Venham mais cinco, duma assentada que eu pago já
Do branco ou tinto, se o velho estica eu fico por cá
Se tem má pinta dá-lhe um apito e põe-no a andar
De espada à cinta, já crê que é rei d'aquém e além-mar
Não me obriguem a vir para a rua gritar
Que é já tempo d'embalar a trouxa e zarpar
Tiriririri buririririri, Tiriririri paraburibaie
Tiriririri buririririri, Tiriririri paraburibaie
Tiiiiiiiiiiiiii paraburibaie...
Tiriririri buririririri, Tiriririri paraburibaie
Tiriririri buririririri, Tiriririri paraburibaie
A gente ajuda, havemos de ser mais eu bem sei
Mas há quem queira deitar abaixo o que eu levantei
A bucha é dura, mais dura é a razão que a sustem
Só nesta rusga não há lugar prós filhos da mãe
Não me obriguem a vir para a rua gritar
Que é já tempo d'embalar a trouxa e zarpar
Tiriririri buririririri, Tiriririri paraburibaie
Tiriririri buririririri, Tiriririri paraburibaie
Tiiiiiiiiiiiiii paraburibaie...
Tiriririri buririririri, Tiriririri paraburibaie
Tiriririri buririririri, Tiriririri paraburibaie
Bem me diziam, bem me avisavam como era a lei
Na minha terra: quem trepa no coqueiro é o rei
A bucha é dura, mais dura é a razão que a sustem
Só nesta rusga não há lugar prós filhos da mãe
Não me obriguem a vir para a rua gritar
Que é já tempo d'embalar a trouxa e zarpar
Tiriririri buririririri, Tiriririri paraburibaie
Tiriririri buririririri, Tiriririri paraburibaie
Tiiiiiiiiiiiiii paraburibaie...
Tiriririri buririririri, Tiriririri paraburibaie
Tiriririri buririririri, Tiriririri paraburibaie
Do branco ou tinto, se o velho estica eu fico por cá
Se tem má pinta dá-lhe um apito e põe-no a andar
De espada à cinta, já crê que é rei d'aquém e além-mar
Não me obriguem a vir para a rua gritar
Que é já tempo d'embalar a trouxa e zarpar
Tiriririri buririririri, Tiriririri paraburibaie
Tiriririri buririririri, Tiriririri paraburibaie
Tiiiiiiiiiiiiii paraburibaie...
Tiriririri buririririri, Tiriririri paraburibaie
Tiriririri buririririri, Tiriririri paraburibaie
A gente ajuda, havemos de ser mais eu bem sei
Mas há quem queira deitar abaixo o que eu levantei
A bucha é dura, mais dura é a razão que a sustem
Só nesta rusga não há lugar prós filhos da mãe
Não me obriguem a vir para a rua gritar
Que é já tempo d'embalar a trouxa e zarpar
Tiriririri buririririri, Tiriririri paraburibaie
Tiriririri buririririri, Tiriririri paraburibaie
Tiiiiiiiiiiiiii paraburibaie...
Tiriririri buririririri, Tiriririri paraburibaie
Tiriririri buririririri, Tiriririri paraburibaie
Bem me diziam, bem me avisavam como era a lei
Na minha terra: quem trepa no coqueiro é o rei
A bucha é dura, mais dura é a razão que a sustem
Só nesta rusga não há lugar prós filhos da mãe
Não me obriguem a vir para a rua gritar
Que é já tempo d'embalar a trouxa e zarpar
Tiriririri buririririri, Tiriririri paraburibaie
Tiriririri buririririri, Tiriririri paraburibaie
Tiiiiiiiiiiiiii paraburibaie...
Tiriririri buririririri, Tiriririri paraburibaie
Tiriririri buririririri, Tiriririri paraburibaie
Contributed by Bernart Bartleby - 2017/10/27 - 14:05
Language: Italian
Traduzione italiana di Riccardo Venturi
29 ottobre 2017 09:53
José Afonso interpreta "Venham mais cinco" al Coliséu di Lisbona nel 1983.
E' l'ultima esibizione in pubblico dello Zeca, già ammalato di SLA.
29 ottobre 2017 09:53
José Afonso interpreta "Venham mais cinco" al Coliséu di Lisbona nel 1983.
E' l'ultima esibizione in pubblico dello Zeca, già ammalato di SLA.
' Questa canzone fa appello all'unità, poiché essa era necessaria per lottare contro i mali provocati dal regime e per abbattere il regime che avrebbe dovuto “fare fagotto e levarsi di torno”.
Nel testo, la parola “vino” simboleggia la trasformazione, perché il succo d'uva ha il misterioso potere di trasformarsi e di trasformare chi lo beve in qualcosa di più potente.
Il numero cinque è associato, tra le altre cose, all'analisi, alla critica, alla forza, all'integrazione, alla crescita organica e al cuore. In tale aspetto, è segno di unione, di armonia e di equilibrio, ed è un invito a fraternizzare (“batti un cinque”).
Nei versi: “venite tutti insieme ché tanto pago io”, “quel che io ho alzato”, si nota che, all'inizio, chi dice “io” non ha nome ma, di fatto, diventa subito un nome attivo. “Io” cessa di essere un pronome, diventa un nome e il migliore dei nomi. Dire “io” è, in modo infallibile, attribuirsi significati come oggetto di un destino, di un'azione concreta e reale.
Nei versi del testo: “se il vecchi schiatta”, “fagli un fischio”, “ha brutta cera”, “crede di essere re...”, il pronome personale di III persona identifica senza rivelare.
Esiste anche una chiara opposizione tra “io” e “lui”, che provoca un desiderio di cambiamento e di scontro. L'invito a fraternizzare, l'unione e la lotta tutti assieme per lo stesso ideale sono sintetizzati nell'espressione “Ancora cinque, su, venite”. Questa lotta presuppone che altri si uniscano a me con lo stesso desiderio di liberazione. Con il vino, il popolo avrebbe celebrato e festeggiato la vittoria.
Vengono esposte le ragioni per il cambiamento: “se il vecchio schiatta”, se Salazar crepa, un'allusione ai due ultimi anni di vita dello statista dopo la sua caduta nel 1968, quando fu sostituito da Marcelo Caetano [**]. Salazar viene paragonato a un “vecchio” che “schiatta”, ma che ancora si crede “re di qua e di là dal mare”, cioè ancora governa; “se ha brutta cera”, cioè se è austero, autoritario, gelido, duro e dirigista; “fagli un fischio e spediscilo”, cioè sbarazzati di lui e destituiscilo dal potere; “spada alla cintola”, cioè: si è impadronito del podere, è l'immagine personificata del potere: “crede di essere re di qua e di là dal mare”, è il signore del Portogallo e delle colonie (politica che insistette a mantenere, nonostante per essa fossero morti circa ottomila portoghesi oltre ai mutilati fisicamente e psicologicamente); “nella mia terra chi si arrampica sulla palma da cocco è re”, dove la palma da cocco è il simbolo dell'alto potere, da dove si vede tutta la terra ed il re è il dittatore che si è arrampicato al potere e vede e controlla tutto dinanzi a sé; “ormai è tempo di fare fagotto e levarsi di torno”, è oramai tempo di andarsene, perché già da troppo tempo sta governando il paese.
La prefigurazione del cambiamento è di nuovo visibile nelle seguenti parole: “gridare”, che traduce l'ansia di libertà e di gridar vittoria: “fifirifìììì” ecc., il suono dei fischi per festeggiare la vittoria; “la gente aiuta”, ovvero il sentimento di unità nella lotta; “dobbiamo esser di più”, lo scontento aumenta.
In effetti, il compito era difficile (dura questione), ma più importante era la ragion d'essere di questa lotta (più dura è la ragione che la affronta) e in questa lotta (disputa, rissa) non ci sarebbe stato posto per coloro che difendevano il regime (i “figli di mamma loro”). '
Albano Viseu, A Simbologia das Palavras e a revolução silenciosa: os sentidos implícitos nas canções de Zeca Afonso; trad. RV
[**] Il presidente ammiraglio Américo Thomaz, esponente dell'ala più dura del regime portoghese, utilizzando quella che era forse l'unica sua prerogativa legale destituì di fatto nel 1968 il dittatore Salazar (dal quale era stato nominato presidente nel 1958), oramai del tutto impossibilitato perché colpito da quella che allora si chiamava demenza senile e che ora si chiama morbo di Alzheimer, sostituendolo con Marcelo Caetano. Da notare che Salazar non fu minimamente informato della cosa: per tutti gli ultimi suoi due anni di vita (morì il 27 luglio 1970), a Salazar fu fatto credere di essere ancora primo ministro e gli furono fatti firmare decreti poi appallottolati nel cestino della carta straccia. Da allora, il presidente Thomaz intervenne maggiormente, opponendosi regolarmente alle timide “aperture” (o “alleggerimenti”) operati da Marcelo Caetano. La questione fu risolta alla radice il 25 aprile 1974. [RV]
Nel testo, la parola “vino” simboleggia la trasformazione, perché il succo d'uva ha il misterioso potere di trasformarsi e di trasformare chi lo beve in qualcosa di più potente.
Il numero cinque è associato, tra le altre cose, all'analisi, alla critica, alla forza, all'integrazione, alla crescita organica e al cuore. In tale aspetto, è segno di unione, di armonia e di equilibrio, ed è un invito a fraternizzare (“batti un cinque”).
Nei versi: “venite tutti insieme ché tanto pago io”, “quel che io ho alzato”, si nota che, all'inizio, chi dice “io” non ha nome ma, di fatto, diventa subito un nome attivo. “Io” cessa di essere un pronome, diventa un nome e il migliore dei nomi. Dire “io” è, in modo infallibile, attribuirsi significati come oggetto di un destino, di un'azione concreta e reale.
Nei versi del testo: “se il vecchi schiatta”, “fagli un fischio”, “ha brutta cera”, “crede di essere re...”, il pronome personale di III persona identifica senza rivelare.
Esiste anche una chiara opposizione tra “io” e “lui”, che provoca un desiderio di cambiamento e di scontro. L'invito a fraternizzare, l'unione e la lotta tutti assieme per lo stesso ideale sono sintetizzati nell'espressione “Ancora cinque, su, venite”. Questa lotta presuppone che altri si uniscano a me con lo stesso desiderio di liberazione. Con il vino, il popolo avrebbe celebrato e festeggiato la vittoria.
Vengono esposte le ragioni per il cambiamento: “se il vecchio schiatta”, se Salazar crepa, un'allusione ai due ultimi anni di vita dello statista dopo la sua caduta nel 1968, quando fu sostituito da Marcelo Caetano [**]. Salazar viene paragonato a un “vecchio” che “schiatta”, ma che ancora si crede “re di qua e di là dal mare”, cioè ancora governa; “se ha brutta cera”, cioè se è austero, autoritario, gelido, duro e dirigista; “fagli un fischio e spediscilo”, cioè sbarazzati di lui e destituiscilo dal potere; “spada alla cintola”, cioè: si è impadronito del podere, è l'immagine personificata del potere: “crede di essere re di qua e di là dal mare”, è il signore del Portogallo e delle colonie (politica che insistette a mantenere, nonostante per essa fossero morti circa ottomila portoghesi oltre ai mutilati fisicamente e psicologicamente); “nella mia terra chi si arrampica sulla palma da cocco è re”, dove la palma da cocco è il simbolo dell'alto potere, da dove si vede tutta la terra ed il re è il dittatore che si è arrampicato al potere e vede e controlla tutto dinanzi a sé; “ormai è tempo di fare fagotto e levarsi di torno”, è oramai tempo di andarsene, perché già da troppo tempo sta governando il paese.
La prefigurazione del cambiamento è di nuovo visibile nelle seguenti parole: “gridare”, che traduce l'ansia di libertà e di gridar vittoria: “fifirifìììì” ecc., il suono dei fischi per festeggiare la vittoria; “la gente aiuta”, ovvero il sentimento di unità nella lotta; “dobbiamo esser di più”, lo scontento aumenta.
In effetti, il compito era difficile (dura questione), ma più importante era la ragion d'essere di questa lotta (più dura è la ragione che la affronta) e in questa lotta (disputa, rissa) non ci sarebbe stato posto per coloro che difendevano il regime (i “figli di mamma loro”). '
Albano Viseu, A Simbologia das Palavras e a revolução silenciosa: os sentidos implícitos nas canções de Zeca Afonso; trad. RV
[**] Il presidente ammiraglio Américo Thomaz, esponente dell'ala più dura del regime portoghese, utilizzando quella che era forse l'unica sua prerogativa legale destituì di fatto nel 1968 il dittatore Salazar (dal quale era stato nominato presidente nel 1958), oramai del tutto impossibilitato perché colpito da quella che allora si chiamava demenza senile e che ora si chiama morbo di Alzheimer, sostituendolo con Marcelo Caetano. Da notare che Salazar non fu minimamente informato della cosa: per tutti gli ultimi suoi due anni di vita (morì il 27 luglio 1970), a Salazar fu fatto credere di essere ancora primo ministro e gli furono fatti firmare decreti poi appallottolati nel cestino della carta straccia. Da allora, il presidente Thomaz intervenne maggiormente, opponendosi regolarmente alle timide “aperture” (o “alleggerimenti”) operati da Marcelo Caetano. La questione fu risolta alla radice il 25 aprile 1974. [RV]
ANCORA CINQUE
Ancora cinque, su, venite tutti insieme ché tanto pago io
Vino bianco o rosso, se il vecchio schiatta io rimango qua
Se ha brutta cera, fagli un fischio e spediscilo [1]
Con tanto di spada alla cintola, visto che crede d'essere re di qua e di là dal mare [2]
Non mi obbligate a scendere in strada per gridare
Che è oramai tempo di fare fagotto e levarsi di torno [3]
Firififììììì firififìììììì, firififììììì paparazùm
Firififììììì firififìììììì, firififììììì paparazùm
Firififììììì paparazùm
Firififììììì firififìììììì, firififììììì paparazùm
Firififììììì firififìììììì, firififììììì paparazùm
La gente aiuta, dobbiamo esser di più e lo so bene
Ma c'è chi vorrà ributtar giù quel che io ho alzato
Dura questione, ma più dura è la ragione che la affronta
Solo, in questa lotta [4] non c'è posto per i figli di mamma loro
Non mi obbligate a scendere in strada per gridare
Che è oramai tempo di fare fagotto e levarsi di torno
Firififììììì firififìììììì, firififììììì paparazùm
Firififììììì firififìììììì, firififììììì paparazùm
Firififììììì paparazùm
Firififììììì firififìììììì, firififììììì paparazùm
Firififììììì firififìììììì, firififììììì paparazùm
Ben mi dicevano, bene mi avvertivano com'era la legge
Nella mia terra: chi si arrampica sulla palma da cocco, è re
Dura questione, ma più dura è la ragione che la affronta
Solo, in questa lotta non c'è posto per i figli di mamma loro
Non mi obbligate a scendere in strada per gridare
Che è oramai tempo di fare fagotto e levarsi di torno
Firififììììì firififìììììì, firififììììì paparazùm
Firififììììì firififìììììì, firififììììì paparazùm
Firififììììì paparazùm
Firififììììì firififìììììì, firififììììì paparazùm
Firififììììì firififìììììì, firififììììì paparazùm
Ancora cinque, su, venite tutti insieme ché tanto pago io
Vino bianco o rosso, se il vecchio schiatta io rimango qua
Se ha brutta cera, fagli un fischio e spediscilo [1]
Con tanto di spada alla cintola, visto che crede d'essere re di qua e di là dal mare [2]
Non mi obbligate a scendere in strada per gridare
Che è oramai tempo di fare fagotto e levarsi di torno [3]
Firififììììì firififìììììì, firififììììì paparazùm
Firififììììì firififìììììì, firififììììì paparazùm
Firififììììì paparazùm
Firififììììì firififìììììì, firififììììì paparazùm
Firififììììì firififìììììì, firififììììì paparazùm
La gente aiuta, dobbiamo esser di più e lo so bene
Ma c'è chi vorrà ributtar giù quel che io ho alzato
Dura questione, ma più dura è la ragione che la affronta
Solo, in questa lotta [4] non c'è posto per i figli di mamma loro
Non mi obbligate a scendere in strada per gridare
Che è oramai tempo di fare fagotto e levarsi di torno
Firififììììì firififìììììì, firififììììì paparazùm
Firififììììì firififìììììì, firififììììì paparazùm
Firififììììì paparazùm
Firififììììì firififìììììì, firififììììì paparazùm
Firififììììì firififìììììì, firififììììì paparazùm
Ben mi dicevano, bene mi avvertivano com'era la legge
Nella mia terra: chi si arrampica sulla palma da cocco, è re
Dura questione, ma più dura è la ragione che la affronta
Solo, in questa lotta non c'è posto per i figli di mamma loro
Non mi obbligate a scendere in strada per gridare
Che è oramai tempo di fare fagotto e levarsi di torno
Firififììììì firififìììììì, firififììììì paparazùm
Firififììììì firififìììììì, firififììììì paparazùm
Firififììììì paparazùm
Firififììììì firififìììììì, firififììììì paparazùm
Firififììììì firififìììììì, firififììììì paparazùm
[1] In un paese "fogato" per il calcio come il Portogallo, l'espressione è precisamente quella dell'arbitro che fischia e espelle un giocatore. Come dire: è il popolo che oramai deve essere arbitro e comandare la partita. Il campionato portoghese della stagione 1973/74 si concluse regolarmente dopo il 25 aprile e fu vinto dallo Sporting di Lisbona.
[2] L'espressione usata da José Afonso è quella tradizionale dei re portoghesi, che regnavano anche sulle terre d'Oltremare. Per questo motivo, essendo un'espressione storica fissata dall'uso, mantiene un'ortografia arcaica. Il suo uso ha un valore più immediato e potente per un portoghese: figure considerate squallide, come un Salazar o un Caetano, si considerano come gli antichi re dei tempi delle “scoperte” coloniali e dei possedimenti cinquecenteschi, al pari dei grandi che furono cantati da Camões nei “Lusiadi”. Nella retorica nazionalista e colonialista del regime, il riferimento continuo alla “grandezza passata” era all'ordine del giorno in un paese ridotto alla povertà e all'emigrazione di massa, nonché dissanguato dalle guerre coloniali africane; ma è caratteristica di ogni regime fascista e autoritario (si veda sì la “grandezza di Roma” mussoliniana, senza scordare che un Ivan il Terribile faceva parte anche della retorica sovietica).
[3] La parola utilizzata, zarpar, significa propriamente “salpare”, “mettersi in navigazione”. Popolarmente utilizzato nel significato di “partire” (anche non per mare), “fuggire”, “squagliarsela”. Ma senz'altro José Afonso desiderava che “salpassero”, cosa che avvenne effettivamente all'indomani del 25 aprile 1974 (il presidente Américo Thomaz e il primo ministro Marcelo Caetano furono spediti rapidamente in Brasile, sia pure in aereo). Per la cronaca, Marcelo Caetano morì in esilio, a Rio de Janeiro il 26 ottobre 1980. Américo Thomaz poté invece rientrare in Portogallo, sia pure destituito da tutti i suoi gradi militari e privo della pensione militare. Morì 93 enne a Cascais il 18 settembre 1987, pochi mesi dopo José Afonso (che, però, di anni ne aveva solo 58).
[4] Qui la traduzione è piuttosto “ad sensum”: José Afonso, nel testo, utilizza un linguaggio metaforico e assai più popolaresco. Bucha (propriamente: “tappo”) può significare “boccone” (“duro boccone”), e anche “fastidio, incomodo, rottura”. Rusga significa “litigio” e anche “rissa”.
[2] L'espressione usata da José Afonso è quella tradizionale dei re portoghesi, che regnavano anche sulle terre d'Oltremare. Per questo motivo, essendo un'espressione storica fissata dall'uso, mantiene un'ortografia arcaica. Il suo uso ha un valore più immediato e potente per un portoghese: figure considerate squallide, come un Salazar o un Caetano, si considerano come gli antichi re dei tempi delle “scoperte” coloniali e dei possedimenti cinquecenteschi, al pari dei grandi che furono cantati da Camões nei “Lusiadi”. Nella retorica nazionalista e colonialista del regime, il riferimento continuo alla “grandezza passata” era all'ordine del giorno in un paese ridotto alla povertà e all'emigrazione di massa, nonché dissanguato dalle guerre coloniali africane; ma è caratteristica di ogni regime fascista e autoritario (si veda sì la “grandezza di Roma” mussoliniana, senza scordare che un Ivan il Terribile faceva parte anche della retorica sovietica).
[3] La parola utilizzata, zarpar, significa propriamente “salpare”, “mettersi in navigazione”. Popolarmente utilizzato nel significato di “partire” (anche non per mare), “fuggire”, “squagliarsela”. Ma senz'altro José Afonso desiderava che “salpassero”, cosa che avvenne effettivamente all'indomani del 25 aprile 1974 (il presidente Américo Thomaz e il primo ministro Marcelo Caetano furono spediti rapidamente in Brasile, sia pure in aereo). Per la cronaca, Marcelo Caetano morì in esilio, a Rio de Janeiro il 26 ottobre 1980. Américo Thomaz poté invece rientrare in Portogallo, sia pure destituito da tutti i suoi gradi militari e privo della pensione militare. Morì 93 enne a Cascais il 18 settembre 1987, pochi mesi dopo José Afonso (che, però, di anni ne aveva solo 58).
[4] Qui la traduzione è piuttosto “ad sensum”: José Afonso, nel testo, utilizza un linguaggio metaforico e assai più popolaresco. Bucha (propriamente: “tappo”) può significare “boccone” (“duro boccone”), e anche “fastidio, incomodo, rottura”. Rusga significa “litigio” e anche “rissa”.
Ciao Ricardo, la tua traduzione, l'introduzione e l'apparato di note, insomma, la cura che hai messo nel precisare questa pagina mi obbliga a proporre una formattazione migliore del testo, rivista all'ascolto (che purtroppo spesso mi è precluso quando contribuisco).
Vorrei anche ricordare che le voci che accompagnano José Afonso sono quella di José Mário Branco e soprattutto quella sorprendente di Jeanine Marcelle Duparcq de Waleyne (1921-1987), cantante e corista che ha accompagnato pressochè tutti i grandi artisti, francesi e non, che hanno registrato in Francia tra la metà degli anni 50 e la fine dei 70. Jeanine de Waleyne era anche un' “ondista”, cioè una virtuosa di uno strumento molto raro, l'Onde Martenot, una tastiera analogica monofonica inventata nel 1928 da Maurice Martenot, radiotelegrafista e violoncellista, come evoluzione dell'eterofono del russo Leon Theremin.
[...]
Vorrei anche ricordare che le voci che accompagnano José Afonso sono quella di José Mário Branco e soprattutto quella sorprendente di Jeanine Marcelle Duparcq de Waleyne (1921-1987), cantante e corista che ha accompagnato pressochè tutti i grandi artisti, francesi e non, che hanno registrato in Francia tra la metà degli anni 50 e la fine dei 70. Jeanine de Waleyne era anche un' “ondista”, cioè una virtuosa di uno strumento molto raro, l'Onde Martenot, una tastiera analogica monofonica inventata nel 1928 da Maurice Martenot, radiotelegrafista e violoncellista, come evoluzione dell'eterofono del russo Leon Theremin.
[...]
B.B. - 2017/10/29 - 14:26
Grazie a te BB, ed anche per aver "ridisposto" il testo nella sua corretta scansione. A volte non è una cosa di poco conto, anzi: in questo caso la diversa scansione mi ha obbligato anche a rivedere in qualche punto la traduzione.
Un altro paio di parole. Curioso che assieme a José Mário Branco, assieme a José Afonso canti una corista perché la Maria Antonieta, vale a dire colei che scrupolosamente denunciò "Venham mais cinco" alla censura di regime, di mestiere faceva proprio la corista (faceva parte del coro femminile della Radiotelevisione di stato portoghese). Per squisita coincidenza, anche lei faceva poi "Branco" di cognome (esattamente: Maria Antonieta Rodrigues Branco); ma non è certo una cosa straordinaria, "Branco" (= "bianco") è un cognome comunissimo in Portogallo. Così tanto per completezza storica, la si può ascoltare qua sotto in una sua registrazione del 1954 per le prove tecniche televisive (la TV portoghese cominciò a trasmettere esattamente lo stesso anno della RAI italiana):
La tua menzione delle Ondes Martenot mi ha fatto molto piacere, anche se ovviamente non c'entra niente né con questa canzone, né con José Afonso. E' che in questo sito delle Ondes Martenot ce le abbiamo già. Era uno (stupefacente) gruppo toscano di costa, viareggino, che ho avuto modo di conoscere. Ricordare quel gruppo in una pagina dedicata a José Afonso è parecchio...ardito, ma mi fa davvero piacere.
Tornando in ultimo a José Afonso, va ricordato a mio parere anche che, nel carcere di Caxias dove era stato rinchiuso dopo il sequestro di "Venham mais cinco", scrisse, nell'aprile del 1973 (un anno esatto prima della rivoluzione) l'ostica e bellissima Era um redondo vocábulo, che in seguito fu inserita proprio nell'album "Venham mais cinco". Sicuramente doveva farne parte. E' stata definita la più bella poesia in musica del '900 portoghese.
Nel ringraziarti ancora, BB, però devo pur sempre ottemperare al mio alter-ego iperpignolo e filologicamente strapalloso. Ti ho corretto quindi "Theremim" in "Theremin" e ti specifico che, in portoghese, si dice "muito obrigado", non "muy". Saluti cari :-)
Un altro paio di parole. Curioso che assieme a José Mário Branco, assieme a José Afonso canti una corista perché la Maria Antonieta, vale a dire colei che scrupolosamente denunciò "Venham mais cinco" alla censura di regime, di mestiere faceva proprio la corista (faceva parte del coro femminile della Radiotelevisione di stato portoghese). Per squisita coincidenza, anche lei faceva poi "Branco" di cognome (esattamente: Maria Antonieta Rodrigues Branco); ma non è certo una cosa straordinaria, "Branco" (= "bianco") è un cognome comunissimo in Portogallo. Così tanto per completezza storica, la si può ascoltare qua sotto in una sua registrazione del 1954 per le prove tecniche televisive (la TV portoghese cominciò a trasmettere esattamente lo stesso anno della RAI italiana):
La tua menzione delle Ondes Martenot mi ha fatto molto piacere, anche se ovviamente non c'entra niente né con questa canzone, né con José Afonso. E' che in questo sito delle Ondes Martenot ce le abbiamo già. Era uno (stupefacente) gruppo toscano di costa, viareggino, che ho avuto modo di conoscere. Ricordare quel gruppo in una pagina dedicata a José Afonso è parecchio...ardito, ma mi fa davvero piacere.
Tornando in ultimo a José Afonso, va ricordato a mio parere anche che, nel carcere di Caxias dove era stato rinchiuso dopo il sequestro di "Venham mais cinco", scrisse, nell'aprile del 1973 (un anno esatto prima della rivoluzione) l'ostica e bellissima Era um redondo vocábulo, che in seguito fu inserita proprio nell'album "Venham mais cinco". Sicuramente doveva farne parte. E' stata definita la più bella poesia in musica del '900 portoghese.
Nel ringraziarti ancora, BB, però devo pur sempre ottemperare al mio alter-ego iperpignolo e filologicamente strapalloso. Ti ho corretto quindi "Theremim" in "Theremin" e ti specifico che, in portoghese, si dice "muito obrigado", non "muy". Saluti cari :-)
Riccardo Venturi - 2017/10/29 - 17:18
Grazie Ricardito!
Maldição, son miseramente caduto sul muito... E dire che ce lo sapevo! Così ti ho ringraziato in portognolo, o in spagnoghese, che dir si voglia...
Maperò il link all'Ondes Martenot non porta a nulla...
Saluzzi
Maldição, son miseramente caduto sul muito... E dire che ce lo sapevo! Così ti ho ringraziato in portognolo, o in spagnoghese, che dir si voglia...
Maperò il link all'Ondes Martenot non porta a nulla...
Saluzzi
B.B. - 2017/10/29 - 19:01
E t'avèi ragione: ora credo di aver ripristinato il link corretto alle Ondes Martenot viareggine. Però ti devo in un certo qual modo consolare: la forma mui, anche se scritta con la "i" finale e non con la "y", esisteva in portoghese. Ma ora è un arcaismo terrificante, sebbene usato a volte scherzosamente. NB: ora che ci penso, nei testi medievali e rinascimentali, non di rado la si vedeva scritta "muy" anche in portoghese; insomma, forse sei stato obsoleto e arcaico, ma in fondo non hai sbagliato. In portoghese moderno però si dice solo muito, e, chissà perché, lo si deve pronunciare nasalizzato, tipo mùintu. Salud!
Riccardo Venturi - 2017/10/29 - 19:36
×
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[1973]
Parole e musica di José Afonso, con l’arrangiamento musicale di José Mário Branco
La traccia che dà il titolo a questo album inciso a Parigi nell’ottobre del 1973.
Il disco fu denunciato alla commissione di censura da tal Maria Antonieta, una cantante oggi dimenticata che all’epoca era un pezzo grosso della radiotelevisione nazionale. Ciò valse il sequestro da parte della PIDE di tutte le copie dell’album.
Quell’anno stesso, tra aprile e maggio, José Afonso fu detenuto nel Forte-prisão de Caxias a Lisbona.
Esta canção faz apelos à unidade, pois era necessária para lutar contra os males provocados pelo regime e para derrubar o regime que deveria «embalar a trouxa e zarpar».
No poema, o vocábulo vinho simboliza a transformação, pois o sumo da uva tem o poder misterioso de se transformar e de transformar aqueles que o bebem, em algo mais potente.
O número cinco anda associado, entre outras coisas, à análise, à crítica, à força, à integração, ao crescimento orgânico e ao coração. Neste aspecto, é sinal de união, de harmonia e de equilíbrio e um convite à confraternização (dá cá mais cinco).
Nos versos: «De uma assentada que eu...»; «o que eu levantei», nota-se que, em princípio, aquele que diz “eu” não tem nome, mas, de facto, torna-se imediatamente um nome activo. “Eu” deixa de ser um pronome, torna-se num nome, o melhor dos nomes. Dizer “eu” é, infalivelmente, atribuir-se significados, como objecto de um destino, de uma acção concreta e real.
Nos versos do poema: «se o velho estica», «dá-lhe um apito; «tem má pinta», «crê que é rei...», o pronome pessoal ele aponta, mas não revela.
Há até um nítida oposição entre o eu e o ele que provoca o desejo de mudança e a afronta.
O convite à confraternização, à união e à luta conjunta pelo mesmo ideal está sintetizado na expressão Venham mais cinco. Esta luta pressupõe que outros se unam ao eu num mesmo desejo de libertação e com vinho o povo celebraria a vitória e festejaria.
As razões para a mudança são apresentadas: se o velho estica, se Salazar morre – alusão aos dois últimos anos de vida deste estadista, após a queda, em 1968, em que foi substituído por Marcelo Caetano. Salazar é comparado a um “velho” que “estica”, mas ainda acredita que é “rei d’aquém e d’além mar”, isto é, que ainda governa; se tem má pinta: se é austero, autoritário, gélido, duro e dirigista; dá-lhe um apito e põe-no a andar: livra-te dele e destitui-o do poder; de espada à cinta: apoderou-se do poder; é a imagem personificada do poder; crê que é rei d’aquém e d’além mar: é o senhor de Portugal e das colónias (política que insistiu em manter, apesar de nela terem morrido cerca de 8 000 portugueses, para além dos muitos que ficaram feridos, física e psicologicamente); na minha terra quem trepa no coqueiro é o rei: coqueiro simboliza o poder, alto, de onde se avista a terra, o país, e o rei é o ditador que trepa no poder e avista tudo à sua frente; já é tempo de embalar a trouxa e zarpar: já é tempo de se pôr a andar, pois está há muito tempo a governar o país.
A prefiguração da mudança torna-se visível nos seguintes vocábulos: gritar, que traduz a ânsia de liberdade e de clamar vitória; tiririri: o som dos apitos a festejar a vitória; a gente ajuda: sentido de unidade na luta; havemos de ser mais: o descontentamento aumenta.
No fundo, a tarefa era difícil (A bucha é dura), mas mais importante era a razão de ser dessa luta (Mais dura é a razão que a sustém) e nessa luta (rusga) não haveria lugar para os que defendiam o regime (os filhos da mãe).
Albano Viseu, A Simbologia das Palavras e a revolução silenciosa: os sentidos implícitos nas canções de Zeca Afonso