Ленинград (Я вернулся в мой город, знакомый до слез)
Osip Ämilevič Mandelštam / Осип Эмильевич МандельштамLangue: russe
Я вернулся в мой город, знакомый до слез, (1)
До прожилок, до детских припухлых желез. (2)
Ты вернулся сюда, так глотай же скорей
Рыбий жир ленинградских речных фонарей, (3)
Узнавай же скорее декабрьский денек,
Где к зловещему дегтю подмешан желток. (4)
Петербург! я еще не хочу умирать!
У тебя телефонов моих номера. (5)
Петербург! У меня еще есть адреса,
По которым найду мертвецов голоса. (6)
Я на лестнице черной живу, и в висок
Ударяет мне вырванный с мясом звонок, (7)
И всю ночь напролет жду гостей дорогих,
Шевеля кандалами цепочек дверных. (8)
До прожилок, до детских припухлых желез. (2)
Ты вернулся сюда, так глотай же скорей
Рыбий жир ленинградских речных фонарей, (3)
Узнавай же скорее декабрьский денек,
Где к зловещему дегтю подмешан желток. (4)
Петербург! я еще не хочу умирать!
У тебя телефонов моих номера. (5)
Петербург! У меня еще есть адреса,
По которым найду мертвецов голоса. (6)
Я на лестнице черной живу, и в висок
Ударяет мне вырванный с мясом звонок, (7)
И всю ночь напролет жду гостей дорогих,
Шевеля кандалами цепочек дверных. (8)
(1) Sono tornato nella mia città, fino alle lacrime ben nota
I versi dedicati a Leningrado (in alcune edizioni questo è il titolo della poesia) furono composti nel dicembre 1930 , subito dopo il rientro in città da un soggiorno nel sud della Russia (Caucaso e Armenia) dopo una ingiuriosa accusa di plagio nel 1929 che segnò l’inizio della sua definitiva condanna politica da parte del regime. I versi ebbero subito larga diffusione manoscritta, acquistando una fortuna destinata a durare (in italiano esistono almeno tre diverse traduzioni). Il componimento venne pubblicato ufficialmente nel novembre del 1932 sulla “Literaturnaja gazeta”, senza tagli o modifiche. È stato ipotizzato che in questo atto si celasse la volontà di rovinare definitivamente il poeta.
(2) Fino alle vene, alle ghiandole gonfie di bambino.
La città è corpo e memoria del poeta che lì ha trascorso l’infanzia e lì ha i suoi amici più cari. La città è al tempo stesso corpo e memoria del presente che patisce con il poeta e i suoi amici gli oltraggi e le violazioni.
(3) Sei tornato fin qui e veloce adesso trangugia
Olio di pesce ai lampioni sull’acqua a Leningrado.
Cambia il soggetto e la voce lirica si sposta dalla prima alla terza persona. Si spostano i piani della parola fra il poeta dell’esordio e un suo interlocutore (la città? L’amico? Se stesso?). “La mia città” del primo distico si riduce ai lampioni leningradesi, aggettivo usato nell’originale che esprime il nome estraneo della metropoli dal volto sovietico, città ufficiale e crudele. Mandel’štam procede attraverso una visione ‘architettonica’ della realtà e ferma lo sguardo e la parola su porzioni precise della città che richiamano memorie di infanzia (l’olio che alimenta i lampioni richiama l’olio di fegato di merluzzo che si collega al medicamento che i bambini bevono quando hanno le ghiandole gonfie dell’infanzia, strade di Pietroburgo e strade della vita del poeta. Il poeta è tornato e deve affrettarsi a bere la sua vita trascorsa, i suoi ricordi, in un tono che presagisce con un crescendo di immagini, nella lirica, le sventure future.
(4) Riconosci, veloce, dicembre, la corta giornata invernale,
Dove a lugubre pece si mescola luce di tuorlo.
A parlare è sempre un interlocutore rivolto al poeta. L’incanto delle notti bianche che tanta parte ha avuto nell’immaginario letterario russo, contribuendo a creare il fascino misterioso e ammaliante della Palmira del Nord è colto nel suo versante opposto: le corte giornate invernali che oscurano la città fin dalle prime ore della “corta giornata”. L’oscurità è lugubre (anticipa l’idea della morte che seguirà nel verso successivo), rischiarata dalla luce dei lampioni, offerta attraverso un’immagine domestica, familiare, del giallo d’uovo (forse un altro rimando all’infanzia).
(5) Pietroburgo, ancora non voglio morire:
Tu conservi i telefoni, i numeri miei.
I presagi funesti e il senso di isolamento ed esclusione occupano il centro della scena. Mente libera in una densa e fosca luce plumbea, il poeta torna a prendere la parola in prima persona, lanciando la sua invocazione alla città amata, apostrofata in questo distico con il nome caro dell’infanzia, come viene chiamata ancora nell’intimo, luogo dell’anima e degli affetti (la città fondata nel 1703 con il nome di Pietroburgo, si chiamerà Pietrogrado dal 1914 alla morte di Lenin nel 1924, da quel momento prenderà il nome di Leningrado, ma gli abitanti continueranno a usare il nome antico anche nel periodo sovietico, fino a quando, nel settembre del 1991 non riacquisterà il suo nome originario). La città è la memoria della vita affettiva del poeta, a lei affida il compito di far restare in vita i suoi affetti “i numeri”.
(6) Pietroburgo, io ho gli indirizzi, le case,
Le voci dei morti riuscirò a trovare.
È un distico aspro, denso di dolore. Il poeta non troverà risposta, le case sono vuote, gli amici scomparsi. Ma nonostante sappia che non ci sono più, telefonerà, per la forza dell’amore, dell’amicizia.
(7) Nella scala sul retro sono alloggiato, alle tempie
Colpisce il campanello a nudo strappato.
Dalle memorie della moglie e del fratello di Osip Emil’evič siamo informati che si tratta dell’alloggio del fratello Evgenij, minore di sette anni e padre di una bimba nata nel 1920 che amava e ricopiava i versi dello zio Osip, presso il quale il poeta era ospite. Non avendo posto nell’appartamento aveva sistemato il poeta in una stanza di servizio che affacciava sul retro. In questa dimora (situata sull’isola più grande del delta della Neva a Pietroburgo, all’indirizzo Vasil’evskij ostrov, linea 8, numero 31, interno 5) Mandel’štam ha composto questa poesia e una targa posta sul palazzo ricorda il suo soggiorno. A casa del fratello il campanello era stato strappato portando via un pezzo di muro (in russo letteralmente “con la carne”: Mandel’štam utilizza questa possibilità di senso della sua lingua per alludere alla violenza cruda del regime che si percepisce ovunque, capace di strappare la carne degli uomini).
(8) E tutta la notte in attesa, l’arrivo di ospiti cari,
Sfiorando i piccoli anelli della porta in catene.
Continua a parlare il poeta in prima persona e la sospensione angosciosa del tempo introdotta nel distico precedente dai colpi del campanello divelto alle tempie del poeta prosegue nella notte in attesa di cari ospiti che sembra alludere alle funeste visite notturne della polizia sovietica. In attesa, nella sospensione di un futuro incerto e colmo di presagi di sventura Mandel’štam sposta la catenella di chiusura della porta, che trasmuta nell’immagine delle catene del deportato.
A partire dall’autunno del 1930, dopo un inaridirsi quasi totale della vena poetica durato quasi cinque anni, Mandel’štam conosce un rifiorire dell’ispirazione, riprende a parlare con energia, come in questa poesia. I versi degli anni Trenta, tuttavia, nella gran parte vedranno la luce solo postumi. L’amore per la misura dell’umano permane, nello sguardo lirico di Mandel’štam, oltre la sofferenza reale, e nei componimenti degli ultimi, tragici anni, avrà ancora voce per osservare con distaccato coraggio la miseria che lo circonda, anch’essa parte del presente, “conficcando” le sue parole nella vita.
I versi dedicati a Leningrado (in alcune edizioni questo è il titolo della poesia) furono composti nel dicembre 1930 , subito dopo il rientro in città da un soggiorno nel sud della Russia (Caucaso e Armenia) dopo una ingiuriosa accusa di plagio nel 1929 che segnò l’inizio della sua definitiva condanna politica da parte del regime. I versi ebbero subito larga diffusione manoscritta, acquistando una fortuna destinata a durare (in italiano esistono almeno tre diverse traduzioni). Il componimento venne pubblicato ufficialmente nel novembre del 1932 sulla “Literaturnaja gazeta”, senza tagli o modifiche. È stato ipotizzato che in questo atto si celasse la volontà di rovinare definitivamente il poeta.
(2) Fino alle vene, alle ghiandole gonfie di bambino.
La città è corpo e memoria del poeta che lì ha trascorso l’infanzia e lì ha i suoi amici più cari. La città è al tempo stesso corpo e memoria del presente che patisce con il poeta e i suoi amici gli oltraggi e le violazioni.
(3) Sei tornato fin qui e veloce adesso trangugia
Olio di pesce ai lampioni sull’acqua a Leningrado.
Cambia il soggetto e la voce lirica si sposta dalla prima alla terza persona. Si spostano i piani della parola fra il poeta dell’esordio e un suo interlocutore (la città? L’amico? Se stesso?). “La mia città” del primo distico si riduce ai lampioni leningradesi, aggettivo usato nell’originale che esprime il nome estraneo della metropoli dal volto sovietico, città ufficiale e crudele. Mandel’štam procede attraverso una visione ‘architettonica’ della realtà e ferma lo sguardo e la parola su porzioni precise della città che richiamano memorie di infanzia (l’olio che alimenta i lampioni richiama l’olio di fegato di merluzzo che si collega al medicamento che i bambini bevono quando hanno le ghiandole gonfie dell’infanzia, strade di Pietroburgo e strade della vita del poeta. Il poeta è tornato e deve affrettarsi a bere la sua vita trascorsa, i suoi ricordi, in un tono che presagisce con un crescendo di immagini, nella lirica, le sventure future.
(4) Riconosci, veloce, dicembre, la corta giornata invernale,
Dove a lugubre pece si mescola luce di tuorlo.
A parlare è sempre un interlocutore rivolto al poeta. L’incanto delle notti bianche che tanta parte ha avuto nell’immaginario letterario russo, contribuendo a creare il fascino misterioso e ammaliante della Palmira del Nord è colto nel suo versante opposto: le corte giornate invernali che oscurano la città fin dalle prime ore della “corta giornata”. L’oscurità è lugubre (anticipa l’idea della morte che seguirà nel verso successivo), rischiarata dalla luce dei lampioni, offerta attraverso un’immagine domestica, familiare, del giallo d’uovo (forse un altro rimando all’infanzia).
(5) Pietroburgo, ancora non voglio morire:
Tu conservi i telefoni, i numeri miei.
I presagi funesti e il senso di isolamento ed esclusione occupano il centro della scena. Mente libera in una densa e fosca luce plumbea, il poeta torna a prendere la parola in prima persona, lanciando la sua invocazione alla città amata, apostrofata in questo distico con il nome caro dell’infanzia, come viene chiamata ancora nell’intimo, luogo dell’anima e degli affetti (la città fondata nel 1703 con il nome di Pietroburgo, si chiamerà Pietrogrado dal 1914 alla morte di Lenin nel 1924, da quel momento prenderà il nome di Leningrado, ma gli abitanti continueranno a usare il nome antico anche nel periodo sovietico, fino a quando, nel settembre del 1991 non riacquisterà il suo nome originario). La città è la memoria della vita affettiva del poeta, a lei affida il compito di far restare in vita i suoi affetti “i numeri”.
(6) Pietroburgo, io ho gli indirizzi, le case,
Le voci dei morti riuscirò a trovare.
È un distico aspro, denso di dolore. Il poeta non troverà risposta, le case sono vuote, gli amici scomparsi. Ma nonostante sappia che non ci sono più, telefonerà, per la forza dell’amore, dell’amicizia.
(7) Nella scala sul retro sono alloggiato, alle tempie
Colpisce il campanello a nudo strappato.
Dalle memorie della moglie e del fratello di Osip Emil’evič siamo informati che si tratta dell’alloggio del fratello Evgenij, minore di sette anni e padre di una bimba nata nel 1920 che amava e ricopiava i versi dello zio Osip, presso il quale il poeta era ospite. Non avendo posto nell’appartamento aveva sistemato il poeta in una stanza di servizio che affacciava sul retro. In questa dimora (situata sull’isola più grande del delta della Neva a Pietroburgo, all’indirizzo Vasil’evskij ostrov, linea 8, numero 31, interno 5) Mandel’štam ha composto questa poesia e una targa posta sul palazzo ricorda il suo soggiorno. A casa del fratello il campanello era stato strappato portando via un pezzo di muro (in russo letteralmente “con la carne”: Mandel’štam utilizza questa possibilità di senso della sua lingua per alludere alla violenza cruda del regime che si percepisce ovunque, capace di strappare la carne degli uomini).
(8) E tutta la notte in attesa, l’arrivo di ospiti cari,
Sfiorando i piccoli anelli della porta in catene.
Continua a parlare il poeta in prima persona e la sospensione angosciosa del tempo introdotta nel distico precedente dai colpi del campanello divelto alle tempie del poeta prosegue nella notte in attesa di cari ospiti che sembra alludere alle funeste visite notturne della polizia sovietica. In attesa, nella sospensione di un futuro incerto e colmo di presagi di sventura Mandel’štam sposta la catenella di chiusura della porta, che trasmuta nell’immagine delle catene del deportato.
A partire dall’autunno del 1930, dopo un inaridirsi quasi totale della vena poetica durato quasi cinque anni, Mandel’štam conosce un rifiorire dell’ispirazione, riprende a parlare con energia, come in questa poesia. I versi degli anni Trenta, tuttavia, nella gran parte vedranno la luce solo postumi. L’amore per la misura dell’umano permane, nello sguardo lirico di Mandel’štam, oltre la sofferenza reale, e nei componimenti degli ultimi, tragici anni, avrà ancora voce per osservare con distaccato coraggio la miseria che lo circonda, anch’essa parte del presente, “conficcando” le sue parole nella vita.
envoyé par Bernart Bartleby - 12/3/2017 - 14:42
Langue: italien
Traduzione italiana di Barbara Ronchetti, dal suo articolo su Limes citato nell'introduzione.
LENINGRADO (SONO TORNATO NELLA MIA CITTÀ, FINO ALLE LACRIME BEN NOTA)
Sono tornato nella mia città, fino alle lacrime ben nota,
Fino alle vene, alle ghiandole gonfie di bambino.
Sei tornato fin qui e veloce adesso trangugia
Olio di pesce ai lampioni sull’acqua a Leningrado.
Riconosci, veloce, dicembre, la corta giornata invernale,
Dove a lugubre pece si mescola luce di tuorlo.
Pietroburgo, ancora non voglio morire:
Tu conservi i telefoni, i numeri miei.
Pietroburgo, io ho gli indirizzi, le case,
Le voci dei morti riuscirò a trovare.
Nella scala sul retro sono alloggiato, alle tempie
Colpisce il campanello a nudo strappato.
E tutta la notte in attesa, l’arrivo di ospiti cari,
Sfiorando i piccoli anelli della porta in catene.
Sono tornato nella mia città, fino alle lacrime ben nota,
Fino alle vene, alle ghiandole gonfie di bambino.
Sei tornato fin qui e veloce adesso trangugia
Olio di pesce ai lampioni sull’acqua a Leningrado.
Riconosci, veloce, dicembre, la corta giornata invernale,
Dove a lugubre pece si mescola luce di tuorlo.
Pietroburgo, ancora non voglio morire:
Tu conservi i telefoni, i numeri miei.
Pietroburgo, io ho gli indirizzi, le case,
Le voci dei morti riuscirò a trovare.
Nella scala sul retro sono alloggiato, alle tempie
Colpisce il campanello a nudo strappato.
E tutta la notte in attesa, l’arrivo di ospiti cari,
Sfiorando i piccoli anelli della porta in catene.
envoyé par Bernart Bartleby - 12/3/2017 - 14:43
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Versi di Osip Ämilevič Mandelštam
Messi in musica da diversi artisti, a cominciare da Larisa Novoseltseva / Лариса Новосельцева che a Mandelštam ha dedicato sempre un'attenzione particolare.
Nell'album “Привет, Россия... (То, что я должен сказать...)", un progetto del 2009-
Nato a Varsavia all’inizio del 1891 da una famiglia della media borghesia ebraica (il padre dopo studi di talmud commerciava in pellami, la madre era pianista e insegnante di musica), trascorre l’infanzia e l’adolescenza a Pietroburgo dove compie gli studi presso il prestigioso istituto Tenišev. Nel 1907 si reca a Parigi alla Sorbona, trascorre due semestri all’Università di Heidelberg, viaggia in Italia.
Esule fra territori e culture diverse, di tutte partecipe, Mandel’štam nel 1911 viene battezzato da un padre metodista nell’amata Finlandia; scelta pratica (gli permetteva l’accesso all’università, negato ai sudditi di origine ebraica), emotiva e spirituale insieme che non mutò il suo intimo ed energico legame con la tradizione ebraica. A Pietroburgo si iscrive alla facoltà di filologia e stringe amicizia con molti giovani poeti di talento (con Gumilëv, Achmanova e Gorodeckij fonda il gruppo degli acmeisti).
Poeta, prosatore e saggista, Mandel’štam collabora a giornali e riviste, scrivendo di storia, arte e letteratura. Esonerato dal servizio militare, allo scoppio della guerra viaggia per il paese, soprattutto in Crimea. L’ascesa dei bolscevichi lo sgomenta, si trasferisce a Mosca ma si rifugia sempre più spesso al sud. E a Kiev nel 1919 incontra Nadežda Chazina, giovane pittrice colta, intelligente e vitale, futura sposa e compagna della vita.
All’inizio degli anni Venti per Mandel’štam (come per molti uomini e artisti del suo tempo) comincia una tragica condizione di isolamento: “è spezzata la tua spina dorsale, mio secolo bellissimo e triste” canta in un celebre componimento del 1922. Nel 1924 muore Lenin, alla guida del paese gli succede Stalin, “il montanaro del Cremlino” le cui “tozze dita come vermi sono grasse” (così Mandel’štam scriverà nel novembre 1933). Menti libere e intelligenze critiche sono pericolose come il calore per il ghiaccio, tutto potrebbe sciogliersi.
Nel 1929 Mandel’štam è accusato di plagio, reagisce alle invettive ingiuriose con una energica prosa, che sarà stampata in Urss solo alla fine degli anni Ottanta. Segna la sua esperienza il “viaggio in Armenia” [da cui è stato tratto un film documentario]. Continua a scrivere, sentendo su di sé il peso dell’esilio in patria e il materializzarsi di tristi presagi; viene invitato a non pubblicare più versi. L’estro poetico di Mandel’štam respira al ritmo del suo tempo e la sua attività lirica comprende due stagioni: muove dal soggiorno parigino distendendosi fino alla metà degli anni Venti, per poi spiegare nuovamente le ali fra la fine del 1930 e il 1937.
Il 3 settembre 1932, fedele alla sua intima libertà di poeta e di uomo in un paese raggelato dal rigore, si dimette dalla sezione moscovita dell’Unione degli scrittori. Pochi anni dopo, nella notte tra il 13 e il 14 maggio 1934, due agenti della polizia sovietica si presentano in casa Mandel’štam a Mosca, perquisiscono l’abitazione, sequestrano grandi quantità di manoscritti. Osip è arrestato, poi confinato a Voronež fino alla metà di maggio del 1937; dopo brevi soggiorni in diverse località e viaggi “clandestini” a Mosca, il poeta torna per l’ultima volta a Leningrado nel marzo 1938, e per l’ultima volta incontra Achmatova. A maggio è di nuovo arrestato e ad agosto condannato alla deportazione per attività controrivoluzionaria.
A un anno e mezzo di distanza dalla sua morte, nel giugno 1940, il fratello Aleksandr riceve un certificato attestante il decesso di Osip Mandel’štam, avvenuto il 27 dicembre 1938 per paralisi cardiaca [credo fosse l'espressione ordinaria usata dai burocrati stalinisti in luogo di “fucilazione”, ndr]
La riabilitazione ufficiale avverrà il 28 ottobre 1987.
Fatta di cose e di storia, la poesia di Mandel’štam procede attraverso una visione ‘architettonica’ della realtà. Oggetti dalle strutture regolari, materiali lavorati con precisione. Il poeta guarda al mondo e alle parole da questa stessa prospettiva, nelle strofe si dispiegano i versi e gli edifici delle città, Pietroburgo innanzitutto, amata dimora di un eterno esule. Consapevole di camminare sulle macerie di “un secolo belva” (come scriveva della sua epoca nella poesia del 1922) egli ascolta tradizioni multiformi (la Grecia classica, Dante, Ariosto, Puškin, fra le più importanti) e guarda al passato per vivere la storia tragica del presente.
Fatti e luoghi della realtà ordinaria si riverberano nella sua opera ove egli mescola registri stilistici, ambiti lessicali ed emotivi distanti: i lampioni dalla luce di tuorlo riflessi sulla Neva, l’incanto delle notti bianche, la scala di servizio della casa del fratello Evgenij (anche lui era stato arrestato nel 1922) presso il quale era ospite, le voci di amici scomparsi, la lugubre notte, le visite di agenti speciali, “ospiti cari” cui forse allude il poeta nei versi in chiusura. Il presente in questo componimento è il presente della città di Pietro, carica di funesti presagi.
Mandel’štam la ricorda nella sua doppia veste: Leningrado metropoli dal volto sovietico, città ufficiale e crudele; Pietroburgo come viene chiamata nell’intimo, luogo dell’anima e degli affetti. Le parole d’apertura nel primo verso alludono al breve ed amaro ritorno che egli fece a Leningrado nel 1930, dopo il soggiorno in Caucaso, in un’atmosfera guasta, mente libera in una densa e fosca luce plumbea. L’amore per la misura dell’umano permane nello sguardo lirico di Mandel’štam oltre la sofferenza reale, e nei componimenti degli ultimi, tragici, anni, avrà ancora voce per osservare con distaccato coraggio la miseria che lo circonda, anch’essa parte del presente, “conficcando” le sue parole nella vita.
(da “Osip Ėmil’evič Mandel’štam: Sono tornato nella mia città, fino alle lacrime ben nota”, articolo di Barbara Ronchetti pubblicato su Limes)