C’était un mort de mort violente
Un mort trouvé dans un fossé
Quelqu’un qu’on n’avait pas osé
Recouvrir aussitôt de cendre
Et que le ciel avait caché
De le voir si jeune et si pâle
Et si calmement endormi
Dans la mort on avait envie
De mourir d’un amour semblable
Pour mieux revivre auprès de lui
Il portait à son côté gauche
Une étoile qui fut son cœur
Et son beau sang qui faisait peur
Avait coulé jusqu’à sa poche
La gonflant comme un autre cœur
Aimé ses mains gardaient la trace
De son amour et de ses fers
Sa pauvre bouche de travers
Souriait encore sous la grimace
Qu’en mourant il avait dû faire
ll sortait d’un pays d’enfance
Couvert de flammes et d’oiseaux
Un pays qui montait si haut
Qu’il l’avait appelé la France
Et le serrait contre sa peau
Ce n'était pas un patriote
Mais un enfant du premier jour
Qui chantait à tue-tête pour
Dominer le bruit sourd des bottes
Qui effarouchait son amour
Il chantait la fenêtre ouverte
Et si loin portait sa chanson
Qu’on l'entendit dans les prisons
Où sur des murs blancs de salpêtre
Des hommes reposaient leur front
Elle passa dans les campagnes
Suivit la route des laitiers
Devant la porte des chantiers
Elle alluma des feux capables
De réchauffer le monde entier
Lui chantait comme on chante à l’âge
De l’espérance et sans savoir
Que sa chanson devait avoir
Sur tous les hommes de son âge
Le plus merveilleux des pouvoirs
ll voyait au-dessus des villes
Un grand soleil s’eterniser
Et les villages s'embraser
Comme une joue de jeune fille
Au premier regard extasié
Mais par un matin de décembre
Avec des morts sur les trottoirs
On l’emmena au fond du noir
Sans qu’il pût refermer la chambre
Où dormait encor son espoir
S’il vécut alors c’est par crainte
De n’avoir pas assez donné
Son cœur et ses mains sans compter
À tous ces amis dont les plaintes
Le tenaient la nuit éveillé
Il trouva des forces nouvelles
Pour s’enfuir et promit à ceux
Qu’il aimait de songer à eux
Et de leur ramener la Belle
À laquelle ils faisaient doux yeux
Hélas la Belle la très Grande
Celle qu’on nomme Liberté
Il l’a connue dans un fossé
Et c’est un mort de mort violente
Qui s’achemine dans l’été.
Un mort trouvé dans un fossé
Quelqu’un qu’on n’avait pas osé
Recouvrir aussitôt de cendre
Et que le ciel avait caché
De le voir si jeune et si pâle
Et si calmement endormi
Dans la mort on avait envie
De mourir d’un amour semblable
Pour mieux revivre auprès de lui
Il portait à son côté gauche
Une étoile qui fut son cœur
Et son beau sang qui faisait peur
Avait coulé jusqu’à sa poche
La gonflant comme un autre cœur
Aimé ses mains gardaient la trace
De son amour et de ses fers
Sa pauvre bouche de travers
Souriait encore sous la grimace
Qu’en mourant il avait dû faire
ll sortait d’un pays d’enfance
Couvert de flammes et d’oiseaux
Un pays qui montait si haut
Qu’il l’avait appelé la France
Et le serrait contre sa peau
Ce n'était pas un patriote
Mais un enfant du premier jour
Qui chantait à tue-tête pour
Dominer le bruit sourd des bottes
Qui effarouchait son amour
Il chantait la fenêtre ouverte
Et si loin portait sa chanson
Qu’on l'entendit dans les prisons
Où sur des murs blancs de salpêtre
Des hommes reposaient leur front
Elle passa dans les campagnes
Suivit la route des laitiers
Devant la porte des chantiers
Elle alluma des feux capables
De réchauffer le monde entier
Lui chantait comme on chante à l’âge
De l’espérance et sans savoir
Que sa chanson devait avoir
Sur tous les hommes de son âge
Le plus merveilleux des pouvoirs
ll voyait au-dessus des villes
Un grand soleil s’eterniser
Et les villages s'embraser
Comme une joue de jeune fille
Au premier regard extasié
Mais par un matin de décembre
Avec des morts sur les trottoirs
On l’emmena au fond du noir
Sans qu’il pût refermer la chambre
Où dormait encor son espoir
S’il vécut alors c’est par crainte
De n’avoir pas assez donné
Son cœur et ses mains sans compter
À tous ces amis dont les plaintes
Le tenaient la nuit éveillé
Il trouva des forces nouvelles
Pour s’enfuir et promit à ceux
Qu’il aimait de songer à eux
Et de leur ramener la Belle
À laquelle ils faisaient doux yeux
Hélas la Belle la très Grande
Celle qu’on nomme Liberté
Il l’a connue dans un fossé
Et c’est un mort de mort violente
Qui s’achemine dans l’été.
envoyé par Bernart Bartleby - 21/6/2017 - 23:04
Langue: italien
Traduzione italiana a quattro mani di Bernart Bartleby e Flavio Poltronieri.
BB ha fatto una prima traduzione (sommaria, faticosa per lui, che il francese lo mastica solo) e FP l'ha resa bella (e ha ricordato che, in ogni caso, tradurre è sempre tradire).
BB ha fatto una prima traduzione (sommaria, faticosa per lui, che il francese lo mastica solo) e FP l'ha resa bella (e ha ricordato che, in ogni caso, tradurre è sempre tradire).
CANZONE DELLA MORTE VIOLENTA
Era un morto ammazzato
Un morto trovato in un fossato
Uno a cui nessuno aveva osato
Dare subito sepoltura
E che il cielo aveva celato
A vederlo così giovane e pallido
E così tranquillamente addormentato
Nella morte, faceva venir voglia
Di morire di un simile amore
Per risvegliarsi un giorno accanto a lui
Portava sul lato sinistro
Una stella che fu il suo cuore
E faceva paura quel suo sangue
Colato giù fin nella tasca
A gonfiarla quasi fosse un altro cuore
Fu amato e le sue mani portano la traccia
Del suo amore e dei suoi ferri
La sua povera bocca storta
Sorrideva ancora sotto la smorfia
Che morendo aveva dovuto fare
Usciva dal suo paese d'infanzia
Coperto di fiamme e d'uccelli
Un paese che saliva così in alto
Che lui l'aveva chiamato la Francia
E lo teneva stretto sulla pelle
Non era quel che si dice un patriota
Ma un ragazzo che s'affacciava alla vita
Che cantava a squarciagola per
Coprire il rumore sordo degli stivali
Che spaventavano il suo amore
Cantava con la finestra aperta
E la sua canzone arrivava così lontano
Che la sentivavo nelle prigioni
Dove su pareti bianche di salnitro
Degli uomini riposavano la fronte
Il canto attraversava le campagne
Seguiva la strada dei lattai
E davanti alla porta delle fabbriche
Accendeva dei fuochi capaci
Di riscaldare il mondo intero
Cantava come si canta nella stagione
Della speranza, senza sapere
Che la sua canzone doveva avere
Su tutti gli uomini di quell'età
Il più meraviglioso dei poteri
Quel che vedeva sopra le città
Era un grande, eterno sole
E i villaggi che s'infiammavano
Come le guance di una ragazza
Al primo sguardo d'estasi
Ma in una mattina di dicembre
Dei morti sui marciapiedi
Lo trascinarono al fondo del buio
Senza che potesse richiudere la camera
Dove ancora dormiva la sua speranza
E da allora visse nella paura
Di non aver donato abbastanza
Il suo cuore e le sue mani, senza contare
Tutti quegli amici i cui lamenti
Lo tenevano sveglio la notte
Trovò ancora nuove forze
Per scappare, promettendo a quelli
Che amava di pensarli sempre
E di riportar loro quella Bella
Da cui vennero sedotti
Ahimè, la Bella, l'Immensa
Colei che vien chiamata Libertà
Lui l'ha conosciuta solo in un fossato
Ed è un morto ammazzato
Che s'incammina nell'estate.
Era un morto ammazzato
Un morto trovato in un fossato
Uno a cui nessuno aveva osato
Dare subito sepoltura
E che il cielo aveva celato
A vederlo così giovane e pallido
E così tranquillamente addormentato
Nella morte, faceva venir voglia
Di morire di un simile amore
Per risvegliarsi un giorno accanto a lui
Portava sul lato sinistro
Una stella che fu il suo cuore
E faceva paura quel suo sangue
Colato giù fin nella tasca
A gonfiarla quasi fosse un altro cuore
Fu amato e le sue mani portano la traccia
Del suo amore e dei suoi ferri
La sua povera bocca storta
Sorrideva ancora sotto la smorfia
Che morendo aveva dovuto fare
Usciva dal suo paese d'infanzia
Coperto di fiamme e d'uccelli
Un paese che saliva così in alto
Che lui l'aveva chiamato la Francia
E lo teneva stretto sulla pelle
Non era quel che si dice un patriota
Ma un ragazzo che s'affacciava alla vita
Che cantava a squarciagola per
Coprire il rumore sordo degli stivali
Che spaventavano il suo amore
Cantava con la finestra aperta
E la sua canzone arrivava così lontano
Che la sentivavo nelle prigioni
Dove su pareti bianche di salnitro
Degli uomini riposavano la fronte
Il canto attraversava le campagne
Seguiva la strada dei lattai
E davanti alla porta delle fabbriche
Accendeva dei fuochi capaci
Di riscaldare il mondo intero
Cantava come si canta nella stagione
Della speranza, senza sapere
Che la sua canzone doveva avere
Su tutti gli uomini di quell'età
Il più meraviglioso dei poteri
Quel che vedeva sopra le città
Era un grande, eterno sole
E i villaggi che s'infiammavano
Come le guance di una ragazza
Al primo sguardo d'estasi
Ma in una mattina di dicembre
Dei morti sui marciapiedi
Lo trascinarono al fondo del buio
Senza che potesse richiudere la camera
Dove ancora dormiva la sua speranza
E da allora visse nella paura
Di non aver donato abbastanza
Il suo cuore e le sue mani, senza contare
Tutti quegli amici i cui lamenti
Lo tenevano sveglio la notte
Trovò ancora nuove forze
Per scappare, promettendo a quelli
Che amava di pensarli sempre
E di riportar loro quella Bella
Da cui vennero sedotti
Ahimè, la Bella, l'Immensa
Colei che vien chiamata Libertà
Lui l'ha conosciuta solo in un fossato
Ed è un morto ammazzato
Che s'incammina nell'estate.
envoyé par Bernart Bartleby & Flavio Poltronieri - 28/6/2017 - 13:47
Un ringraziamento a te, caro Bernart, per aver raccolto l'invito.
René Guy Cadou morì il Venerdì Santo del 1951. Era nato da due maestri, il 15 febbraio del 1920 a Sainte-Reine-de-Bretagne, il poeta amico del barilaio, del postino, del guardaboschi e del contrabbandiere. Era nato direttamente dentro la scuola e l'indomani il padre lo presentò agli allievi della sua classe. E' per questo che Gilles Servat sulla copertina del suo disco-tributo si siede dietro la cattedra e fa cantare al coro dei bambini della Scuola di Marsanderie di Nantes: “Sainte-Reine-de-Bretagne, en Brière dove sono nato, a ricordare si guadagna una felicità che dura per anni!” Ma se si vuole, si può incontrarlo ancora nella campagna di Louisfert, il suo villaggio d'adozione, nei segni misteriosi e nelle eco tremule della sua poetica fraterna. René, bambino presto orfano, ereditò, secondo un'usanza antica, anche il nome del suo fratellino Guy in precedenza morto precocemente e incontrò Hélène, l'amore della sua vita, anch'essa come lui, poetessa e figlia di due insegnanti di Nantes, il 17 giugno 1943 : "Tutto il giorno vedevo blù" diceva e scrisse: “...puoi riprendere alla notte il bottino di fiori neri già sparsi sul mio petto...” Istitutore supplente, vagabondo dipartimentale, insegnò in parecchi villaggi della Loira Atlantica, da Brière a Clisson e nel 1946 ottenne un "posto fisso" appunto a Louisfert, professore rurale in questo villaggio di seicento abitanti nella campagna, vicino a Châteaubriant, che amò profondamente come si avverte ascoltandolo attraverso la voce di Morice Benin “...io vado, non so niente della mia vita ma vado, alla fine di tutto, senza preoccuparmi del tempo che fa, le genti di oggi assomigliano alle orchidee, faccia buffa e mani incatenate, ma io amo questo villaggio murato da foreste e i suoi vecchi che assomigliano ai vasi di gres. Ho scelto il mio paese distante dalla città per i suoi nidi sotto i tetti e i suoi rampicanti...”
Scarsamente interessato alle miserie amministrative, tutta la sua "vera vita fu altrove", consacrata alla scrittura. Ogni sera, terminate le lezioni, non andava alla Brasserie Lipp o al Deux Magots, ma preferiva rimanere per ore e ore nel suo ufficio a scrivere, forse inconsapevolmente cosciente che gli sarebbe purtroppo stata concessa una breve vita. Quando aveva vent'anni, corrispondeva con Max Jacob e con Pierre Reverdy che gli diceva: "Quando la sostanza dell'amore è densa abbastanza; quando l'amicizia pianta le unghie nell'assenza, non cambia nulla, nulla si flette". Non aveva ancora ventidue anni quando, alla scuola poetica di Rochefort-sur-Loire, fu compagno di Marcel Bélau, Lucien Becker, Jean Bouhier, Luc Bérimont, Jean Follain, Michel Manoll, Jean Rousselot. E non ne aveva ancora venticinque anni quando scriveva: "Notte nera, si cammina nel vento del sale e nella nebbia". Io, Flavio Poltronieri, credo fermamente che anche una pietra si dovrà emozionare ad ascoltare Marc Robine cantare con l'anima sulle labbra, i versi disperati del suo Testamento: “Nel tempo della mia vita, vi ho dato tutto, sulle mie mani, sul mio sangue io vi ho camminato. Per farvi piacere ho dovuto sollevarmi dal mondo, allontanare i miei polmoni da cripte di fumo……pochi anni sono stati sufficienti per velare il mio sguardo, impallidii, divenni vecchio, il mio cuore ha fatto la sua parte...cosa volete da me, ora che non ho più per salutare, neppure la grazia dei cavallini?……Nel circo delle parole ho fatto troppi volteggi, troppi uccelli sono venuti a posarsi sul mio gambo, non posso fare niente per voi, nemmeno presentarvi alla luce, al vento, all'ultimo chilometro.”
Ora riposa al cimitero di Bouteillerie di Nantes nel quartier Malakoff-Saint-Donatien.
Kenavo, barzh.
Flav Kadorvrec'her
René Guy Cadou morì il Venerdì Santo del 1951. Era nato da due maestri, il 15 febbraio del 1920 a Sainte-Reine-de-Bretagne, il poeta amico del barilaio, del postino, del guardaboschi e del contrabbandiere. Era nato direttamente dentro la scuola e l'indomani il padre lo presentò agli allievi della sua classe. E' per questo che Gilles Servat sulla copertina del suo disco-tributo si siede dietro la cattedra e fa cantare al coro dei bambini della Scuola di Marsanderie di Nantes: “Sainte-Reine-de-Bretagne, en Brière dove sono nato, a ricordare si guadagna una felicità che dura per anni!” Ma se si vuole, si può incontrarlo ancora nella campagna di Louisfert, il suo villaggio d'adozione, nei segni misteriosi e nelle eco tremule della sua poetica fraterna. René, bambino presto orfano, ereditò, secondo un'usanza antica, anche il nome del suo fratellino Guy in precedenza morto precocemente e incontrò Hélène, l'amore della sua vita, anch'essa come lui, poetessa e figlia di due insegnanti di Nantes, il 17 giugno 1943 : "Tutto il giorno vedevo blù" diceva e scrisse: “...puoi riprendere alla notte il bottino di fiori neri già sparsi sul mio petto...” Istitutore supplente, vagabondo dipartimentale, insegnò in parecchi villaggi della Loira Atlantica, da Brière a Clisson e nel 1946 ottenne un "posto fisso" appunto a Louisfert, professore rurale in questo villaggio di seicento abitanti nella campagna, vicino a Châteaubriant, che amò profondamente come si avverte ascoltandolo attraverso la voce di Morice Benin “...io vado, non so niente della mia vita ma vado, alla fine di tutto, senza preoccuparmi del tempo che fa, le genti di oggi assomigliano alle orchidee, faccia buffa e mani incatenate, ma io amo questo villaggio murato da foreste e i suoi vecchi che assomigliano ai vasi di gres. Ho scelto il mio paese distante dalla città per i suoi nidi sotto i tetti e i suoi rampicanti...”
Scarsamente interessato alle miserie amministrative, tutta la sua "vera vita fu altrove", consacrata alla scrittura. Ogni sera, terminate le lezioni, non andava alla Brasserie Lipp o al Deux Magots, ma preferiva rimanere per ore e ore nel suo ufficio a scrivere, forse inconsapevolmente cosciente che gli sarebbe purtroppo stata concessa una breve vita. Quando aveva vent'anni, corrispondeva con Max Jacob e con Pierre Reverdy che gli diceva: "Quando la sostanza dell'amore è densa abbastanza; quando l'amicizia pianta le unghie nell'assenza, non cambia nulla, nulla si flette". Non aveva ancora ventidue anni quando, alla scuola poetica di Rochefort-sur-Loire, fu compagno di Marcel Bélau, Lucien Becker, Jean Bouhier, Luc Bérimont, Jean Follain, Michel Manoll, Jean Rousselot. E non ne aveva ancora venticinque anni quando scriveva: "Notte nera, si cammina nel vento del sale e nella nebbia". Io, Flavio Poltronieri, credo fermamente che anche una pietra si dovrà emozionare ad ascoltare Marc Robine cantare con l'anima sulle labbra, i versi disperati del suo Testamento: “Nel tempo della mia vita, vi ho dato tutto, sulle mie mani, sul mio sangue io vi ho camminato. Per farvi piacere ho dovuto sollevarmi dal mondo, allontanare i miei polmoni da cripte di fumo……pochi anni sono stati sufficienti per velare il mio sguardo, impallidii, divenni vecchio, il mio cuore ha fatto la sua parte...cosa volete da me, ora che non ho più per salutare, neppure la grazia dei cavallini?……Nel circo delle parole ho fatto troppi volteggi, troppi uccelli sono venuti a posarsi sul mio gambo, non posso fare niente per voi, nemmeno presentarvi alla luce, al vento, all'ultimo chilometro.”
Ora riposa al cimitero di Bouteillerie di Nantes nel quartier Malakoff-Saint-Donatien.
Kenavo, barzh.
Flav Kadorvrec'her
Flavio Poltronieri - 25/6/2017 - 17:13
Vedo nel primo verso della canzone: "C'était un mort de mon violente". Non avendo sottomano la fonte non posso dir nulla, ma non è che sarà "...un mort de mort violente"...?
Riccardo Venturi - 26/6/2017 - 00:43
Sì, certamente.
La fonte l'ho citata all'inizio dell'introduzione, ed è parzialmente disponibile su Google Books. Ho usato un programma OCR per trascriverla e poi ho ricontrollato il testo ma quel "mon" al posto di "mort" mi è sfuggito.
Spero non ce ne siano altri di errori.
Ricontrollo ancora provando a fare la traduzione, se mai mi risolverò a mettermici.
Ciao!
La fonte l'ho citata all'inizio dell'introduzione, ed è parzialmente disponibile su Google Books. Ho usato un programma OCR per trascriverla e poi ho ricontrollato il testo ma quel "mon" al posto di "mort" mi è sfuggito.
Spero non ce ne siano altri di errori.
Ricontrollo ancora provando a fare la traduzione, se mai mi risolverò a mettermici.
Ciao!
B.B. - 26/6/2017 - 13:34
Naturalmente non rivendico nessun diritto alla prima traduzione italiana. Se qualcun altro di voi, meno pavido e più avvezzo al francese, la vuole fare lui, io mica mi offendo, neh!?!
B.B. - 26/6/2017 - 13:40
Vorrei ancora aggiungere che questa poesia mi pare possa essere stata fonte d'ispirazione a Boris Vian per la sua Juste le temps de vivre (L'évadé). Comunque Vian e Cadou mostrano una sensibilità molto simile.
B.B. - 28/6/2017 - 13:51
×
Versi di René Guy Cadou
Originariamente nella raccolta “Pleine poitrine” pubblicata nel 1946.
Testo trovato nella raccolta “Poésie la vie entière: Oeuvres poétiques complètes” pubblicata nel 1976 (riedita nel 2001).
Si tratta di una chanson, e già questo basterebbe. La trovo comunque messa in musica da Robert Duguet, militante anticapitalista, autore del “La cinquième saison”, progetto musicale in due album dedicato alla poesia di René Guy Cadou.
Inoltre Marc Ogeret, nel suo album “Imagine” del 1976 e in quello del 1990 intitolato “Chante la résistance” attribuisce la musica del brano allo stesso Cadou.
Interpretata anche da Véronique Vella in un suo disco del 1997, pure questo interamente dedicato a Cadou.
“Non era un patriota, ma un ragazzo appena affacciato alla vita che cantava a squarciagola per coprire quel rumore sordo di stivali che spaventava il suo amore”
Semplicemente bellissima.
Un ringraziamento a Flavio Poltronieri che mi ha stimolato a cercare altre poesie di Cadou da proporre sulle CCG/AWS.