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Χελιχελώνη: La Chelichelona, o Gioco della Tartaruga

Anonymous
Language: Greek (Ancient) (Dorico / Dorian)



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Julii Pollucis Onomasticum in libris X
Liber IX, Cap. VII, Segm. 125

chelona


Giulio Polluce (in greco: 'Ιούλιος Πολυδεύκης) fu un grammatico e lessicografo greco alessandrino, nato a Naucrati (circa 80 km a sud di Alessandria d'Egitto). Vissuto nel II secolo d.C. (se ne hanno notizie certe in vita nell'anno 183), fu discepolo del retore Adriano di Tiro presso Atene, che sostituì nella sua cattedra attorno al 192. Giulio Polluce morì durante il regno dell'imperatore Commodo (che era stato suo allievo) all'età di 58 anni; tra i suoi avversari, contrari al suo genere di eloquenza, vi furono Frinico Arabio e, soprattutto, il celebre Luciano di Samosata, l'autore della Storia Vera in cui di vero non c'è assolutamente e volutamente niente, e che è da non pochi considerata la bis-bisavola della fantascienza (con tanto di viaggio sulla Luna).

La produzione di Giulio Polluce ci è giunta perlopiù in frammenti. L'unica opera di cui abbiamo estratti considerevoli è l' Ὀνομαστικὸν ἐν βιβλίοις ί (abbreviato in Ὀνομαστικὸν, Onomastikón) scritto intorno al 170 d.C. (pubblicato prima del 177 d.C.) e dedicato all'imperatore Commodo. Si tratta di un elenco di vocaboli e di sinonimi ordinati per argomento e distribuiti in dieci libri, accompagnati da esempi e brevi spiegazioni delle voci. Particolarmente famose sono le sezioni riguardanti le maschere ed i costumi greci (IV libro). Sebbene l'opera sia successiva al periodo classico del teatro greco cui molte voci dell'opera fanno riferimento, l'Onomastikón rappresenta una fonte di informazioni preziosa per la storia del teatro ma anche per la storia degli usi, delle tradizioni e del folklore in generale.

chelchIl libro IX dell'Onomastikón, dedicato alle città, agli edifici, alle monete e ai giochi, ci riporta una semplice filastrocca, scritta in una specie di ibrido dorico somigliante a quello dell'antica lirica corale: la cosiddetta “Chelichelona”. Una piccola filastrocca di quattro versi, usata per un gioco di bambine, il gioco della Tartaruga. Il gioco, antichissimo e del tutto analogo alla “mosca cieca”, consisteva in questo: una bambina stava seduta nel mezzo, mentre le compagne di gioco le danzavano attorno facendole delle domande a cui lei rispondeva. La bambina seduta nel mezzo (ma, a volte, si trattava di un ragazzo “catturato” dalle fanciulle) è la vinta, la nemica, colei che si è lasciata sorprendere dall'abilità delle altre. In pratica è la pigra e indolente “tartaruga” (χελώνη) e sta facendo la penitenza. Le altre bambine le corrono o danzano intorno, mentre la “Tartaruga” nel mezzo fa un salto per cercare di afferrare la più vicina e meno pronta, che sarà la prossima a sedere nel mezzo.

Sull'origine e sul significato della “Chelichelona”, o “Tàrtaru-Tartaruga”, gli studiosi dell'antichità greca e i filologi hanno letteralmente scritto “papiers” interi (il Diehl, il Cataudella, innumerevoli altri); quattro semplici versi di una filastrocchetta di bambine, si pensi un po'. In una pagina come questa è d'uopo risparmiare troppo dotte discussioni, anche per non sembrare troppo pedante; basti sapere che i risultati di tali ricerche e discussioni sono pressoché univoci. In primis, i quattro versi sono considerati come il relitto di un qualche componimento poetico ben più antico dei tempi di Giulio Polluce; indi di poi, probabilmente il grammatico alessandrino ha riportato soltanto un breve frammento di una cantilena che doveva essere più lunga. Trattandosi di un gioco ritmico a cadenza di danza in cerchio, non v'è dubbio che fosse cantato (come lo sono tuttora il girotondo ed altri giochi di bambini e bambine, nonostante gli Smartphone).

Scrive C. Cessi, riassumendo magistralmente il tutto: “In questi canti sorprendiamo l'anima ingenua del popolo primitivo che continua a dar coi suoni valore determinato ad un fatto che ha perduto del tutto, o quasi, ormai il suo scopo e significato originario, sicché la parola rimane senza un senso reale nella vita attuale e viene sformata per assumere significazione che non ha mai avuto né può avere, e si mantiene come suoni inarticolati che accompagnino o facilitino il gesto, il movimento. […] L'elemento giocondo della fanciullezza si manifesta nella derisione, nelle beffe che si fanno a chi subisce il giuoco, simili all'oltraggio e al disprezzo che il guerriero suole lanciare verso il nemico, sia da vincere sia vinto, quali rappresenta anche l'epica omerica. Meno chiaro è il giuoco o canto della Tartaruga, canto che Polluce afferma proprio delle fanciulle. […] Le ultime parole rivelano il proposito della vendetta. L'antico spirito guerresco si è sempre più oscurato, ma rimane sempre la beffa del prigioniero, o del vinto che non sa prendere il posto dei vincitori.”

A pensarci bene, la quasi totalità dei giochi tradizionali di bambini e bambine (l'origine dei quali si perde generalmente nella notte dei tempi, e non è un modo di dire) promana da imitazioni guerresche, di combattimento, di caccia. I giochi delle bambine (come questo della Tartaruga) o sono fatti ad imitazione di quelli dei maschi, oppure riproducono, dissimulati e ingentiliti, autentici terrori del mondo antico, come il rapimento delle vergini (è il caso del “gioco dei fiori”, anch'esso riportato da Giulio Polluce). Si trattava di giochi di fanciulle la cui infanzia sarebbe terminata prestissimo: una ragazza greca, a dodici o tredici anni non appena sviluppata, era bell'e pronta per andare sposa e cominciare a fare figli. La vita non durava molto, e l' “aspettativa di vita”, come si dice adesso, per una donna era breve. Persino la passione smodata che le ragazzine ateniesi avevano per l'altalena veniva spiegata con una stranissima e tragica leggenda: si diceva che Erigone, la figlia di Egisto e Clitennestra, non reggendo il suo cuore sensibile alle nefandezze di cui era stata testimone, presa dalla disperazione si impiccò. Quando se ne diffuse la notizia, le fanciulle di Atene, per non essere da meno, cominciarono anch'esse a impiccarsi. Si impiccarono tutte; la nobilissima stirpe degli Ateniesi rischiava di spegnersi per mancanza di fidanzate, e quindi di mogli, sicché, dall'oracolo di Apollo non venne un saggio consiglio: che i padri ateniesi costruissero delle altalene, altalene in tutte le case, altalene ovunque, e abituassero le figlie ad andarci sopra. Era anche quello un mezzo di penzolare da una corda, di restare sospese tra cielo e terra, come chi s'impicca; senza conseguenze tragiche, però. Il consiglio di Apollo fu eseguito e l'epidemia di suicidi cessò; d'allora in poi, in Atene fu un continuo andare sull'altalena. In particolare durante le feste Antesterie, mentre gli adulti (comprese le donne, si dice) passavano il tempo a ubriacarsi di brutto, le bambine passavano la giornata intera sull'altalena facendo giravolte incredibili.

Non è dato naturalmente sapere, leggende a parte, quale possa essere veramente stata l'origine delle filastrocche, o cantilene, come la Chelichelona; da quale componimento, da quale circostanza e, con tutta probabilità, da quale guerra reale o leggendaria. Tutte cose che, ad un certo punto, si sono come cristallizzate in un gioco di bambine. Non è una cosa che deve assolutamente stupire: si pensi alle fiabe tradizionali, quasi tutte derivate da avvenimenti tragici e crudeli di società rurali dove la vita era durissima e dove, spesso, riusciva a vivere solo chi era più forte, più abile, più intelligente. Gli altri, le altre, soccombevano e si ritrovavano nel mezzo a far da Tartaruga. Ma non è poi così diverso, neppure adesso, neppure nei giochi dei bambini e delle bambine laddove infuriano la guerra o altre tragedie. Nei giochi dei bambini di strada, nei giochi che forse, in un lontano futuro, daranno adito ad altre brevi, misteriose, incomprensibili filastrocche. Se verrà la guerra, marcondiro 'ndera...[RV]

Nota testuale. Il testo è dato così come riportato nel libro IX, Cap. VII, Segm. 125 dell' Onomastikón di Giulio Polluce. Per la brevità del testo, la traduzione latina e quella italiana sono riportate di seguito. La traduzione latina è ripresa dall'edizione Wetsteniana di Amsterdam del 1706 (Julii Pollucis Onomasticum Græco-Latinum ex Officina Wetsteniana); la traduzione italiana è del sottoscritto.
ἡ δὲ χελιχελώνη, παρθένων ἐστὶν ἡ παιδιά, παρόμοιόν τι ἔχουσα τῇ χύτρᾳ· ἡ μὲν γὰρ κάθηται καὶ καλεῖται χελώνη, αἱ δὲ περιτρέχουσιν ἀνερωτῶσαι·

Xελιχελώνα, τί ποιεῖς ἐν τῷ μέσῳ;

ἡ δὲ ἀποκρίνεται

ἔρια μαρύομαι καὶ κρόκαν Μιλάσιαν.

εἶτ᾿ ἐκεῖναι πάλιν ἐκβοῶσιν

ὁ δ᾿ ἔκγονός τευ τί ποιῶν ἀπώλετο;

ἡ δέ φησι
λευκᾶν ἀφ᾿ ἵππων εἰς θάλασσαν ἅλατο.


Chelichelona autem virginum lusus est, simile quippiam cum olla habentes: hæc enim residet, & testudo dicitur: hæ vero circumcursitantes interrogant:

Chelichelona, quid agis in medio?

Illa vero respondet:

Lanas connecto, & filum Milesium.

Deinde hæc rursum:

Tuus vero Filius quid faciens, periit?

Illa vero dicit:

Albis ab equis in mare desiliit.


C'è poi la “Tàrtaru-Tartaruga”, un gioco di bambine un po' simile a quello della pentola: infatti una sta a sedere, e viene detta “tartaruga”, mentre le altre le stanno attorno chiedendole corricchiando:

Tàrtaru-Tartaruga, che fai lì in mezzo?

E lei risponde:

Filo la lana, e una stoffa Milesia [1]
.
Le altre, di nuovo:

E come fu che tuo figlio morì?

E lei alla fine dice:

Balzò nel mare da bianche cavalle.
[1] Vale a dire una stoffa nello stile di quelle provenienti dalla città di Mileto, nell'Asia Minore, celebri in tutta l'antichità greca. Le stoffe di Mileto sono citate anche nel Simposio di Platone.

Contributed by Riccardo Venturi - 2016/9/9 - 19:20




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