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Maltamé

Michele Gazich
Language: Italian (Giudaico veneziano)


Michele Gazich

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2018
Temuto come grido atteso come canto
grido

Maltamé è scritta nella parlata degli ebrei di Venezia. In questa lingua che la violenza dei carnefici ha quasi definitivamente cancellato, ho voluto narrare il momento della deportazione dall’isola di San Servolo.

Maltamé è dedicata a Shaul Bassi: senza il suo sprone, non l’avrei mai scritta.

Parole: Volo Milano-Chicago 7 marzo 2018; Volo Nashville-Saint Louis 17 marzo 2018 ; Volo Saint Louis-Seattle 17 marzo 2018; Volo Portland-Oakland 20 marzo 2018; Venezia, Palazzo Cosulich 3 aprile 2018
Musica: Oakland 21 marzo 2018 – San Servolo (Venezia) 7 aprile 2018

“È uno "sconfinamento" in una dimensione sacrale, sacrale nel significato originario del termine di separazione dal mondano, di oltrepassamento a ciò che è Altro. Una sacralità che però è stradaiola, sanguigna, sa di urina e vomito. Il testo, alle orecchie di chi non mastica la lingua, ha un qualcosa di misterioso, uno scioglilingua che però non crea magia, racconta una condizione umana e soprattutto uno sprofondamento, appunto nel maltamé, in una condizione proprio da spirito impuro, perché nel sacro, anche se ce ne siamo scordati, c'è tutto ciò che è Altro: la violenza, l'incesto, lo stupro, la follia, ovviamente la morte. A salvare arriva una voce femminile (Rita Tekeyan, armena) che canta su una melodia da ninna nanna una specie di esorcismo che rimane in testa, come una sorta di preghiera, ma atavica, una cosa che ti porti via, che tieni in tasca come il rosario, che magari viene anche storpiata da chi non parla la lingua - un po' come facevano i vecchi anche in chiesa, che trasformavano il Requiem aeternam dona eis Domine in recometerna domisdone”. (Luca Barachetti)

Michele Gazich: voce, viola
Raoul Moretti: arpa
Rita Takeyan: voce

Dopo Non al denaro non all’amore né al cielo, che la genialità di Fabrizio De André portò all’attenzione del pubblico italiano, questo lavoro si può definire, a buon titolo, l’autentica ‘Spoon River’ italiana. Si parla di morti, questo è chiaro, ma i personaggi coinvolti non sono “morti e basta”. Loro sono morti due volte: la prima volta perché malati ed internati in un manicomio; la seconda volta perché ‘gli ospiti’, i reclusi, di origine ebraica, furono deportati ed uccisi. Tutti i personaggi raccontati nell’album hanno vissuto, o meglio, abitato, nell’isoletta di San Servolo, pittoresca oasi di terra della laguna veneta. Abitavano in una struttura molto antica, adibita a monastero per circa mille anni, ma che nel 1715 venne adibita ad ospedale militare e dopo neanche dieci anni venne trasformata in ‘manicomio’. E con questa destinazione è rimasta, nonostante vari passaggi, fino al 1978 quando fu chiuso definitivamente. In questi 253 anni, in quelle mura, è l’umanità intera che vi è passata e che lì, si è frantumata. Vi abitavano perché qualcuno ve li aveva portati, con la forza, perché ritenuti “matti”, inadatti alla vita sociale, inadatti alla vita, inadatti e basta.
Michele Gazich ha vissuto sull’isola per circa un mese ed ha deciso di leggere quel luogo con gli occhi di oggi ma cercando di andare indietro nel tempo, raccogliendo le storie presenti nelle schede personali delle migliaia di persone che in quel luogo di tormento vennero recluse; cercando di leggere, in quelle carte, l’umanità dolente e sofferente che in quel luogo è transitata, ha vissuto, ha vegetato, ci ha perso la vita. Un’umanità problematica e, magari, non necessariamente malata ma solamente vittima di depressioni, di esaurimenti nervosi, di difficoltà relazionali. Malati o forse solamente ‘disturbati’, oppure semplicemente necessitanti di un piccolo aiuto che, magari, pur richiesto non gli è mai arrivato. Un aiuto che forse li avrebbe aiutati a liberarsi dalle angosce del quotidiano, o almeno a sopportarle, vivendo un’esistenza ‘normale’ (qui sotto una foto d'archivio di qualche anno fa di San Servolo).

Tante le storie raccolte, fatte di dolore e di paure, di angosce e di spaventi, di silenzi e di urla notturne, di fantasmi interiori e di speranze interrotte. Con uno sguardo Gazich, come i reclusi, poteva osservare il mare e l’anelito di libertà racchiuso nell’orizzonte tra il cielo e l’acqua. Con un altro poteva scrutare le mura scrostate e piene di quelle “ombre” che in quel luogo persero la sanità mentale, l’intelletto, l’emozione, la dignità, la vita interiore per essere, in seguito, prelevate e condotte al macello, come capri espiatori di peccati mai commessi.
Per scrivere un album come questo, non poteva essere sufficiente la lettura di uno o più libri, l’osservazione di fotografie, la memoria composta grazie a qualche lontano e consumato articolo di giornale. No, la realtà andava affrontata, guardata negli occhi, con la paura di non poterle resistere. Le foto dei pazienti lì reclusi dovevano essere osservate e penetrate con attenzione, squadrate, interiorizzate. Quegli sguardi assenti, oppure furibondi, dovevano essere portati all’interno del sé più interiore per comprendere, fino in fondo e semmai fosse possibile, come quelle vita sono state spente, lentamente, e con inquietante metodo. Insieme alla visione delle fotografie, Gazich ha letto anche miriadi di cartelle cliniche, tra cui quelle relative alle persone raccontate nelle canzoni, i cui testi sono riportati nel bel libretto che accompagna quest’opera (un plauso al bel lavoro curato da Alice Falchetti).
È evidente che Temuto come grido, atteso come canto non è un album dalle tinte morbide, dai colori pastello, dai toni colmi di tenera poesia, che comunque è presente ma non è mai tenera, anzi… No, in queste canzoni (?) c’è la presenza dell’umanità straziata e crocifissa, c’è la presenza di chi è ”disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima” (Isaia 53,3), c’è la presenza di chi, ancora oggi, prosegue nel reclamare la sua dignità di persona ma non ne possiede più i diritti; c’è l’immagine dell’uomo che viene trasfigurato nello strazio di una vita senza più speranza, senza luce, priva di orizzonti, destinata all’oblio dell’oscurità. C’è l’uomo nella sua immensità negata. C’è l’uomo deturpato ed offeso, senza più neppure la parvenza di una salvezza, seppure lontana, imminente, possibile…
Questo lavoro, lo si sarà compreso, non è certamente di semplice fattura ma intrinsecamente composto da sofferenze e disperazioni, dal male che ha pervaso ogni spazio della vita e che, dopo la sofferente reclusione, ha fatto subire a quegli uomini ed a quelle donne, colpevoli di essere figli di Abramo, la deportazione verso le camere a gas. Un evento che ha piantato, in quei poveri corpi, in quelle devastate menti, un altro chiodo, un'altra lama tagliente penetrata ad offendere il cuore. E, pare una bestemmia dirlo, forse in quel viaggio, in quell’ultimo viaggio, qualcuno di loro avrà anche pensato, forse per un istante, che l’approdo di quel treno, era la libertà. Ma così non fu.

L’album è strutturato in tre parti: un prologo, un gruppo di canzoni dedicato ad alcune persone recluse (i cui nomi sono di fantasia, ma sempre ispirati dalla storia personale di ogni paziente) e un saluto, per un totale di undici brani a comporre un mosaico di prodigiosa suggestione. Ma se ogni persona ha un senso ed un valore, ancor di più lo possiede chi ha vissuto in situazioni difficili, di tormento, di disintegrazione della propria umanità. Tutto comincia da quell’isola, San Servolo, dove il grido dei reclusi nel manicomio si perdeva verso le mura o, talvolta, verso il mare, senza che nessuno potesse ascoltarlo.
isolachenoncera

RIta TekSi chiama ‘maltamé’ il termine utilizzato, nella lingua che parlavano gli ebrei veneziani, per rappresentare una persona negativa, che porta sfortuna. Ma in questo caso la si può immaginare, invece, come una forza complessivamente negativa, che avvince le persone trascinandole in un gorgo di terrore. E Maltamé è il titolo del secondo brano dell’album, cantato, appunto, in questa lingua arcaica e meticcia, che porta con sé sia la stanzialità lagunare che i percorsi delle varie diaspore ebraiche. Ci sono le parole di un’antica filastrocca per cercare di addolcire il testo, ma più che la dolcezza sono lacrime quelle racchiuse nelle liriche, strazianti perché raccolgono il dolore di chi sente la morte aleggiare intorno a sé e nulla può fare per allontanarla se non cercare, nella memoria dell’infanzia, un conforto, un aiuto, una parola che aiuti a superare la sventura ricevuta e subita, pur nell’innocenza dei senza colpa né peccato. Il ricordo evocato dalle note rappresentano immagini ormai perdute ma a cui è necessario aggrapparsi per non perdersi nel buio della notte, nel terrore della morte. La voce di Rita Tekeyan e l’arpa di Raoul Moretti afferrano le emozioni e le dissolvono nel vento, mentre la viola appare a creare mutazioni emotive ed appoggia un velo di oscurità sulla vita del malcapitato protagonista della storia narrata e ‘l’angelo della morte’, alla fine, trasfigura ogni cosa fino ad arrivare a spegnere ogni speranza. Il suono dell’arpa e la voce eterea della Tekeyan sembrano essere l’unica ancora di salvezza possibile alla sventura perché nella memoria del canto si può trovare un, seppure tenue, rifugio…
Digo parole de mascòn(1)
Parole de gòi(2)
Ah, parola zonà!(3)
Parole sbare de canzelo
Ma se ghe penso mi me ricordo
De quando gero putelo
De mia mare che cantava

Babahò, bèd a holìm
Behàr tòv, bèd a haìm
Babahò, bèd a holìm
Behàr tòv, bèd a haìm(4)

Stanote no gavemo dormìo
Haburiài(5) de soà
Embriaghi de macà(6)
Xè vegnùo l’anzolo a ciaparne
L’anzolo dela morte
Stame lontàn, Malàh amàved,(7)
Go el maltamé adoso!

Babahò, bèd a holìm
Behàr tòv, bèd a haìm
Babahò, bèd a holìm
Behàr tòv, bèd a haìm
Glossario
Questo glossario è stato costruito grazie alla lettura e allo studio de La parlata degli ebrei di Venezia di Umberto Fortis.

(1) Parole de mascón: parole prese a prestito

(2) Gòi: cristiano o non ebreo

(3) Zonà: prostituta, puttana

(4) Babahò, bèd a holìm / Behàr tòv, bèd a haìm: filastrocca sinistra come spesso le filastrocche che vengono cantate ai bambini, in tante tradizioni: per spaventarli bonariamente, si dice; molto più probabilmente per l’invidia da parte di chi ha già vissuto buona parte della propria esistenza nei confronti di chi ha ancora davanti a sé la vita intera. Possiamo tradurla: “Se continui a piangere, finisci all’ospedale; se la disgrazia ti colpisce, finisci al cimitero”. Letteralmente le parole ebraiche significano: “Frignone, ospedale / Disgraziato, cimitero”.

(5) Haburiài: ingozzati

(6) Macà macòd: disgrazia

(7) Malàh amàved: l’angelo della morte

(8) Maltamé: il termine, largamente testimoniato nella parlata ebraico-veneziana, indica una persona posseduta da forze negative, impure. Nell’accezione che ho voluto dare alla parola è un senso di terrore di fronte ad una forza inspiegabile e mortifera, che aggredisce, possiede gli uomini e li priva della volontà. Di fronte a questo terrore che accelera il battito del cuore, il tentativo è ritornare tra le braccia della madre.

Contributed by Dq82 + Michele Gazich - 2018/10/6 - 16:39




Language: Italian

Traduzione italiana
MALTAMÉ

Io parlo con parole prese in pegno
Parole dei cristiani
Ah, parola puttana!
Parole che sono sbarre di cancello
Ma se ci penso mi ricordo
Di quando ero bambino
Di mia madre che cantava

Babahò, bèd a holìm
Behàr tòv, bèd a haìm
Babahò, bèd a holìm
Behàr tòv, bèd a haìm

Questa notte non abbiamo dormito
Ingozzati di merda
Ubriacati dalla sventura
È venuto l’angelo a prenderci
Stammi lontano, angelo della morte,
Ho il maltamé addosso!

Babahò, bèd a holìm
Behàr tòv, bèd a haìm
Babahò, bèd a holìm
Behàr tòv, bèd a haìm

Contributed by Dq82 + Michele Gazich - 2019/10/8 - 23:01




Language: English

English translation
(Words and music by Michele Gazich)
MALTAMÉ

I speak borrowed words
Words spoken by Christians
Ah, whore word!
Words that are bars of gates
But if I think about it, I remember
When I was a child
When my mother was singing

Babahò, bèd a holìm
Behàr tòv, bèd a haìm
Babahò, bèd a holìm
Behàr tòv, bèd a haìm

Tonight we didn’t sleep
Force-fed with shit
Drunken with disgrace
The angel came to take us
Stay away from me, Angel of death,
I got the maltamé in me!

Babahò, bèd a holìm
Behàr tòv, bèd a haìm
Babahò, bèd a holìm
Behàr tòv, bèd a haìm

Contributed by Dq82 + Michele Gazich - 2019/10/8 - 23:03


Ringrazio personalmente Michele per averci contattato e averci fornito il testo completo (che prima era stato malamente trascritto a orecchio), fornendoci note e traduzioni in italiano e inglese

Dq82 - 2019/10/8 - 23:05




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