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L’amore è una dittatura

Zen Circus
Language: Italian


Zen Circus

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Il giallo addosso
(Brunori Sas)
Gente di merda
(Zen Circus)
Cattivo pagatore
(Zen Circus)


2019
Vivi si muore
vivi
Il brano è stato presentato in gara al 69º Festival di Sanremo, dove si è piazzato al 17º posto in classifica. Nella serata dei duetti fu interpretata con Brunori Sas.

Una canzone forse un po' confusa...
Innanzitutto la inserisco per un motivo strettamente personale: essendo una canzone d'amore la inserisco per dedicarla ad una persona speciale...
E poi per i tanti accenni che fa: ai migranti e alla politica dell'invasione e dei porti chiusi (pregandole di non mescolare Il nostro sangue a quello dei topi arrivati in massa con le maree Le porte aperte, i porti chiusi,), all'amore omosessuale (sorrisi agli sconosciuti Che ci guardano attoniti mentre ci baciamo, Da uomo a uomo, mano nella mano), alla violenza di genere (Cerchiamo la donna della vita o l’uomo della morte)
Ci hanno visti nuotare in acque alte fino alle ginocchia
Ed inchinarci alle zanzare pregandole di non mescolare
Il nostro sangue a quello dei topi arrivati in massa con le maree
Le porte aperte, i porti chiusi, e sorrisi agli sconosciuti
Che ci guardano attoniti mentre ci baciamo,
Da uomo a uomo, mano nella mano
Una sigaretta non lo racconta ci vuole forse una vita intera
O una canzone non certo questa,
Altri maestri, altri genitori
Che non rinfacciano quello che sei, quello che vuoi

Quello che eri
Esistere è giusto un momento
Chi vive nel tempo muore contento
E sì, ci hanno visti contare le pietre di questo deserto
Pazienza, perdere tempo con il cielo, farlo di lavoro
Pagati per immaginare qualcosa che non puoi fotografare
Mi spiego meglio, senza nascondermi dietro a cazzate
Scritte per caso in questa palestra dell’orrore
Ecco la pietra, ecco il peccato,
Un cane pastore lo fa per amore,
Non per denaro, non per rancore,
Non per la lana esiste il gregge
Né per la legge
Siamo delle antenne, dei televisori
Emettiamo storie che fanno rumore
Cerchiamo la donna della vita o l’uomo della morte
Strade interrotte, eterni sorrisi, figli sangue del nostro lavoro

Non ci somiglieranno, figli ormai del mondo intero
E perdere la monotonia di quando tutto era al suo posto
I topi cacciati, debellati, mostri tutti sotto al letto
E lasciar volare via quell’abbraccio conosciuto
Di chi in nome del tuo bene ha distrutto il tuo passato
Quando arrivi tu se ne vanno gli altri
Sai che non va bene ma ti piace arrangiarti
Come fanno in quei paesi che non sappiamo pronunciare
Ma che ci piace addomesticare a parole
Ero presente al momento dei fatti
Il fatto non sussiste
Mettetelo agli atti
Ma non hai paura di nessuno
Se non della tua statura
Hai la democrazia dentro al cuore
Ma l’amore è una dittatura
Fatta di imperativi categorici
Ma nessuna esecuzione
Mentre invece l’anarchia la trovi dentro ogni emozione

Tu stammi vicino, anzi lontano abbastanza
Per guardarti il viso dalla stanza dei miei occhi
Aperti o chiusi, non importa
Sono occhi quindi comunque una porta aperta
Il tempo passa lo senti da questo orologio
Mentre lavori dentro un bar, ad una pressa o in un ufficio e…
E speri ancora che qualcuno sia lì fuori ad aspettarti,
Non per chiederti dei soldi, neanche per derubarti,
Non per venderti la droga e soffiarti il posto di lavoro
Ma per urlarti in faccia, che sei l’unica, sei il solo
Sei l’unica, sei il solo

Contributed by Dq82 - 2020/5/19 - 23:10


Una possibile interpretazione del significato del testo di cissiecolpitts9 da un commento al video youtube:

L’amore è una dittatura

Provo a dare una spiegazione al testo... mi sono stufata chi scrive che sono frasi a caso.


Premetto che:

- solo chi l’ha scritta sa davvero cosa intendesse, e se avesse voluto spiegarsi in modo diverso avrebbe usato parole diverse. Per cui lo faccio con umiltà e intento costruttivo

- ad ogni ascolto capisco qualcosa in più, o di diverso, di nuovo o superfluo, cmq se qualcuno mi aiuta e crea dibattito è benvenuto

- credo che per quanto rabbioso e incazzato (spoiler) porti un messaggio molto positive


La prima parte mi sembra evocare i recenti fatti di attualità legati agli sbarchi dei migranti. Il fatto che usi la prima persona plurale può voler dire che queste cose sono accadute anche a noi (che siamo stati a nostra volta migranti, paragonati a topi), ma sono più propensa a credere che ci sia una seconda lettura: le nostre sono acque alte, sì, ma fino alle ginocchia – dunque, a ben guardare, non troppo profonde… così come le nostre difficoltà sono minori rispetto a quelle di chi arriva qui ogni giorno per mare. Sono tanto più propensa a sposare questa interpretazione perché ci siamo inchinati a zanzare (dei parassiti fastidiosi) pregandole di non mischiare il nostro sangue: ci siamo cioè affidati a politici opportunisti e di piccola statura morale perché ci salvassero dall’invasione.

C’è la descrizione di un momento di accoglienza: sorrisi a sconosciuti e gesti di affetto sotto sguardi attoniti. Ma quelli di chi arriva sono vissuti e storie che non riusciremo mai a conoscere e capire, forse neppure immaginare, anche a causa della mancanza di empatia suscitata dalle parole di quei maestri e genitori (e politici), che giudicano e umiliano noi, figuriamoci loro.

Poi credo si riferisca alla condizione di chi testimonia e racconta, siano artisti, che lavorano con concetti alti e astratti (il cielo) o cronisti, giornalisti e intellettuali che si confrontano con i fatti più crudi e desolanti (le pietre di questo deserto). Costoro forse sono in grado di trovare parole che vadano oltre le immagini e le meschinità che tutti abbiamo presente – quindi di restituire a tutto questo scempio un significato più grande, universale e immortale. Qualcosa che ci faccia cogliere e apprezzare il senso del quadro complessivo, e ci riconcili con l’esistenza.

A seguire infatti viene espressa l’esigenza di spiegare meglio la propria idea su quanto accade, su questa normalizzazione delle tragedie (una palestra dell’orrore), e veniamo all’atto di accusa dei colpevoli – che, se non ci si era ancora arrivati, è diretto a chi è al potere, al comando, a chi conduce il gregge; e di nuovo si sottolinea che si tratta di individui opportunisti e rabbiosi (mentre il cane non agisce per denaro o rancore), e ci viene ricordato come il popolo non deleghi il proprio governo perché sia munto, spennato, sfruttato. Né, soprattutto, per obbedire.

Chi è il popolo? Sono le storie che ci raccontano in televisione, quelle di gente che cerca la propria metà nei talk show, ammazzata dalla propria metà nei telegiornali, morta sopra o sotto ponti crollati, sempre con dei finali consolatori. E anche i giovani, di nuovo vittime di giudizi e recriminazioni (sangue del nostro lavoro); ma – e qui c’è il primo, importante, messaggio positivo – per fortuna diversi, perché figli del mondo intero.

Tutto questo mentre i vecchi in paranoia fanno i nostalgici di quando c’era Mussolini e le cose funzionavano, le minoranze e i dissensi erano cancellati, e gli ebrei e i gay e chiunque non piacesse deportati e perseguitati… e non riescono a rinnegare e dimenticare il controllo paternalista di un defunto che ha ridotto la nostra storia e il nostro presente in un ammasso di macerie morali.

Segue una critica al controllo paternalista di altri governi insieme al nostro, quella bugia che ci porta ad invadere, a turno e in modo frettoloso, paesi di cui non conosciamo né storia né presente per insegnargli qualcosa di buono – a parole, perché in realtà ci interessa dominarli e sfruttarli. L’abbiamo visto mille volte, diciamolo una volta per tutte.

Chi è al potere dice con arroganza di non avere paura di nessuno; di certo teme la perdita del suo seguito e del suo incarico, e chi è più grande di lui. Si tratta comunque di un uomo, e questo è un altro messaggio centrale della canzone: la democrazia è anche nel cuore del più sordido e stupido dei dittatori.

Qui il testo si fa talmente denso di sfumature (dittatura del cuore: al cuor non si comanda, obbedire al proprio cuore), significati (cose terribili sono fatte in nome dell’amore: per la patria, la propria compagna, i propri figli, il proprio popolo… ma l’amore vero non uccide, non contempla la violenza), prese in giro (portare a Sanremo una canzone che parla di amore: fatto. Ma non come se lo aspettavano) e poesia che mi lascio libera si rifletterci ancora e ancora, o per niente. E cantarla e basta.

Finale in crescendo: dovremmo sentirci vicini gli uni agli altri, anche senza marciare spalla a spalla, basta scorgere, riconoscere, contemplare reciprocamente il valore – e il potenziale – immenso delle nostre singole esistenze. In cuor nostro lo sappiamo già, da sempre, perché mentre sprechiamo tempo a lavorare come schiavi, e odiarci, temerci, dividerci, speriamo con forza che lo sconosciuto che troveremo un giorno là fuori, e che oggi è ancora un estraneo, ci dia tutto l’amore di cui abbiamo bisogno e ci faccia sentire unici, e vivi.

2021/9/23 - 10:55




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