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Sventola bandiera rossa

Raffaele Offidani [Spartacus Picenus]
Langue: italien


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Non vogliamo più la guerra
(Coro della Bassa Romagna)
Venticinque aprile 1975
(Ivan Della Mea)
U pane ch'i tessere
(anonyme)


[1921?]
Ne “I canti di Spartaco ed altri celebri inni sociali”, Roma, Mondini, 1944
Ascoltabile in “Sventolerai lassù. Antologia della canzone comunista in Italia 2”, Milano, I dischi del Sole, Ds 1078-80, aprile 1977 (ma forse si tratta di una ristampa di un disco degli anni 60).
La trovo anche interpretata dal Coro della Bassa Romagna nel CD allegato al volume intitolato “Noi siam le canterine antifasciste. I canti delle mondine di Lavezzola”, a cura di Cristina Ghirardini, pubblicato nel 2012. Originariamente nell'LP “Unità e lotta. Lotta e unità”, pubblicato negli anni 70.

Noi siam le canterine antifasciste
Unità e lotta. Lotta e unità

"All'inizio del 1920 mi trovo a Torino e qui i compagni annunciarono sull' 'Avanti!' e con manifesti murali, che sul palcoscenico del teatro della Casa del Popolo, Spartacus Picenus avrebbe intonato le sue canzoni in una festa a beneficio dei Mutilati della Lega Proletaria. Non potevo rifiutarmi, sebbene fossi un cantante veramente degno di pomodori marci. La vasta sala era gremita ed i compagni piemontesi mi fecero un'accoglienza entusiastica e commovente. Si reclama a gran voce il bis della 'Neva' e 'Viva Lenin!'. Lo stesso Gramsci che non conoscevo ancora, venne ad abbracciarmi"
(Autobiografia di Spartacus Picenus in "Il nuovo Canzoniere italiano", Milano, Edizioni Avanti!, settembre 1963, n. 3, pp. 41-42., come riportato da Cesare Bermani in “L'Ordine Nuovo e il canto sociale”, sulla rivista "L'Impegno", a. XI, n. 1, aprile 1991)


Non sono sicuro che questa canzone di Spartacus Picenus sia proprio del 1921, ma presumibilmente non è posteriore di molti anni rispetto agli eventi della Rivoluzione d'Ottobre ed alla costituzione del Partito Comunista d'Italia.
Ma la presenza di Spartacus Picenus a Torino nel 1920, accolto addirittura da Antonio Gramsci, mi consente di parlare qui di un torinese, oggi pressochè dimenticato, che in quegli anni, insieme a tanti altri, combattè contro la guerra, contro l'ingiustizia, contro il fascismo e per questo diede anche la vita.

Si chiamava Pietro Ferrero.



Era nato a Grugliasco nel 1892. Faceva l'operaio alla FIAT ed era un anarchico. Nel quartiere di Barriera di Milano si occupava della formazione dei militanti operai ed era uno dei dirigenti della locale scuola moderna intitolata al pedagogo anarchico catalano Francesc Ferrer i Guàrdia.
Durante la Grande Guerra aderì al sindacato dei metallurgici della Confederazione Generale del Lavoro, la FIOM – di cui fu segretario cittadino dal 1919 - e partecipò in prima fila a tutti i grandi eventi politici di quegli anni, dai moti di Torino del 1917 contro i padroni e la loro guerra (si vedano al proposito Prendi il fucile e gettalo per terra (Gran Dio del cielo) e U pane ch'i tessere), al cosiddetto “sciopero delle lancette” del 1920, con gli operai che si opposero all'applicazione dell'ora legale, cosa che li costringeva ad uscire di casa per recarsi in fabbrica col buio anche in primavera ed estate.
Pietro Ferrero divenne quindi un riferimento per l'anarchismo ed il socialismo rivoluzionario durante il cosiddetto Biennio Rosso.

Fascisti in posa davanti alla Camera del Lavoro a Torino. Direi che alle finestre si notano bene gli sbuffi nerastri dell'incendio appiccato nell'aprile del 1921.
Fascisti in posa davanti alla Camera del Lavoro a Torino. Direi che alle finestre si notano bene gli sbuffi nerastri dell'incendio appiccato nell'aprile del 1921.


Ma già nell'aprile del 1919, con la devastazione della sede de L'Avanti a Milano, e poi in occasione dello sciopero generale del 20 e 21 luglio seguenti, avevano fatto la loro comparsa sulla scena le squadracce dei Fasci Italiani di Combattimento fondate da Mussolini.
Il Biennio Rosso cominciò a tingersi di nero. Di rosso rimase il sangue versato da socialisti ed anarchici, come Pietro Ferrero, per mano dei fascisti.



Sono sicuro che la quasi totalità delle migliaia di persone che quotidianamente passano davanti al vecchio ingresso della stazione di Porta Susa non sappia perchè quella piazza (e pure la fermata della metropolitana lì presente) si chiami (non da oggi, dal 1946!) “XVIII Dicembre”...

Nel 1921 e 1922 furono quotidiane le spedizioni punitive delle squadre fasciste contro le sedi dei partiti, dei sindacati e dei giornali anarchici, socialisti e comunisti. E all'ordine del giorno furono anche i pestaggi e gli scontri anche armati, dai quali però non sempre i fascisti ne uscirono bene.
A Torino, nella notte tra il 17 ed il 18 dicembre, in uno scontro a fuoco rimasero ferite quattro persone. Due morirono poco dopo in ospedale: si trattava di Giuseppe Dresda, un ferroviere di 27 anni, e di Lucio Bazzani, studente universitario di 22, entrambi militanti fascisti. Il presunto sparatore, rimasto anch'egli ferito, era tal Francesco Prato, di professione tranviere, antifascista (non so se fosse comunista, ma fu nascosto e poi trasferito in Unione Sovietica dove – ironia della sorte - più tardi sparì nell'universo concentrazionario staliniano)...



La reazione dei fascisti non si fece attendere. Piero Brandimarte, romano trasferitosi a Torino e qui fondatore e comandante della squadra d'azione “la Disperata”, chiamò a raccolta i suoi sgherri ed iniziarono i rastrellamenti e la mattanza. Tra il 18 ed il 19 dicembre del 1922 saranno 11 le loro vittime, tutti trucidati barbaramente:

Carlo Berruti, ferroviere e consigliere comunale del Partito Comunista d'Italia, ucciso nelle campagne di Nichelino.
Matteo Chiolero, tramviere e militante socialista, ucciso nella sua casa in via Abegg 7.
Erminio Andreone, fuochista delle ferrovie, ucciso davanti alla sua casa (poi bruciata) in via Alassio 25.
Andrea Ghiomo e Matteo Tarizzo, due antifascisti: vengono ritrovati il primo nel prato di via Pinelli con il cranio spezzato e sanguinante, centinaia di ferite sulla testa e su tutto il corpo; il secondo in fondo a via Canova, ucciso in un lago di sangue da un colpo di clava che gli ha fracassato il cranio.
Leone Mazzola, proprietario di un'osteria e militante socialista, ucciso a colpi di arma da fuoco nel proprio letto nel retrobottega, dove ha la sua abitazione.
Giovanni Massaro, ex ferroviere e anarchico, ucciso a colpi di moschetto vicino alla cascina Maletto di via San Paolo.
Cesare Pochettino, artigiano non impegnato in politica. Viene prelevato assieme al cognato Stefano Zurletti ed entrambi sono portati in collina e fucilati sull'orlo di un precipizio: Pochettino muore sul colpo, mentre Zurletti si finge morto e, soccorso da un anziano signore che ha assistito alla scena dall'alto con la figlia, viene portato in ospedale. Qui subisce le angherie degli squadristi che scorrazzano liberamente fra letti e corridoi riempiendolo di insulti e minacce, ma riesce a sopravvivere. Morirà poi il 10 dicembre 1951, e pertanto il suo nome non figura tra le vittime.
Angelo Quintagliè, usciere dell'ufficio ferroviario "Controllo prodotti".
Evasio Becchio, operaio e comunista di 25 anni,

A Pietro Ferrero venne riservata la fine più atroce: già ucciso o forse ancora vivo, venne legato ad un camion e trascinato in piena corsa per le vie della città. Il suo corpo irriconoscibile fu poi abbandonato sotto il monumento a Vittorio Emanuele II, tra corso Vittorio Emanuele e corso Galileo Ferraris. Potrà essere poi identificato solo grazie alla tessera della FIOM rimastagli in tasca...

Il responsabile della strage, il gerarca Piero Brandimarte, la rivendicò personalmente:

«I nostri morti non si piangono, si vendicano. (...) Noi possediamo l'elenco di oltre 3.000 nomi di sovversivi. Tra questi ne abbiamo scelti 24 e i loro nomi li abbiamo affidati alle nostre migliori squadre, perché facessero giustizia. E giustizia è stata fatta. (...) (I cadaveri mancanti) saranno restituiti dal Po, seppure li restituirà, oppure si troveranno nei fossi, nei burroni o nelle macchie delle colline circostanti Torino.» (Mimmo Franzinelli, Squadristi, Mondadori, 2009)

Il monumento a Dresda e Bazzani. Distrutto nel dopoguerra, fu opera dell'architetto Gino Levi-Montalcini. Il paradosso è che, essendo ebreo, fu poi colpito dalle leggi razziali del 1938...
Il monumento a Dresda e Bazzani. Distrutto nel dopoguerra, fu opera dell'architetto Gino Levi-Montalcini. Il paradosso è che, essendo ebreo, fu poi colpito dalle leggi razziali del 1938...



Ovviamente, 20 anni di fascismo – che nel '33 dedicò a Giuseppe Dresda e Lucio Bazzani un monumento – garantirono agli squadristi la totale impunità. Nel dopoguerra invece l'impunità fu garantita loro dalle nuove istituzioni repubblicane: nel 1952 Brandimarte andò assolto per “insufficienza di prove” e quando morì, nel 1971, al funerale gli furono persino resi gli onori militari.




A Pietro Ferrero e agli altri uccisi dai fascisti in quei giorni non è mai stata neppure dedicata una canzone, o forse i lunghi anni del fascismo ne hanno cancellato ogni traccia.
Questa “Sventola bandiera rossa” vuole essere solo un parziale risarcimento, alla sua, alla loro memoria.
T'amo con tutto il cuore
O mia bellissima rossa bandiera
Tu sei il vero amore
Del derelitto che sospira e spera
Quando morrò ti bacerò
Come si bacia l'amante sincera

Io ti vedrò lassù
Sulle rovine di un mondo che fu
Bandiera rossa sventola ognor
Sul tuo gran popolo in rivolta

E vano ogni tormento
Per ogni comunista assassinato
Sorgono nuovi a cento
Ribelli dal terreno insanguinato
E l'oppressor preda 'l terror
La nostra forza l'ha ormai schiacciato

Io ti vedrò lassù
Sulle rovine di un mondo che fu
Bandiera rossa sventola ognor
Sul tuo gran popolo in rivolta

La vile guardia bianca
Che i comunisti mette alla tortura
Orsù compagni avanti
Della sbirraglia non abbiam paura
La libertà trionferà
La nostra meta è ormai sicura

Io ti vedrò lassù
Sulle rovine di un mondo che fu
Bandiera rossa sventola ognor
Sul tuo gran popolo in rivolta

Bandiera rossa sventolerai lassù

envoyé par Bernart Bartleby - 7/3/2017 - 14:13


Una poesia di Pier Paolo Pasolini, dalla raccolta “La religione del mio tempo”, 1961

ALLA BANDIERA ROSSA

Per chi conosce solo il tuo colore, bandiera rossa,
tu devi realmente esistere, perché lui esista:
chi era coperto di croste è coperto di piaghe,
il bracciante diventa mendicante,
il napoletano calabrese, il calabrese africano,
l'analfabeta una bufala o un cane.
Chi conosceva appena il tuo colore, bandiera rossa,
sta per non conoscerti più, neanche coi sensi:
tu che già vanti tante glorie borghesi e operaie,
ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli.

Bernart Bartleby - 7/3/2017 - 14:57


Dal blog di Claudio Canal, una piccola e drammatica biografia di Francesco Prato, il tranviere antifascista che rimase ferito nello scontro con alcuni fascisti – due di loro ebbero la peggio - a Torino la notte tra il 17 e 18 dicembre 1922. Il giorno seguente si scatenò la vendetta delle squadracce di Piero Brandimarte, gerarca romano, torinese d'adozione. Almeno 11 i morti ammazzati fra esponenti e militanti socialisti ed anarchici e anche gente comune.

Contribuisco questa pagina – ringraziando il sempre ottimo Claudio Canal – perchè mi pare restituisca pienamente cosa significa finire vittime del/dei totalitarismi.



Nato a Valmacca in provincia di Alessandria nel 1899
Tramviere. Nel dicembre del 1922 in via Nizza si scontra con un gruppo di fascisti, due di loro vengono uccisi. Sarà l’inizio della strage guidata dallo squadrista Piero Brandimarte in cui verranno giustiziati almeno 11 operai, sindacalisti, socialisti e comunisti. Prato viene condannato in contumacia all'ergastolo, passa in Svizzera e poi nel 1923 in URSS.
Lavora nella città di Odessa come fabbro. Dal 1927 al 1930 studia alla Università Comunista per le minoranze occidentali. Dal 1930 al 1936 svolge propaganda fra i marinai del Mar Nero. Dal 1936 e fino all'arresto lavora nella fabbrica cuscinetti a sfera ”Kaganovic“ impiantata dalla RIV di Villar Perosa. Chiede di andare in Spagna, ma gli viene negato il permesso dal PC d'I.
Arrestato il 13 febbraio 1938 a Mosca, con l'accusa di spionaggio a favore dell'Italia.
Condannato a 8 anni di lager nella repubblica di Cumi nel 1938 da dove chiede la revisione del processo. Nel 1942 è condannato a 10 anni di lager.
Muore l'11 febbraio 1943 a Vorkuta. Ha 44 anni
Riabilitato il 14 luglio 1956

“Quando, nella seconda metà del 1941, entrò nel nostro campo di rigore, Prato era già mal ridotto, più moralmente che fisicamente. Le 10 ore di lavoro al carico dei vagoni, la denutrizione e il freddo ne affrettarono la fine. La sua morte, in quella baracca infernale, fu lenta e penosa. Prima di morire, Prato si chiedeva spesso come mai un comunista coraggioso e battagliero quanto lui, antifascista condannato in Italia per aver ucciso 2 squadristi, un compagno così attaccato al partito e a Stalin, potesse ora essere trattato da controrivoluzionario.”
(Testimonianza di Dante Corneli, 1900-1990. Scrittore e antifascista italiano. Comunista antistalinista, per molto tempo fu perseguitato sia dal fascismo che dallo stalinismo. Recluso in un gulag per dieci anni, è stato il più importante testimone italiano del sistema repressivo stalinista.)

Bernart Bartleby - 12/3/2017 - 13:40


Una riflessione di Gaetano Salvemini sulla violenza fascista del 1921-22, quando lo storico socialista fu docente ad Harvard tra gli anni 30 e i 40, da “Le origini del fascismo in Italia, lezioni di Harvard”, a cura di Roberto Vivarelli, Feltrinelli 1966:

« Nel corso dei due anni della loro "tirannia" (1919-20, il cosiddetto Bienni Rosso, ndr) i "bolscevichi" non devastarono neppure una volta l'ufficio di una associazione degli industriali, degli agrari o dei commercianti; non obbligarono mai con la forza alle dimissioni nessuna amministrazione controllata dai partiti conservatori; non bruciarono neppure una tipografia di un giornale; non saccheggiarono mai una sola casa di un avversario politico. Tali atti di "eroismo" furono introdotti nella vita italiana dagli "antibolscevichi." Inoltre va notato che mentre i delitti commessi dai "bolscevichi" negli anni 1919-20 furono quasi sempre compiuti da folle eccitate, le "eroiche" imprese degli "antibolscevichi" troppo spesso furono preparate e condotte a sangue freddo da appartenenti a quei ceti benestanti, che hanno la pretesa di essere i custodi della civiltà. »

Bernart Bartleby - 12/3/2017 - 16:05




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