Giornata prima, introduzione alle novelle: …Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn’altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza…
E ne nascevano nei maschi e nelle femine enfiature in anguinaia, per braccia e cosce
e le vedevi permutare in macchie livide e nere, segno certo di morte
la pestilenza dagli infermi per lo stare tutti insieme s’avventava a’ sani,
Come fa il fuoco con le cose secche o unte quando gli vanno vicine si appiccava il male
Io vidi un giorno nella via scuoter gli stracci d’un morto con denti e grifo due porci,
Ed in piccola ora come fosse veleno sopra i mal tirati stracci insieme caddero morti
Ed alcuni racchiudendosi in case temperatamente usando ottimi cibi e vini ogni lussuria fuggivano
Altri beffando di taverna in taverna, giorno e notte bevendo in case d’altri morivano
Ed altri ancora abbandonarono i parenti per cercare nel contado di scampare il cielo
E abbandonati a loro volta, vittime del loro stesso esempio, morivano soli
Ed i fratelli abbandonavano i fratelli e padri madri i figli alla sicura morte
E a quelli che infermavano, rimase l’avarizia de’ serventi, o la carità di amici che non furon molti
ma sottentravano alla bara prezzolati beccamorti, che chiamavano becchini, gente minuta
con frettolosi passi, e poco lume li mettevano in qualunque sepoltura disoccupata
Né fu una bara sola quella che due o tre ne portò insieme padre e figlio, marito e moglie,
nella stessa febbre
E senza lagrima o lume o compagnia non altramenti si curavano degli uomini che ora di capre si curerebbe;
E si facevano fosse per i cimiteri delle chiese, dove a centinaia si mettevano i corpi
come si mettono le merci nelle navi una sull’altra infino al sommo della fossa si stivavano i morti
Il male devastò il contado e per le sparte ville e per li campi i contadini come bestie morire.
E i buoi, le capre, i cani dopo aver vagato il giorno senza pastore, a notte alle lor stalle venire
e tanta fu la crudeltà del cielo, che fra marzo e luglio più di centomilia dentro Firenze furono tolti di vita,
O quanti gran palagi un tempo di famiglie pieni, rimaser voti!
quante famose ricchezze senza eredi!
E ne nascevano nei maschi e nelle femine enfiature in anguinaia, per braccia e cosce
e le vedevi permutare in macchie livide e nere, segno certo di morte
la pestilenza dagli infermi per lo stare tutti insieme s’avventava a’ sani,
Come fa il fuoco con le cose secche o unte quando gli vanno vicine si appiccava il male
Io vidi un giorno nella via scuoter gli stracci d’un morto con denti e grifo due porci,
Ed in piccola ora come fosse veleno sopra i mal tirati stracci insieme caddero morti
Ed alcuni racchiudendosi in case temperatamente usando ottimi cibi e vini ogni lussuria fuggivano
Altri beffando di taverna in taverna, giorno e notte bevendo in case d’altri morivano
Ed altri ancora abbandonarono i parenti per cercare nel contado di scampare il cielo
E abbandonati a loro volta, vittime del loro stesso esempio, morivano soli
Ed i fratelli abbandonavano i fratelli e padri madri i figli alla sicura morte
E a quelli che infermavano, rimase l’avarizia de’ serventi, o la carità di amici che non furon molti
ma sottentravano alla bara prezzolati beccamorti, che chiamavano becchini, gente minuta
con frettolosi passi, e poco lume li mettevano in qualunque sepoltura disoccupata
Né fu una bara sola quella che due o tre ne portò insieme padre e figlio, marito e moglie,
nella stessa febbre
E senza lagrima o lume o compagnia non altramenti si curavano degli uomini che ora di capre si curerebbe;
E si facevano fosse per i cimiteri delle chiese, dove a centinaia si mettevano i corpi
come si mettono le merci nelle navi una sull’altra infino al sommo della fossa si stivavano i morti
Il male devastò il contado e per le sparte ville e per li campi i contadini come bestie morire.
E i buoi, le capre, i cani dopo aver vagato il giorno senza pastore, a notte alle lor stalle venire
e tanta fu la crudeltà del cielo, che fra marzo e luglio più di centomilia dentro Firenze furono tolti di vita,
O quanti gran palagi un tempo di famiglie pieni, rimaser voti!
quante famose ricchezze senza eredi!
Contributed by Bernart Bartleby - 2020/3/14 - 15:55
Io l'ho sempre detto: quel mio antenato Anonimo del XIV Secolo che si guadagnava il pane facendo il "negro" per vari artisti (tra i quali messer Giovanni Boccaccio), ci aveva del talento, ci aveva!
L'Anonimo Toscano del XXI secolo - 2020/3/14 - 18:50
Visto che entriamo nel periodo dei canti carnascialeschi, vorrei riportare il testo dell'unica a quanto pare canzona citata nel "Decamerone" boccacciano pervenutaci ai giorni nostri. Non sono riuscito a trovare nessuna ricostruzione musicale dell'essa, ma almeno il testo, in circa, si è salvato.
Fonte
Eccole invece altre due versioni:
Poesia erotica
In omaggio un vecchio video che mira a richiamare le atmosfere musicali del periodo in cui "Decamerone" nascesse.
Fonte
Eccole invece altre due versioni:
Poesia erotica
In omaggio un vecchio video che mira a richiamare le atmosfere musicali del periodo in cui "Decamerone" nascesse.
CANZONA DEL NICCHIO
Questo mio Nicchio s' io nol picchio,
L’animo mio non mi lascia stare.
Questo mio Nicchio vorrebb’uno,
Molto si guarda dal digiuno,
Per lo star diventa bruno:
Io lo ‘ntendo adoperare.
Questo Nicchio gli è si fatto
Che non è si folle e matto,
Che chi v’entra e vuol far fatto
Il pegno vi dee lassare.
Questo mio Nicchio gli è ritroso,
Intorno intorno egli è peloso,
Par il diavol quand’è cruccioso.
Madre mia, non indugiare
Delle minori ci ha di noi
Ch’hanno marito e hanno figliuoi;
E io lassa guardo i buoi;
Che si possino scorticare.
Questo mio Nicchio s' io nol picchio,
L’animo mio non mi lascia stare.
Questo mio Nicchio vorrebb’uno,
Molto si guarda dal digiuno,
Per lo star diventa bruno:
Io lo ‘ntendo adoperare.
Questo Nicchio gli è si fatto
Che non è si folle e matto,
Che chi v’entra e vuol far fatto
Il pegno vi dee lassare.
Questo mio Nicchio gli è ritroso,
Intorno intorno egli è peloso,
Par il diavol quand’è cruccioso.
Madre mia, non indugiare
Delle minori ci ha di noi
Ch’hanno marito e hanno figliuoi;
E io lassa guardo i buoi;
Che si possino scorticare.
Language: French
Version française – LA PESTE – Marco Valdo M.I. – 2021
Chanson italienne – La peste – David Riondino – 2013
Texte de David Riondino, inspiré de l’introduction au premier jour du “Décaméron” de Giovanni Boccaccio, 1348-53.
Musique de David Riondino, tirée de « Cantando Boccaccio », une série d’émissions produites par RAI Radio3 dans laquelle Riondino a été invité à composer une chanson pour chacune des journées de l’opéra.
Plus récemment dans le spectacle « Canzoni dal Decameron di Boccaccio », dans lequel Riondino est accompagné par un septuor de voix féminines.
Chanson italienne – La peste – David Riondino – 2013
Texte de David Riondino, inspiré de l’introduction au premier jour du “Décaméron” de Giovanni Boccaccio, 1348-53.
Musique de David Riondino, tirée de « Cantando Boccaccio », une série d’émissions produites par RAI Radio3 dans laquelle Riondino a été invité à composer une chanson pour chacune des journées de l’opéra.
Plus récemment dans le spectacle « Canzoni dal Decameron di Boccaccio », dans lequel Riondino est accompagné par un septuor de voix féminines.
Dialogue maïeutique
En 1348, il y a presque un millénaire, la peste ravagea Florence et l’Europe et bien au-delà. Ce n’était pas la première fois et ce ne fut pas la dernière fois qu’elle se manifesta. Son histoire est complexe et terrible, mais ce n’est pas ici qu’on la fera. On s’en tiendra aux limites de la chanson. Donc, en ce temps-là, l’écrivain Boccace vivait à Florence et vit ce qui se passait. Il en fit un récit quasiment sur le vif ; il prit, dit-on, plusieurs années à le rédiger : de 1349 à 1353. On le connaît sous le titre de Décaméron qui en une centaine de nouvelles raconte un séjour de retraite de dix (déca) jours de quelques jeunes filles et jeunes gens qui s’étaient mis prudemment à l’écart de la ville et de l’épidémie ; séjour au cours duquel ces jeunes personnes se racontèrent les histoires reprises dans ce livre, dont il est qu’il constitue le premier chef-d’œuvre en prose de la littérature italienne.
Oh, dit Lucien, ces épidémies de peste étaient fréquentes, en effet et aussi bien, j’ai entendu parler de Boccace et de son Décaméron. Et puis, depuis le temps que je tourne autour de la Méditerranée et ailleurs dans le monde, j’en ai croisé des pestes et des pestiférés. Et maintenant que tu m’en parles, je pense me souvenir d’avoir transporté sur mon échine ce Boccace (qui s’appelait en réalité Giovanni Boccaccio) qui s’en revenait de Naples à Florence, très meurtri, très peiné de ses protecteurs. Cela dit, cette malheureuse circonstance ne l’empêchait pas de parler ni de s’inquiéter des dames de passage. Mais, je t’en prie, continue.
Eh bien, Lucien l’âne mon ami, cette chanson de Riondino, comédien et chanteur, reprend une partie du texte du Décaméron de Boccace, qui raconte précisément la peste de Florence. Une sorte de reportage de visu ; on peut en lire les détails dans le texte de la chanson auquel Riondino a gardé un caractère d’époque, car on ne dirait plus pareil aujourd’hui.
Je vois, dit Lucien l’âne. Pour les détails, voir la chanson. C’est une bonne suggestion et c’est ce que je vais m’empresser de faire, mais j’imagine que cela cache autre chose.
En effet, dit Marco Valdo M.I., la chanson est la chanson et elle se raconte bien toute seule. Ce qui ici retient mon attention, c’est qu’elle est une chanson dans un cycle de chansons consacré au Décaméron, un peu à la manière dont j’ai raconté, il y a plus de dix ans l’histoire de Joseph dans les 24 chansons de Dachau Express, Les Histoires (d’un siècle 1900-1999), d’Allemagne en 142 chansons, un demi-siècle d’Histoires lévianes en 124 chansons, l’histoire de Till Ulenspiegel en 122 chansons, les 42 chansons qui rapportent les Lettres de prison (1934-35) de Carlo Levi et les 57 chansons de l’Arlequin amoureux. Il est vrai que j’attends encore les musiciens qui sont en retard.
Ne t’inquiète pas de ça, dit Lucien l’âne. Boccace, comme cette chanson le démontre, a dû patienter des siècles. Alors, tissons le linceul de ce vieux monde pestiféré, bancal, toussotant, égrotant, souffrant, souffrotant, mourant et cacochyme.
Heureusement !
Ainsi Parlaient Marco Valdo M.I. et Lucien Lane
En 1348, il y a presque un millénaire, la peste ravagea Florence et l’Europe et bien au-delà. Ce n’était pas la première fois et ce ne fut pas la dernière fois qu’elle se manifesta. Son histoire est complexe et terrible, mais ce n’est pas ici qu’on la fera. On s’en tiendra aux limites de la chanson. Donc, en ce temps-là, l’écrivain Boccace vivait à Florence et vit ce qui se passait. Il en fit un récit quasiment sur le vif ; il prit, dit-on, plusieurs années à le rédiger : de 1349 à 1353. On le connaît sous le titre de Décaméron qui en une centaine de nouvelles raconte un séjour de retraite de dix (déca) jours de quelques jeunes filles et jeunes gens qui s’étaient mis prudemment à l’écart de la ville et de l’épidémie ; séjour au cours duquel ces jeunes personnes se racontèrent les histoires reprises dans ce livre, dont il est qu’il constitue le premier chef-d’œuvre en prose de la littérature italienne.
Oh, dit Lucien, ces épidémies de peste étaient fréquentes, en effet et aussi bien, j’ai entendu parler de Boccace et de son Décaméron. Et puis, depuis le temps que je tourne autour de la Méditerranée et ailleurs dans le monde, j’en ai croisé des pestes et des pestiférés. Et maintenant que tu m’en parles, je pense me souvenir d’avoir transporté sur mon échine ce Boccace (qui s’appelait en réalité Giovanni Boccaccio) qui s’en revenait de Naples à Florence, très meurtri, très peiné de ses protecteurs. Cela dit, cette malheureuse circonstance ne l’empêchait pas de parler ni de s’inquiéter des dames de passage. Mais, je t’en prie, continue.
Eh bien, Lucien l’âne mon ami, cette chanson de Riondino, comédien et chanteur, reprend une partie du texte du Décaméron de Boccace, qui raconte précisément la peste de Florence. Une sorte de reportage de visu ; on peut en lire les détails dans le texte de la chanson auquel Riondino a gardé un caractère d’époque, car on ne dirait plus pareil aujourd’hui.
Je vois, dit Lucien l’âne. Pour les détails, voir la chanson. C’est une bonne suggestion et c’est ce que je vais m’empresser de faire, mais j’imagine que cela cache autre chose.
En effet, dit Marco Valdo M.I., la chanson est la chanson et elle se raconte bien toute seule. Ce qui ici retient mon attention, c’est qu’elle est une chanson dans un cycle de chansons consacré au Décaméron, un peu à la manière dont j’ai raconté, il y a plus de dix ans l’histoire de Joseph dans les 24 chansons de Dachau Express, Les Histoires (d’un siècle 1900-1999), d’Allemagne en 142 chansons, un demi-siècle d’Histoires lévianes en 124 chansons, l’histoire de Till Ulenspiegel en 122 chansons, les 42 chansons qui rapportent les Lettres de prison (1934-35) de Carlo Levi et les 57 chansons de l’Arlequin amoureux. Il est vrai que j’attends encore les musiciens qui sont en retard.
Ne t’inquiète pas de ça, dit Lucien l’âne. Boccace, comme cette chanson le démontre, a dû patienter des siècles. Alors, tissons le linceul de ce vieux monde pestiféré, bancal, toussotant, égrotant, souffrant, souffrotant, mourant et cacochyme.
Heureusement !
Ainsi Parlaient Marco Valdo M.I. et Lucien Lane
LA PESTE
Premier jour, introduction aux nouvelles : « je dis donc que les années de la féconde incarnation du Fils de Dieu avaient déjà atteint le nombre de mille trois cent quarante-huit, lorsque dans l’illustre ville de Florence, ainsi que dans toute autre belle ville italienne, arriva la peste mortelle… »
Et il venait chez les hommes et chez les femmes des gonflements à l’aine, sur les bras et les cuisses
Et on les voyait se transformer en taches noires et livides, signe certain de mort.
De rester tous ensemble, la pestilence des malades s’étendait aux bien-portants ;
Comme fait le feu avec les choses sèches ou grasses, quand elles se rapprochent, elle enflammait le mal.
Je vis, un jour, dans la rue, deux porcs secouer les haillons d’un mort avec leurs dents et leurs griffes,
Et en une petite heure, comme si ce fut du poison, sur les haillons tout chiffonnés, ils tombèrent ensemble morts.
Et certains se renfermant chez eux, usant avec modération des vins et aliments les meilleurs, fuyaient tout excès ;
D’autres se moquant de taverne en taverne, buvant jour et nuit dans les maisons d’autres, mourraient ;
Et d’autres encore abandonnèrent leurs parents pour chercher dans la campagne à obvier au ciel
Et abandonnés à leur tour, victimes de leur propre exemple, ils mouraient seuls.
Et les frères abandonnaient leurs frères et pères et mères, leurs enfants, à une mort certaine,
Et à ceux qui tombaient malades, il restait l’avidité des serviteurs, ou la charité des amis, qui ne furent pas nombreux ;
Mais sous le cercueil se glissaient des croque-morts mercenaires, qu’ils appelaient fossoyeurs, petites gens aux pas précipités, et subrepticement, les mettaient dans n’importe quelle tombe inoccupée.
Ce ne fut pas qu’une seule bière, celle où deux ou trois portèrent ensemble père et fils, mari et femme, emportés par la même fièvre ;
Et sans larmes, sans lumière, sans compagnie, ils ne s’occupaient pas plus des hommes que les chèvres ne le feraient maintenant ;
Et on creusait des fosses pour les cimetières des églises, où par centaines on mettait les corps ;
Comme on met les marchandises dans les navires, une sur l’autre, jusqu’au sommet de la tombe, on entassait les morts.
Le mal ravagea la campagne, et à travers les villas isolées et les champs, les paysans moururent comme des bêtes.
Et les bœufs, les chèvres, les chiens, après avoir erré le jour sans berger, à la nuit, revinrent à leurs étables
Et tant fut la cruauté du ciel, qu’entre mars et juillet, plus de cent mille dedans Florence furent enlevés à la vie,
Ô combien de grands palais jadis remplis de familles restèrent vides !
Combien de fameuses richesses sans héritiers !
Premier jour, introduction aux nouvelles : « je dis donc que les années de la féconde incarnation du Fils de Dieu avaient déjà atteint le nombre de mille trois cent quarante-huit, lorsque dans l’illustre ville de Florence, ainsi que dans toute autre belle ville italienne, arriva la peste mortelle… »
Et il venait chez les hommes et chez les femmes des gonflements à l’aine, sur les bras et les cuisses
Et on les voyait se transformer en taches noires et livides, signe certain de mort.
De rester tous ensemble, la pestilence des malades s’étendait aux bien-portants ;
Comme fait le feu avec les choses sèches ou grasses, quand elles se rapprochent, elle enflammait le mal.
Je vis, un jour, dans la rue, deux porcs secouer les haillons d’un mort avec leurs dents et leurs griffes,
Et en une petite heure, comme si ce fut du poison, sur les haillons tout chiffonnés, ils tombèrent ensemble morts.
Et certains se renfermant chez eux, usant avec modération des vins et aliments les meilleurs, fuyaient tout excès ;
D’autres se moquant de taverne en taverne, buvant jour et nuit dans les maisons d’autres, mourraient ;
Et d’autres encore abandonnèrent leurs parents pour chercher dans la campagne à obvier au ciel
Et abandonnés à leur tour, victimes de leur propre exemple, ils mouraient seuls.
Et les frères abandonnaient leurs frères et pères et mères, leurs enfants, à une mort certaine,
Et à ceux qui tombaient malades, il restait l’avidité des serviteurs, ou la charité des amis, qui ne furent pas nombreux ;
Mais sous le cercueil se glissaient des croque-morts mercenaires, qu’ils appelaient fossoyeurs, petites gens aux pas précipités, et subrepticement, les mettaient dans n’importe quelle tombe inoccupée.
Ce ne fut pas qu’une seule bière, celle où deux ou trois portèrent ensemble père et fils, mari et femme, emportés par la même fièvre ;
Et sans larmes, sans lumière, sans compagnie, ils ne s’occupaient pas plus des hommes que les chèvres ne le feraient maintenant ;
Et on creusait des fosses pour les cimetières des églises, où par centaines on mettait les corps ;
Comme on met les marchandises dans les navires, une sur l’autre, jusqu’au sommet de la tombe, on entassait les morts.
Le mal ravagea la campagne, et à travers les villas isolées et les champs, les paysans moururent comme des bêtes.
Et les bœufs, les chèvres, les chiens, après avoir erré le jour sans berger, à la nuit, revinrent à leurs étables
Et tant fut la cruauté du ciel, qu’entre mars et juillet, plus de cent mille dedans Florence furent enlevés à la vie,
Ô combien de grands palais jadis remplis de familles restèrent vides !
Combien de fameuses richesses sans héritiers !
Contributed by Marco Valdo M.I. - 2021/1/16 - 21:00
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Testo di David Riondino, ispirato all'introduzione alla Giornata Prima del "Decameron" di Giovanni Boccaccio, 1348-53.
Musica di David Riondino, da "Cantando Boccaccio", una serie di trasmissioni prodotte da RAI Radio3 in cui Riondino fu chiamato a comporre una canzone per ognuna delle Giornate dell'opera.
Più recentemente nello spettacolo "Canzoni dal Decameron di Boccaccio", in cui Riondino è accompagnato da un settetto di voci femminili.
Testo trovato sul sito ufficiale dell'autore