Son passato a ripa d’Arno questa sera
là dove degli immensi scalini nel letto del fiume
fanno frangere l’acqua in una cascata ripetuta.
C’era come un sordo grattare, un ringhio di belva
un rumore di tempesta imminente,
ma nascosta, celata agli sguardi.
Ho visto il lumino, il mucchietto di fiori
la bicicletta legata lì di fianco.
La pioggia scollerà il volto stampato sotto il nome del ponte
e perderà questi poveri testimoni: il lumino ed i fiori
e dell’uomo ucciso dalla belva dell’uomo
non sarà che uno scuro ricordo di morte
e quel poco di sangue nell’acqua passata.
Nella mia piccola cosmogonia c’è un Pantheon di simboli
uno di questi è l’ombrello. C’è un film che ho visto
al tempo in cui mi stavo facendo uomo
che inizia con un uomo nella pioggia ed una donna
lui dice “Ombrello?” lei risponde “Ombrello e protezione”.
Hanno sparato all’uomo dell’ombrello,
hanno ucciso la protezione che dobbiamo ad ognuno
e siamo per sempre bagnati da tutta la pioggia del Mondo.
L’ombrello come la bicicletta è un piccolo capolavoro
oggetto sacro di una tecnologia minima e geniale
attrezzo umile e prezioso refrattario alla proprietà:
quanti ombrelli ho perduto ed ho rubato?
L’ombrello è di chi ne ha bisogno.
Hanno sparato all’uomo dell’ombrello
e siamo per sempre bagnati da tutta la pioggia del Mondo.
Ho accusato i razzisti, osceni di potere,
chi fa strame e non bada che sta gettando noccioline
al mostro della Storia, che ci sbranerà ancora una volta.
Vi ho accusato fascisti del terzo millennio, che siete pochi, pochissimi
e per quanto pochissimi appestate l’aria di lezzo di morte
ma siete come il proiettile, inutile orrore
di cui è carica la grande pistola sociale
carica e pronta ancora a sparare.
Ho accusato il Capitale, che da sempre sta al comando
che fa affari vendendo la vita e tutto mangiando.
Ma oggi non perdono noi altri, non perdono chi s’è distratto
chi ha rimandato, chi ha sbagliato, chi non ha potuto.
Hanno sparato all’uomo dell’ombrello, non l’abbiamo protetto
e siamo per sempre bagnati da tutta la pioggia del Mondo.
Non perdono questa chitarra tarlata di buone intenzioni
queste stupide canzoni cui ho dedicato metà della vita
metà a scriverle, metà a cantarle, queste inutili canzoni
che nemmeno in mille anni cambieranno la testa di nessuno.
Non perdono i mille e mille libri accumulati
che più che sapere hanno costruito nella mia casa un muro
dalle cui feritoie forse scorgo l’uomo che vende gli ombrelli
ma non l’ho salvato, non mi perdono e la vita ho buttato.
Non perdono certo i falsi compagni
(che ormai fra di loro si chiamano “amici” e in realtà si odiano tutti)
stanno assieme finché gli serve, dicono “stai tranquillo”
e già vedi il pugnale nel fianco. Loro sono da tempo i nemici,
ma voi che come me avevate gli occhi
e avete retto loro il gioco, perché non c’era altro da fare
a voi non vi perdono più, non avete salvato l’uomo dell’ombrello.
Non perdono i compagni burocrati divisionisti
che dalla sacra trinità laica hanno strappato un petalo
hanno preso Libertà e Uguaglianza e hanno tolto Fraternità
e non sanno che se pure liberi e uguali
siamo anche soli e perduti e assetati e affamati
e siamo niente se non c’è una mano fraterna.
Sono tre parole che vivono assieme, che da trecento anni
illuminavano ogni nostro passo.
Non perdono i compagni che festeggiano l’uno per cento
e che dicono “certo, se ci avessero fatti passare in Tivù
saremmo di più, saremmo arrivati anche al tre!”
Come quei somari e quei briganti sulla strada di Girgenti.
Ditemi un po’, compagni, ebbe migliore pubblicità il Manifesto di Marx?
(Per non parlare delle opere dei miei compagni anarchici
che passavano clandestine di mano in mano).
C’era forse la diretta nazionale per la Prima Internazionale?
Eppure qualcosa loro l’hanno fatta.
Voi non avete salvato l’uomo dell’ombrello, mentre lui moriva
eravate a festeggiare il vostro voto, e perciò non vi perdono.
Non perdono i miei compagni anarchici, e non mi perdono con loro.
Disuniti su tutto, incapaci di fare un fronte comune
sospettosi soprattutto di noi stessi, ripiegati su una storia gloriosa
compiaciuti – si direbbe – nel ruolo delle vittime.
Quanti calci in culo ci darebbe Malatesta con Durruti!
Quanti calci in culo ci darebbero i marinai di Kronstad!
Perché passi che non abbiamo difeso la rivoluzione dallo Stato
ma soprattutto non abbiamo salvato l’uomo dell’ombrello.
E ora ripasso a ripa d’Arno, la notte si fa sempre più profonda
la pioggia sta lavando la mia rabbia,
la fa levigata e sorda di pianto e di vergogna.
Seccherà e si farà tutta di cenere.
Abbiamo poco per rifarci una speranza:
un pugno di cenere nel vento
una macchia di sangue a ripa d’Arno
un tempo che ringhia troppo forte
e vorticante si getta verso il nulla.
Ma di cenere e di sangue è fatto l’uomo
e da questi si dovrà ricominciare
e speriamo che l’uomo dell’ombrello
sia disposto ancora a darci protezione
là dove degli immensi scalini nel letto del fiume
fanno frangere l’acqua in una cascata ripetuta.
C’era come un sordo grattare, un ringhio di belva
un rumore di tempesta imminente,
ma nascosta, celata agli sguardi.
Ho visto il lumino, il mucchietto di fiori
la bicicletta legata lì di fianco.
La pioggia scollerà il volto stampato sotto il nome del ponte
e perderà questi poveri testimoni: il lumino ed i fiori
e dell’uomo ucciso dalla belva dell’uomo
non sarà che uno scuro ricordo di morte
e quel poco di sangue nell’acqua passata.
Nella mia piccola cosmogonia c’è un Pantheon di simboli
uno di questi è l’ombrello. C’è un film che ho visto
al tempo in cui mi stavo facendo uomo
che inizia con un uomo nella pioggia ed una donna
lui dice “Ombrello?” lei risponde “Ombrello e protezione”.
Hanno sparato all’uomo dell’ombrello,
hanno ucciso la protezione che dobbiamo ad ognuno
e siamo per sempre bagnati da tutta la pioggia del Mondo.
L’ombrello come la bicicletta è un piccolo capolavoro
oggetto sacro di una tecnologia minima e geniale
attrezzo umile e prezioso refrattario alla proprietà:
quanti ombrelli ho perduto ed ho rubato?
L’ombrello è di chi ne ha bisogno.
Hanno sparato all’uomo dell’ombrello
e siamo per sempre bagnati da tutta la pioggia del Mondo.
Ho accusato i razzisti, osceni di potere,
chi fa strame e non bada che sta gettando noccioline
al mostro della Storia, che ci sbranerà ancora una volta.
Vi ho accusato fascisti del terzo millennio, che siete pochi, pochissimi
e per quanto pochissimi appestate l’aria di lezzo di morte
ma siete come il proiettile, inutile orrore
di cui è carica la grande pistola sociale
carica e pronta ancora a sparare.
Ho accusato il Capitale, che da sempre sta al comando
che fa affari vendendo la vita e tutto mangiando.
Ma oggi non perdono noi altri, non perdono chi s’è distratto
chi ha rimandato, chi ha sbagliato, chi non ha potuto.
Hanno sparato all’uomo dell’ombrello, non l’abbiamo protetto
e siamo per sempre bagnati da tutta la pioggia del Mondo.
Non perdono questa chitarra tarlata di buone intenzioni
queste stupide canzoni cui ho dedicato metà della vita
metà a scriverle, metà a cantarle, queste inutili canzoni
che nemmeno in mille anni cambieranno la testa di nessuno.
Non perdono i mille e mille libri accumulati
che più che sapere hanno costruito nella mia casa un muro
dalle cui feritoie forse scorgo l’uomo che vende gli ombrelli
ma non l’ho salvato, non mi perdono e la vita ho buttato.
Non perdono certo i falsi compagni
(che ormai fra di loro si chiamano “amici” e in realtà si odiano tutti)
stanno assieme finché gli serve, dicono “stai tranquillo”
e già vedi il pugnale nel fianco. Loro sono da tempo i nemici,
ma voi che come me avevate gli occhi
e avete retto loro il gioco, perché non c’era altro da fare
a voi non vi perdono più, non avete salvato l’uomo dell’ombrello.
Non perdono i compagni burocrati divisionisti
che dalla sacra trinità laica hanno strappato un petalo
hanno preso Libertà e Uguaglianza e hanno tolto Fraternità
e non sanno che se pure liberi e uguali
siamo anche soli e perduti e assetati e affamati
e siamo niente se non c’è una mano fraterna.
Sono tre parole che vivono assieme, che da trecento anni
illuminavano ogni nostro passo.
Non perdono i compagni che festeggiano l’uno per cento
e che dicono “certo, se ci avessero fatti passare in Tivù
saremmo di più, saremmo arrivati anche al tre!”
Come quei somari e quei briganti sulla strada di Girgenti.
Ditemi un po’, compagni, ebbe migliore pubblicità il Manifesto di Marx?
(Per non parlare delle opere dei miei compagni anarchici
che passavano clandestine di mano in mano).
C’era forse la diretta nazionale per la Prima Internazionale?
Eppure qualcosa loro l’hanno fatta.
Voi non avete salvato l’uomo dell’ombrello, mentre lui moriva
eravate a festeggiare il vostro voto, e perciò non vi perdono.
Non perdono i miei compagni anarchici, e non mi perdono con loro.
Disuniti su tutto, incapaci di fare un fronte comune
sospettosi soprattutto di noi stessi, ripiegati su una storia gloriosa
compiaciuti – si direbbe – nel ruolo delle vittime.
Quanti calci in culo ci darebbe Malatesta con Durruti!
Quanti calci in culo ci darebbero i marinai di Kronstad!
Perché passi che non abbiamo difeso la rivoluzione dallo Stato
ma soprattutto non abbiamo salvato l’uomo dell’ombrello.
E ora ripasso a ripa d’Arno, la notte si fa sempre più profonda
la pioggia sta lavando la mia rabbia,
la fa levigata e sorda di pianto e di vergogna.
Seccherà e si farà tutta di cenere.
Abbiamo poco per rifarci una speranza:
un pugno di cenere nel vento
una macchia di sangue a ripa d’Arno
un tempo che ringhia troppo forte
e vorticante si getta verso il nulla.
Ma di cenere e di sangue è fatto l’uomo
e da questi si dovrà ricominciare
e speriamo che l’uomo dell’ombrello
sia disposto ancora a darci protezione
envoyé par Silva - 10/3/2018 - 13:24
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accompagnamento musicale di Guido Baldoni
Il testo è stato ripreso da Altracittà