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[1942]
Basata su Ojciec zadżumionych di Juliusz Słowacki
Musica: [?]

gettowstep


Racconta Miriam Goldberg-Harel (sempre dal volume Singing for Survival di Gila Flam), che suo padre, come tutti gli Ebrei osservanti, portava una lunga barba. Si era rifiutato di tagliarsela anche quando lei gli aveva detto che i tedeschi la facevano brutalmente tagliare via agli Ebrei che incontravano per le strade del ghetto. In seguito, permise a sua moglie di tagliargliela un po', ma non servì a nulla: venne il 1942, e con esso il Groyse Shpere, il “Grande Blocco” durante il quale il ghetto di Łódź fu chiuso con un coprifuoco ferreo, e buona parte della popolazione ebraica fu “trasferita” (vale a dire avviata ai campi di sterminio). Fu durante il Grande Blocco che tutta la famiglia di Miriam (i genitori, le due sorelle e il fratello) furono deportati. Il padre fu il primo ad essere portato via; suo fratello maggiore, che era già sposato e aveva tre bambini, era già stato deportato a Auschwitz. Fu così che Miriam rimase sola, senza sapere esattamente perché a lei non fosse toccata la stessa sorte della sua famiglia. O, forse, la sapeva senza volerlo ammettere: aveva l' “età giusta”. Quando anche lei fu deportata a Auschwitz, era abbastanza robusta e aveva un'età (18 anni) che le permise di “passare la selezione” e di essere risparmiata per fare da forza lavoro.

Fu così che scrisse questa poesia, che racconta la deportazione della sua famiglia durante il Grande Blocco del 4 settembre 1942, preceduto dal famoso discorso di “re” Chaim Rumkowski. La poesia è basata su un celeberrimo (ed assai lungo) poemetto del poeta nazionale polacco Juliusz Słowacki (1809-1849), intitolato Ojciec zadżumionych (“Il padre degli appestati”). Słowacki scrisse il poemetto nel 1839 a Firenze; il suo protagonista, una sorta di Giobbe, è un arabo che ha seppellito tutta la sua famiglia morta in una pestilenza, e che descrive la sepoltura di ognuno dei suoi figli; alla fine, un albero da frutto parlante si rivolge al padre, unico sopravvissuto, e gli chiede : “Vecchio, dov'è la tua famiglia?” L'arabo, desolato, pensa fra sé: “Che cosa gli risponderò? Che cosa gli dirò? Li ho seppelliti tutti, uno ad uno”.

Miriam Goldberg si ricordò di questa poesia quando suo padre venne portato via, seguito dal resto della sua famiglia. La metafora è chiara; Miriam non ebbe neppure la consolazione di aver potuto dare sepoltura alla sua famiglia. Scrisse in seguito di avere volutamente scelto una composizione poetica particolarmente nota, e che ogni polacco conosce, almeno in parte, a memoria; su un classico della letteratura polacca, che parla di una sofferenza indicibile di un padre arabo di fronte alla morte dei suoi figli, fu narrata la sofferenza indicibile dell'oggi. L'augurio è, naturalmente, che Miriam Goldberg si sia ricordata di tutto ciò anche dopo il 1948, quando si stabilì in Israele e si sposò; vale a dire, che abbia quantomeno tenute presenti le sofferenze di tanti padri arabi, e la morte di tanti figli palestinesi dovuta a chi aveva così tanto sofferto ieri. Ma, naturalmente, non è dato di saperlo. [RV]
Trzy razy księżyc odmienił się złoty
I ja do życia staciłem ochotę.
Maleńką kromkę chleba już zjadłem
Prócz niej kartofel surowy, co skradłem.
Całą rodzinę zabrali mi w szperze,
Matka struchlała, ryczała, jak zwierzę,
Nogi Niemca-kata głaskała
O życie dzieci swoich błagała...
Więc ją za ramię silnie schwycili
I już jej nie było po jednej chwili.
Przed bramą wóz stał pełny “wybranych”
I na nim mama moja kochana
I ojciec, brodę targając daremnie,
Dwie siostry i brat
Jechali beze mnie.
Jedynym się został na podwórku
Prócz mnie sąsiadki ta chuda córka
I szewc z przeciwka
I głuchy Srul
Nie słyszał krzyków
Nie słyszał kul.
Z całego domu została nas czwórka.
Wnet krzyki doszły z innego podwórka...
Trzy razy księżyc odmienił się złoty
I ja do życia staciłem ochotę.
A jeśli stąd wyjdę żywy i cały
Jak to opowiem co tu się działo?
Czy ludzie normalni, wolni, uwierzą
Co tu się działo w tej strasznej szperze?
Czy ktoś uwierzy na całym świecie
Co się przeżyło w łódzkim getcie?

Contributed by Riccardo Venturi - 2016/8/23 - 05:11



Language: Italian

Traduzione italiana di Riccardo Venturi
23 agosto 2016

zadzu
NEL GHETTO DI ŁÓDŹ 1942

Tre volte la luna ha cambiato il suo color d'oro, [1]
Ed io ho perso la mia voglia di vivere.
Ho già mangiato il mio pezzetto di pane
E anche la mia patata cruda (che avevo rubato)
Tutta la famiglia me l'hanno portata via durante il Blocco, [2]
La mamma era terrorizzata e urlava come una bestia,
Baciava i piedi del soldato tedesco
E implorava per la vita dei suoi figli...
Ma la afferrarono forte per le spalle
E in un attimo lei non c'era più.
Davanti alla porta [3] c'era un carro pieno di “prescelti” [4],
E su di esso c'era la mia cara mamma.
E pure mio padre, che invano s'era rasata la barba,
Le mie due sorelle e mio fratello
Se ne andarono senza di me.
Nel cortiletto, oltre a me, son restati soltanto
La figlia della vicina, ridotta a pelle e ossa,
Il calzolaio che sta di fronte
E Srul, che è sordo
E che non ha sentito le grida
E nemmeno gli spari.
Di tutto il palazzo siamo rimasti solo noi quattro.
Intanto venivano urla da un altro cortile...
Tre volte la luna ha cambiato il suo color d'oro,
Ed io ho perso la mia voglia di vivere.
E se da questo uscirò viva e vegeta,
Come racconterò quel che è successo qua?
Persone libere e normali crederanno
A quel che è accaduto in quell'orrendo Blocco?
E nel mondo intero qualcuno crederà
A quel che è successo nel ghetto di Łódź?
[1] Il primo verso riproduce esattamente il corrispondente verso del poemetto di Juliusz Słowacki.

[2] Il “Grande Blocco” del 4 settembre 1942 (oltre 20000 ebrei deportati dal Ghetto di Łódź, deportazione avvenuta con la “gentile” e decisiva collaborazione dell'Älteste der Juden Chaim Rumkowski) viene indicato generalmente con la denominazione tedesca di Große Sperre, in yiddish גרױסע שפּערע [groyse shpere]. Anche nel testo polacco si usa la denominazione di szper.

[3] Il ghetto di Łódź, chiuso il 1° maggio 1940, si estendeva su tutta l'area del vecchio ghetto e su alcune zone dell'adiacente quartiere di Batuny. Tutta l'area fu recintata con filo spinato e guardata in armi sia dalla polizia tedesca che dalla “polizia ebraica” agli ordini (si fa per dire) dello Judenrat di Rumkowski. L'ingresso, invalicabile, era sorvegliato con ancora maggiore severità:

La polizia tedesca e quella "ebraica" a guardia dell'ingresso al ghetto.
La polizia tedesca e quella "ebraica" a guardia dell'ingresso al ghetto.


Ancora l'ingresso del ghetto con il cartello che segnala: "Zona residenziale (!!!!) degli Ebrei. Vietato oltrepassare".
Ancora l'ingresso del ghetto con il cartello che segnala: "Zona residenziale (!!!!) degli Ebrei. Vietato oltrepassare".


Poiché all'interno della “zona residenziale” si dovevano oltrepassare alcune strade che non ne facevano parte, erano state approntate delle speciali passerelle-cavalcavia, anch'esse severamente guardate in armi:

lodzpasserellen


Qui, con il termine di “Porta”, l'autrice si riferisce evidentemente all'ingresso generale.

[4] I “prescelti” erano ovviamente i deportati avviati ai lager e all'eliminazione.

2016/8/23 - 05:17




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