrivati a Eruh verso le ore 21 del 15 agosto (dopo aver studiato a lungo da lontano l'obiettivo con i binocoli), i guerriglieri si divisero in tre unità. I primi spari colpirono il posto di guardia, poi con i lanciagranate venne abbattuto il piano superiore della gendarmeria. Mentre parte dell'edificio cadeva in mano ai combattenti curdi, (seminando il panico tra i soldati turchi) un'altra colonna invadeva la mensa ufficiali.
Mentre per diverse ore la città restava sostanzialmente sotto il controllo curdo, vennero distrutti l'ufficio postale, una banca, i veicoli dei militari...Inoltre molto materiale amministrativo (documenti) venne confiscato . Un camion intero non bastava a contenerlo per cui una parte venne trasportata con i muli.
Per il giorno 18 agosto l'unità guerrigliera era ritornata sana e salva alla base tra le montagne.
Una svolta storica, si diceva. Paragonabile a quella intrapresa da ANC e PAC dopo Sharpeville (1960) in Sudafrica. Non tanto per aver imbracciato le armi dopo decenni di resistenza passiva (il che non impediva al regime turco di condannare all'impiccagione i dissidenti) , ma soprattutto per aver “cominciato a riorganizzarsi, a riappropriarsi della propria identità, a rivendicare il diritto all'autodeterminazione” (come ha ricordato Besê Hozat, co-presidente del Consiglio esecutivo del KCK).
Diventando - il 15 agosto - un simbolo imprescindibile non solo per I curdi, ma per gran parte dei popoli del mondo (maggioritari o minorizzati, più o meno oppressi, sfruttati e marginalizzati). Ma che è costata immensi sacrifici: almeno 50mila i curdi caduti in questa lotta di liberazione. Una lotta che ha saputo evolversi, aggiornarsi, confrontarsi con questioni che forse 40 anni fa non erano così presenti alla consapevolezza del movimento (ecologia, femminismo...). Un punto di riferimento per chiunque, in qualsiasi parte del monda, sta lottando per la libertà.
Gianni Sartori
Gianni Sartori
Esattamente 40 anni fa (15 agosto 2024) iniziava per il PKK la lotta armata.
Trentasei guerriglieri guidata dal comandante Egîd (Mahsum Korkmaz) attaccarono un commissariato della polizia militare a Eruh (Bakur, Kurdistan del Nord, entro i confini della Turchia). Nello scontro a fuoco persero la vita una guardia e un ufficiale turchi. Nessuna perdita tra i guerriglieri.
Subito dopo, da una moschea di Eruh, venne proclamata la dichiarazione delle Hêzên Rizgarîya Kurdistanê (HRK, Forze di Liberazione del Kurdistan; un esplicito riferimento alle originarie Unità per la Liberazione del Vietnam): “Le HRK hanno come obiettivo quello di lottare per l'indipendenza nazionale del nostro popolo, per una società democratica, la libertà e l'unità, dirette dal PKK armato contro l'imperialismo e il fascismo coloniale turco”.
Alla prima azione ne seguì immediatamente un'altra sotto il comando di Abdullah Ekinci (Ali) a Şemdinli. Dove venne attaccata, con lanciagranate, una caserma.
Con duri scontri tra guerriglieri e soldati turchi.
Inoltre, se pur per breve tempo, entrambe le città rimasero sotto il controllo della guerriglia.
Si trattava dei primi segnali di opposizione al regime dopo il golpe del 12 settembre 1980. Da allora il 15 agosto per molti curdi è considerato “giorno festivo”.
Nei suoi diari, resi noti solo successivamante, il comandante Egîd confessava di aver sofferto molto per i dolori alle gambe (probabilmente per una malattia congenita) che gli impedivano quasi di camminare durante la lunga marcia di avvicinamento. Problema che non rivelò ai suoi compagni preferendo stoicamente soffrire in silenzio. Inevitabile l'analogia con la situazione patita da Ernesto CHE Guevara sia a Cuba che in Bolivia a causa dell'asma.
Nel caso l'attacco non avesse avuto buon esito, il “piano B” prevedeva che i guerriglieri si ritrovassero ai piedi della montagna di Çirav.
Arrivati a Eruh verso le ore 21 del 15 agosto (dopo aver studiato a lungo da lontano l'obiettivo con i binocoli), i guerriglieri si divisero in tre unità. I primi spari colpirono il posto di guardia, poi con i lanciagranate venne abbattuto il piano superiore della gendarmeria. Mentre parte dell'edificio cadeva in mano ai combattenti curdi, (seminando il panico tra i soldati turchi) un'altra colonna invadeva la mensa ufficiali.
Mentre per diverse ore la città restava sostanzialmente sotto il controllo curdo, vennero distrutti l'ufficio postale, una banca, i veicoli dei militari...Inoltre molto materiale amministrativo (documenti) venne confiscato . Un camion intero non bastava a contenerlo per cui una parte venne trasportata con i muli.
Per il giorno 18 agosto l'unità guerrigliera era ritornata sana e salva alla base tra le montagne.
Una svolta storica, si diceva. Paragonabile a quella intrapresa da ANC e PAC dopo Sharpeville (1960) in Sudafrica. Non tanto per aver imbracciato le armi dopo decenni di resistenza passiva (il che non impediva al regime turco di condannare all'impiccagione i dissidenti) , ma soprattutto per aver “cominciato a riorganizzarsi, a riappropriarsi della propria identità, a rivendicare il diritto all'autodeterminazione” (come ha ricordato Besê Hozat, co-presidente del Consiglio esecutivo del KCK).
Diventando - il 15 agosto - un simbolo imprescindibile non solo per I curdi, ma per gran parte dei popoli del mondo (maggioritari o minorizzati, più o meno oppressi, sfruttati e marginalizzati). Ma che è costata immensi sacrifici: almeno 50mila i curdi caduti in questa lotta di liberazione. Una lotta che ha saputo evolversi, aggiornarsi, confrontarsi con questioni che forse 40 anni fa non erano così presenti alla consapevolezza del movimento (ecologia, femminismo...). Un punto di riferimento per chiunque, in qualsiasi parte del monda, sta lottando per la libertà.
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 15/8/2024 - 14:24
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Ocalan
This song tells the story of Kurdish revolutionary and political theorist Abdullah Öcalan