Since the risings started there are many tales you could tell
One person’s liberation may be another’s prison cell
When authority collapses, many things can take its place
Sectarian nightmares and liberated space
Some are hunting for the heathens, set to form a Caliphate
Some are fighting for their survival, and for a socialist state
Such as in the north of Syria, just south of PKK
A city’s name that’s whispered in the wind — Kobane
The town grew up with the railway from Baghdad to Berlin
Soon became a refuge for those fleeing the Sultan
In Syria they called it Land of the Arab Spring
No one knew what movements history would bring
A city full of Kurdish people divided from the rest
Cut off to the east, forsaken by the West
The only sensible thing to do was run away
But instead thousands stood and fought — Kobane
Students met in Suruc, wise beyond their years
And the leaders of the world all shed crocodile tears
When the bombs went off they said this cannot stand
The same ones who kept the aid out from those who’d try to lend a hand
The same men who kept the aid out, the very same ones
Who didn’t want the PYG to have ammo for their guns
As to the future of the city, no one alive can say
But its name sails across the borders — Kobane
One person’s liberation may be another’s prison cell
When authority collapses, many things can take its place
Sectarian nightmares and liberated space
Some are hunting for the heathens, set to form a Caliphate
Some are fighting for their survival, and for a socialist state
Such as in the north of Syria, just south of PKK
A city’s name that’s whispered in the wind — Kobane
The town grew up with the railway from Baghdad to Berlin
Soon became a refuge for those fleeing the Sultan
In Syria they called it Land of the Arab Spring
No one knew what movements history would bring
A city full of Kurdish people divided from the rest
Cut off to the east, forsaken by the West
The only sensible thing to do was run away
But instead thousands stood and fought — Kobane
Students met in Suruc, wise beyond their years
And the leaders of the world all shed crocodile tears
When the bombs went off they said this cannot stand
The same ones who kept the aid out from those who’d try to lend a hand
The same men who kept the aid out, the very same ones
Who didn’t want the PYG to have ammo for their guns
As to the future of the city, no one alive can say
But its name sails across the borders — Kobane
Contributed by adriana - 2016/5/22 - 08:44
KOBANE TRA ATTACCHI CON I DRONI E MINACCE DI NUOVE INVASIONI
Gianni Sartori
Sarà stata anche una coincidenza, ma l’attacco turco del 25 dicembre contro un’abitazione nel distretto di Şehîd Peyman (a est di Kobane) che è costato la vita a cinque persone, (due al momento dell’attacco, altre tre il giorno dopo per le ferite riportate) ha tutta l’aria di una ritorsione per un attentato già pianificato dallo Stato islamico, ma sventato dalle FDS.
Questi i nomi delle cinque vittime, forniti dall’Amministrazione autonoma del Nord e dell’Est della Siria (AANES): Nûjiyan Ocalan, Viyan Kobanê, Rojîn Ehmed Îsa, Mirhef Xelîl Îbrahîme un giovane chiamato Walid (di cui non si conosce ancora il nome completo).
Tutti loro militavano nel Movimento delle giovani donne o nel Movimento dei giovani rivoluzionari.
Almeno quattro degli altri feriti sono ancora all’ospedale.
Mentre gli abitanti di Kobane scendevano in strada per protestarecontro queste azioni terroristiche (e anche per l’indifferenza mostrata in più occasioni dalla comunità internazionale) le Forze democratiche siriane (FDS) con un comunicato mettevano in evidenza come “non è una coincidenza se l’attacco contro Kobanê è avvenuto nello stesso giorno di un’operazione riuscita contro lo Stato islamico”.
Stando sempre al comunicato delle FDS, si sarebbe trattato di una operazione pianificata contro una prigione di Hassakê. I membri delle bande jihadiste pronti a entrare in azione sono stati arrestati e imprigionati. Tra di loro un personaggio già conosciuto, l’emiro Mihemed Ebd Elewad, responsabile di numerosi massacri nella regione. Non è certo fuori luogo pensare che la Turchia si sia risentita per questo colpo inferto dalle FDS a una banda di integralisti sul libro paga di Ankara.
Il continuo stillicidio di operazioni del genere (bombardamenti e attacchi con droni, a spese soprattutto dei civili) potrebbe anche esprimere la frustrazione di Erdogan per le difficoltà incontrate nel procedere a un’ulteriore invasione nel nord e nell’est della Siria. Infatti, diversamente da quanto accadde nel 2019 quando Trump sostanzialmente dette il suo benestare all’attacco turco contro una parte del Rojava, oggi come oggi la comunità internazionale sembrerebbe (il condizionale resta d’obbligo) meno disposta a chiudere entrambi gli occhi.
O almeno questa sembra essere l’opinione (o forse la speranza) di un comandante delle FDS recentemente intervistato da Al-Monitor.
Mazlum Kobane (conosciuto anche come Mazlum Abdi) ritiene di potersi fidare dell’impegno preso da Biden di non abbandonare la regione, anche se quanto è avvenuto recentemente in Afghanistan, lo ammette, non è incoraggiante (dal punto di vista dei curdi ovviamente). In ogni caso considera assolutamente necessario un accordo tra i curdi e Damasco, un accordo di cui solamente la Russia può rendersi garante. Ovviamente il comandante intervistato non è un ingenuo e non ha scordato quanto avvenne solo qualche anno fa, quando la Russia consentì alla Turchia di invadere Afrin.
I dubbi sul futuro del Rotava quindi permangono.
Anche per questo, sia per timore di una nuova aggressione turca che per la pessima situazione economica (tra siccità e Covid-19), molti curdi se ne vanno passando illegalmente la frontiera.
Gianni Sartori
Gianni Sartori
Sarà stata anche una coincidenza, ma l’attacco turco del 25 dicembre contro un’abitazione nel distretto di Şehîd Peyman (a est di Kobane) che è costato la vita a cinque persone, (due al momento dell’attacco, altre tre il giorno dopo per le ferite riportate) ha tutta l’aria di una ritorsione per un attentato già pianificato dallo Stato islamico, ma sventato dalle FDS.
Questi i nomi delle cinque vittime, forniti dall’Amministrazione autonoma del Nord e dell’Est della Siria (AANES): Nûjiyan Ocalan, Viyan Kobanê, Rojîn Ehmed Îsa, Mirhef Xelîl Îbrahîme un giovane chiamato Walid (di cui non si conosce ancora il nome completo).
Tutti loro militavano nel Movimento delle giovani donne o nel Movimento dei giovani rivoluzionari.
Almeno quattro degli altri feriti sono ancora all’ospedale.
Mentre gli abitanti di Kobane scendevano in strada per protestarecontro queste azioni terroristiche (e anche per l’indifferenza mostrata in più occasioni dalla comunità internazionale) le Forze democratiche siriane (FDS) con un comunicato mettevano in evidenza come “non è una coincidenza se l’attacco contro Kobanê è avvenuto nello stesso giorno di un’operazione riuscita contro lo Stato islamico”.
Stando sempre al comunicato delle FDS, si sarebbe trattato di una operazione pianificata contro una prigione di Hassakê. I membri delle bande jihadiste pronti a entrare in azione sono stati arrestati e imprigionati. Tra di loro un personaggio già conosciuto, l’emiro Mihemed Ebd Elewad, responsabile di numerosi massacri nella regione. Non è certo fuori luogo pensare che la Turchia si sia risentita per questo colpo inferto dalle FDS a una banda di integralisti sul libro paga di Ankara.
Il continuo stillicidio di operazioni del genere (bombardamenti e attacchi con droni, a spese soprattutto dei civili) potrebbe anche esprimere la frustrazione di Erdogan per le difficoltà incontrate nel procedere a un’ulteriore invasione nel nord e nell’est della Siria. Infatti, diversamente da quanto accadde nel 2019 quando Trump sostanzialmente dette il suo benestare all’attacco turco contro una parte del Rojava, oggi come oggi la comunità internazionale sembrerebbe (il condizionale resta d’obbligo) meno disposta a chiudere entrambi gli occhi.
O almeno questa sembra essere l’opinione (o forse la speranza) di un comandante delle FDS recentemente intervistato da Al-Monitor.
Mazlum Kobane (conosciuto anche come Mazlum Abdi) ritiene di potersi fidare dell’impegno preso da Biden di non abbandonare la regione, anche se quanto è avvenuto recentemente in Afghanistan, lo ammette, non è incoraggiante (dal punto di vista dei curdi ovviamente). In ogni caso considera assolutamente necessario un accordo tra i curdi e Damasco, un accordo di cui solamente la Russia può rendersi garante. Ovviamente il comandante intervistato non è un ingenuo e non ha scordato quanto avvenne solo qualche anno fa, quando la Russia consentì alla Turchia di invadere Afrin.
I dubbi sul futuro del Rotava quindi permangono.
Anche per questo, sia per timore di una nuova aggressione turca che per la pessima situazione economica (tra siccità e Covid-19), molti curdi se ne vanno passando illegalmente la frontiera.
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 2021/12/27 - 15:57
Alleati dell’esercito statunitense quanto si tratta di combattere l’Isis sul terreno, i curdi siriani finiscono poi nelle “liste nere” di Washington.
Mentre la prevista riconciliazione tra Ankara e Damasco ne mette in pericolo l’autonomia conquistata nel Rojava.
Mentre la prevista riconciliazione tra Ankara e Damasco ne mette in pericolo l’autonomia conquistata nel Rojava.
CURDI TRA L’INCUDINE E IL MARTELLO
Gianni Sartori
Forse dire che i Curdi potrebbero tra breve cadere dalla padella direttamente nelle braci sarebbe eccessivo. In realtà ci stanno già da tempo.
Il diritto legittimo, non solo alla sopravvivenza, ma anche all’autodeterminazione giustifica (a mio avviso perlomeno) alcune alleanze (presumibilmente provvisorie e solo militari) con soggetti talvolta poco presentabili (vedi gli USA). Anche perché siamo comunque in quello che magari impropriamente viene detto “Medio-Oriente” dove alleanze transitorie e rovesciamenti di fronte sono pane quotidiano.
Tuttavia ci sarebbe da aspettarsi un po’ già di coerenza, linearità, se non proprio stabilità.
Vedi la recente notizia (la denuncia del ricercatore Matthew Petti è stata pubblicata sul sito di Kurdish Peace Institute) secondo cui alcuni comandanti curdi siriani delle FDS (Forze democratiche siriane) e dirigenti del PYD (Partito dell’unione democratica) come Salih Muslim e Asya Abdullah che nella lotta contro l’Isis agiscono in sintonia con i soldati statunitensi, contemporaneamente sono stati inseriti dal FBI nella lista delle persone sorvegliate per terrorismo.
In particolare il nome di entrambi sarebbe reperibile nella lista Selectee, quella che elenca le persone a cui non è consentirò salire su un aereo statunitense.
Per i curdi interessati si tratterebbe di una grave convergenza da parte del FBI con le richieste del MIT (il servizio segreto turco). Una contraddizione lampante. Nella migliore delle ipotesi, un cedimento alle richieste di Ankara.
E non si tratta di figure sconosciute.
Uno dei principali “sotto sorveglianza speciale”, Asya Abdullah, nel 2015 aveva incontrato il presidente francese mentre il figlio di Muslim è caduto nel 2013 combattendo contro al-Qaeda. Entrambi inoltre si sono incontrati con autorità, politiche e militari, statunitensi per concordare operazioni contro le milizie jihadiste.
Almeno per Muslim, di cui la Turchia ha richiesto a più riprese l’arresto in quanto presunto membro del PKK (tuttavia nel 2013 era stato inviato ad Ankara per i colloqui di pace, poi sfumati), c’era un precedente. Nonostante le ripetute richieste del Congresso per concedere all’esponente curdo di poter entrare negli USA e poter parlare a Washington, tale permesso (un visto) gli era stato ripetutamente negato dall’ufficio immigrazione.
Ulteriore incongruenza. Mentre Muslin che ha sempre negato di avere legami con il PKK (definendo il PYD come una organizzazione distinta) si trova inserito nella lista di sorveglianza speciale e di interdizione al volo, dei nomi di due comandanti delle FDS come Mazlum Abdi e Ilham Ahmad i cui trascorsi nel PKK sono noti, non c’è traccia (almeno ufficialmente).
Altri nomi curdi inseriti nella lista Selectee, quelli di Remzi Kartal e Zübeyir Aydar, ex membri del Parlamento turco (costretti forzatamente a lasciare il paese) e rappresentanti dell’Unione delle Comunità del Kurdistan (KCK), un coordinamento della diaspora curda in Europa di cui farebbero parte sia il PKK che il PYD. Per entrambi, come Muslim, un mandato d’arresto da parte della procura turca emesso dopo l’orrendo attentato del 2016 in cui sono rimasti uccisi 36 civili. L’atto criminale era stato rivendicato da un gruppo estremista curdo (I falchi della libertà, in aperto dissenso con il PKK) di cui è nota la deriva terroristica. Appare scontato che i tre esponenti curdi chiamati strumentalmente in causa dalla Turchia non avevano niente a che vedere con tale orrendo delitto.
Nella lista anche due membri del Congresso nazionale del Kurdistan (altra organizzazione della diaspora curda da tempo impegnata nella ricerca di una soluzione politica), Adem Uzun (arrestato in Francia nel 2012 e immediatamente rilasciato) e Nilufer Koç a cui ancora nel 2011 il Tesoro statunitense avrebbe imposto sanzioni finanziarie per sospetti legami con il PKK.
Questo per quanto riguarda i rapporti con i Curdi da parte degli Stati Uniti. E la Russia? Direi che non li tratta meglio, anzi.
Nonostante un approccio altalenante alla questione curda, tra varie incertezze e tentennamenti, anche la Russia sembra ormai schierata apertamente con Ankara (e anche con Teheran) per quanto riguarda la questione curda.
Diversamente dal recente passato quando qualche dubbio lo manifestava, vedi nel 2021 l’incontro di Lavrov a Mosca con Ilham Ahmed, presidente del comitato esecutivo del Consiglio democratico siriano.
Ulteriore conseguenza della guerra in Ucraina e del ruolo di "mediatore" assunto da Erdogan?
Comunque sia, l’impressione che ne ricavano i curdi del Rojava è questa. Proprio Sergueï Lavrov il 31 gennaio ha dichiarato in conferenza stampa che qualsiasi novità, qualsiasi riunione in merito alla normalizzazione dei rapporti tra Ankara e Damasco dovrà vedere il coinvolgimento di Russia e Iran (insieme alla Turchia, entrambi membri della troïka di Astana).
L’amicizia storica (per quanto non priva di incrinature, vedi quando la Turchia impose l’allontanamento di Ocalan) tra Erdogan e Bashar al-Assad si era frantumata con la guerra civile del 2011. Acqua (quasi) passata evidentemente.
I negoziati proseguono, tanto che i capi dei rispettivi servizi segreti si sarebbero incontrati recentemente a Mosca (e non era certo la prima volta).
Se per Damasco è prioritario che la Turchia ritiri i suoi soldati e le milizie che controlla dal nord della Siria (smettendo di sostenere, finanziariamente e militarmente, alcune delle forze di opposizione al regime), per Ankara l’obiettivo principale rimane quello di riuscire ad annichilire sia le FDS che le Unità dei protezione del popolo (YPG, quelle che si son fatte massacrare per sconfiggere l’Isis).
E' invece possibile che Bashar al-Assad non abbia rinunciato definitivamente a portare tali organizzazioni dalla sua parte. Spezzando una volta per tutte il legame tra i curdi siriani e l'ingombrante presenza statunitense.
Gianni Sartori
Gianni Sartori
Forse dire che i Curdi potrebbero tra breve cadere dalla padella direttamente nelle braci sarebbe eccessivo. In realtà ci stanno già da tempo.
Il diritto legittimo, non solo alla sopravvivenza, ma anche all’autodeterminazione giustifica (a mio avviso perlomeno) alcune alleanze (presumibilmente provvisorie e solo militari) con soggetti talvolta poco presentabili (vedi gli USA). Anche perché siamo comunque in quello che magari impropriamente viene detto “Medio-Oriente” dove alleanze transitorie e rovesciamenti di fronte sono pane quotidiano.
Tuttavia ci sarebbe da aspettarsi un po’ già di coerenza, linearità, se non proprio stabilità.
Vedi la recente notizia (la denuncia del ricercatore Matthew Petti è stata pubblicata sul sito di Kurdish Peace Institute) secondo cui alcuni comandanti curdi siriani delle FDS (Forze democratiche siriane) e dirigenti del PYD (Partito dell’unione democratica) come Salih Muslim e Asya Abdullah che nella lotta contro l’Isis agiscono in sintonia con i soldati statunitensi, contemporaneamente sono stati inseriti dal FBI nella lista delle persone sorvegliate per terrorismo.
In particolare il nome di entrambi sarebbe reperibile nella lista Selectee, quella che elenca le persone a cui non è consentirò salire su un aereo statunitense.
Per i curdi interessati si tratterebbe di una grave convergenza da parte del FBI con le richieste del MIT (il servizio segreto turco). Una contraddizione lampante. Nella migliore delle ipotesi, un cedimento alle richieste di Ankara.
E non si tratta di figure sconosciute.
Uno dei principali “sotto sorveglianza speciale”, Asya Abdullah, nel 2015 aveva incontrato il presidente francese mentre il figlio di Muslim è caduto nel 2013 combattendo contro al-Qaeda. Entrambi inoltre si sono incontrati con autorità, politiche e militari, statunitensi per concordare operazioni contro le milizie jihadiste.
Almeno per Muslim, di cui la Turchia ha richiesto a più riprese l’arresto in quanto presunto membro del PKK (tuttavia nel 2013 era stato inviato ad Ankara per i colloqui di pace, poi sfumati), c’era un precedente. Nonostante le ripetute richieste del Congresso per concedere all’esponente curdo di poter entrare negli USA e poter parlare a Washington, tale permesso (un visto) gli era stato ripetutamente negato dall’ufficio immigrazione.
Ulteriore incongruenza. Mentre Muslin che ha sempre negato di avere legami con il PKK (definendo il PYD come una organizzazione distinta) si trova inserito nella lista di sorveglianza speciale e di interdizione al volo, dei nomi di due comandanti delle FDS come Mazlum Abdi e Ilham Ahmad i cui trascorsi nel PKK sono noti, non c’è traccia (almeno ufficialmente).
Altri nomi curdi inseriti nella lista Selectee, quelli di Remzi Kartal e Zübeyir Aydar, ex membri del Parlamento turco (costretti forzatamente a lasciare il paese) e rappresentanti dell’Unione delle Comunità del Kurdistan (KCK), un coordinamento della diaspora curda in Europa di cui farebbero parte sia il PKK che il PYD. Per entrambi, come Muslim, un mandato d’arresto da parte della procura turca emesso dopo l’orrendo attentato del 2016 in cui sono rimasti uccisi 36 civili. L’atto criminale era stato rivendicato da un gruppo estremista curdo (I falchi della libertà, in aperto dissenso con il PKK) di cui è nota la deriva terroristica. Appare scontato che i tre esponenti curdi chiamati strumentalmente in causa dalla Turchia non avevano niente a che vedere con tale orrendo delitto.
Nella lista anche due membri del Congresso nazionale del Kurdistan (altra organizzazione della diaspora curda da tempo impegnata nella ricerca di una soluzione politica), Adem Uzun (arrestato in Francia nel 2012 e immediatamente rilasciato) e Nilufer Koç a cui ancora nel 2011 il Tesoro statunitense avrebbe imposto sanzioni finanziarie per sospetti legami con il PKK.
Questo per quanto riguarda i rapporti con i Curdi da parte degli Stati Uniti. E la Russia? Direi che non li tratta meglio, anzi.
Nonostante un approccio altalenante alla questione curda, tra varie incertezze e tentennamenti, anche la Russia sembra ormai schierata apertamente con Ankara (e anche con Teheran) per quanto riguarda la questione curda.
Diversamente dal recente passato quando qualche dubbio lo manifestava, vedi nel 2021 l’incontro di Lavrov a Mosca con Ilham Ahmed, presidente del comitato esecutivo del Consiglio democratico siriano.
Ulteriore conseguenza della guerra in Ucraina e del ruolo di "mediatore" assunto da Erdogan?
Comunque sia, l’impressione che ne ricavano i curdi del Rojava è questa. Proprio Sergueï Lavrov il 31 gennaio ha dichiarato in conferenza stampa che qualsiasi novità, qualsiasi riunione in merito alla normalizzazione dei rapporti tra Ankara e Damasco dovrà vedere il coinvolgimento di Russia e Iran (insieme alla Turchia, entrambi membri della troïka di Astana).
L’amicizia storica (per quanto non priva di incrinature, vedi quando la Turchia impose l’allontanamento di Ocalan) tra Erdogan e Bashar al-Assad si era frantumata con la guerra civile del 2011. Acqua (quasi) passata evidentemente.
I negoziati proseguono, tanto che i capi dei rispettivi servizi segreti si sarebbero incontrati recentemente a Mosca (e non era certo la prima volta).
Se per Damasco è prioritario che la Turchia ritiri i suoi soldati e le milizie che controlla dal nord della Siria (smettendo di sostenere, finanziariamente e militarmente, alcune delle forze di opposizione al regime), per Ankara l’obiettivo principale rimane quello di riuscire ad annichilire sia le FDS che le Unità dei protezione del popolo (YPG, quelle che si son fatte massacrare per sconfiggere l’Isis).
E' invece possibile che Bashar al-Assad non abbia rinunciato definitivamente a portare tali organizzazioni dalla sua parte. Spezzando una volta per tutte il legame tra i curdi siriani e l'ingombrante presenza statunitense.
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 2023/2/2 - 09:01
SE 42 ANNI VI SEMBRAN POCHI….
Gianni Sartori
La condanna a 42 di carcere per Selahattin Demirtas suona come una ritorsione del sultano-presidente e un’ingiuria alla dignità umana
Un palese insulto, prima ancora che ai diritti umani, al semplice buonsenso. Questo si può dire della condanna a 42 anni di carcere per il prigioniero politico Selahattin Demirtas (in prigiono dal 2016). Tanto che perfino i media occidentali, in genere piuttosto restii - soprattutto negli ultimi tempi - a criticare Erdogan e il suo governo islamista alleato dell’estrema destra.diAccusato di “attentato all’integrità dello stato”, “incitamento a commettere crimine”, “propaganda terroristica” e varie amenità, in realtà le “colpe” di Demirtas sono ben altre.
Aver sostenuto le proteste di massa del 2014 per l’attacco e assedio di Daesh (supportato da Ankara) alla città siriana di Kobane.
Proteste costata la vita a decine di persone, uccise sia dalle forze di sicurezza turche, sia - presumibilmente - da miliziani salafiti.
A tale proposito il partito DEM aveva emesso questo comunicato:
“Nel 2014, con l’Isis sul punto di prendere il controllo della città di Kobane, sono scoppiate proteste massicce e democratiche in tutto il mondo, anche in molte città della Turchia. Durante queste proteste, 46 civili, 34 dei quali erano membri e sostenitori dell’HDP, sono stati uccisi da gruppi pro-Isis, su provocazione delle forze di sicurezza turche.
Nonostante la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), che ha chiarito che l’HDP non può essere considerato responsabile delle violenze, l’attuale governo ha continuato ad avviare un procedimento giudiziario contro i membri esecutivi dell’HDP, compresi i co-presidenti Figen Yüksekdağ e Selahattin Demirtaş. Gli imputati hanno confutato tutte le accuse, ma la corte ha proseguito i processi sotto chiara influenza politica. L’illecito giudiziario è stato evidente fin dall’inizio, quando si è scoperto che il giudice iniziale era membro di un’organizzazione criminale, ed è stato palese in ogni momento. La Corte ha ingiustamente condannato molti politici dell’HDP sulla base di accuse infondate.”
E comunque la “colpa” più grave di Demirtas e dei sui compagni è stata quella aver osato fondare un partito democratico di sinistra. Il Partito Democratico del Popolo (HDP) in grado di attirare consensi anche da una parte dell’elettorato non curdo, ottenendo ben sei milioni di voti (80 seggi su 550). Una forza politica diventato in breve tempo il terzo “incomodo” nel Parlamento. Spezzando di fatto il controllo esercitatovi da Recep Tayyip Erdogan fin dal 2015. Tanto da dover ricorrere a elezioni anticipate per riconquistarlo (alleandosi con l’estrema destra islamista, quella dei “Lupi Grigi”). Messo al bando per pretestuosi “legami con il terrorismo” (leggi con il PKK), HDP è stato sostituito in Parlamento dal partito DEM (Partito per l’Uguaglianza e la Democrazia dei Popoli). Dal canto suo, dopo la sconfitta del candidato dell’opposizione (da lui appoggiato) al ballottaggio delle ultime presidenziali,Demirtas si è ufficialmente dimesso dalla politica attiva pur continuando “la lotta con tutti miei compagni di prigione”.
Rinchiuso nel carcere di Edirne, in questi giorni l’ex co-presidente di HDP ha potuto incontrare (per circa tre ore) i co-presidenti del partito DEM, Tülay Hatimoğulları e Tuncer Bakırhan che il giorno prima avevano incontratoFigen Yüksekdağ (ex vice segretaria di HDP e condannata a 30 anni e 3 mesi) nella prigione diKandıra.
Denunciando l’ennesimo atto di repressione contro il dissenso (il verdetto del Caso Kobane), Tülay Hatimoğulları ha ricordato che “i nostri compagni sono stati condannati a secoli di prigione. Lo abbiamo già detto molte volte e lo diciamo ancora. Il caso della “Cospirazione Kobane” è un caso di vendetta puramente politica. Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ, in passato nostri co-presidenti, sono stati condannati a pene molto pesanti. Nel contempo i rivoluzionari socialisti di sinistra che avevano espresso solidarietà al popolo curdo, i rivoluzionari che cercavano una soluzione alla questione curda con metodi democratici e pacifici, i rivoluzionari cheperoravano in favore della lotta democratica unitaria furono ugualmente condannati a lunghe pene (…).
Queste le sentenze (considerate illegali dal Partito DEM):
1) SELAHATTİN DEMİRTAŞ (Copresidente dell’HDP) 42,5 anni di reclusione
2) FİGEN YÜKSEKDAĞ (copresidente dell’HDP) 30 anni e 3 mesi di reclusione
3) ALP ALTINÖRS (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 22,5 anni di reclusione
4) NAZMİ GÜR (Vice copresidente per gli affari esteri e membro dell’APCE) 22,5 anni di reclusione
5) ZEKİ ÇELİK (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 22,5 anni di reclusione
6) ZEYNEP KARAMAN (Membro del comitato esecutivo dell’HDP) 22,5 anni di reclusione
7) PERVİN ODUNCU (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 22,5 anni di reclusione
8) GÜNAY KUBİLAY (Presidente e membro del consiglio esecutivo di HDP) 20,5 anni di reclusione
9) İSMAİL ŞENGÜL (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 20,5 anni di reclusione
10) DİLEK YAĞLI (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 20 anni di reclusione
11) BÜLENT PARMAKSIZ (Membro del comitato esecutivo dell’HDP) 18 anni di reclusione
12) ALİ ÜRKÜT (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 17 anni di reclusione
13) CİHAN ERDAL (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 16 anni di reclusione
14) GÜLTAN KIŞANAK (Sindaco della municipalità metropolitana di Diyarbakir) 12 anni di reclusione
15) SEBAHAT TUNCEL (ex deputato e membro esecutivo dell’Assemblea delle donne dell’HDP) 12 anni di reclusione
16) ZEYNEP ÖLBECİ (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 11,5 anni di reclusione
17) AHMET TÜRK (Sindaco della municipalità metropolitana di Mardin) 10 anni di reclusione
18) EMİNE AYNA (ex parlamentare e membro dell’Assemblea delle donne dell’HDP) 10 anni di reclusione
19) AYLA AKAT ATA (ex parlamentare e membro esecutivo dell’Assemblea delle donne dell’HDP) 9 anni e 9 mesi di reclusione
20) AYNUR AŞAN (Membro dell’Assemblea HDP) 9 anni di reclusione
21) AYŞE YAĞCI (Membro dell’Assemblea HDP) 9 anni di reclusione
22) MERYEM ADIBELLİ (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 9 anni di reclusione
23) MESUT BAĞCIK (membro dell’Assemblea HDP) 9 anni di reclusione
24) NEZİR ÇAKAN (Membro del comitato esecutivo dell’HDP) 9 anni di reclusione
Coincidenza non certo casuale, tale sentenza è piombata in contemporanea con il viaggio del ministro degli esteri Hakan Fidan in Iraq. Per ottenere la definitiva messa la bando del PKK, sia da parte del governo centrale, sia da quello regionale curdo di Erbil (sotto la guida del PDK di Barzani).
Gianni Sartori
Gianni Sartori
La condanna a 42 di carcere per Selahattin Demirtas suona come una ritorsione del sultano-presidente e un’ingiuria alla dignità umana
Un palese insulto, prima ancora che ai diritti umani, al semplice buonsenso. Questo si può dire della condanna a 42 anni di carcere per il prigioniero politico Selahattin Demirtas (in prigiono dal 2016). Tanto che perfino i media occidentali, in genere piuttosto restii - soprattutto negli ultimi tempi - a criticare Erdogan e il suo governo islamista alleato dell’estrema destra.diAccusato di “attentato all’integrità dello stato”, “incitamento a commettere crimine”, “propaganda terroristica” e varie amenità, in realtà le “colpe” di Demirtas sono ben altre.
Aver sostenuto le proteste di massa del 2014 per l’attacco e assedio di Daesh (supportato da Ankara) alla città siriana di Kobane.
Proteste costata la vita a decine di persone, uccise sia dalle forze di sicurezza turche, sia - presumibilmente - da miliziani salafiti.
A tale proposito il partito DEM aveva emesso questo comunicato:
“Nel 2014, con l’Isis sul punto di prendere il controllo della città di Kobane, sono scoppiate proteste massicce e democratiche in tutto il mondo, anche in molte città della Turchia. Durante queste proteste, 46 civili, 34 dei quali erano membri e sostenitori dell’HDP, sono stati uccisi da gruppi pro-Isis, su provocazione delle forze di sicurezza turche.
Nonostante la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), che ha chiarito che l’HDP non può essere considerato responsabile delle violenze, l’attuale governo ha continuato ad avviare un procedimento giudiziario contro i membri esecutivi dell’HDP, compresi i co-presidenti Figen Yüksekdağ e Selahattin Demirtaş. Gli imputati hanno confutato tutte le accuse, ma la corte ha proseguito i processi sotto chiara influenza politica. L’illecito giudiziario è stato evidente fin dall’inizio, quando si è scoperto che il giudice iniziale era membro di un’organizzazione criminale, ed è stato palese in ogni momento. La Corte ha ingiustamente condannato molti politici dell’HDP sulla base di accuse infondate.”
E comunque la “colpa” più grave di Demirtas e dei sui compagni è stata quella aver osato fondare un partito democratico di sinistra. Il Partito Democratico del Popolo (HDP) in grado di attirare consensi anche da una parte dell’elettorato non curdo, ottenendo ben sei milioni di voti (80 seggi su 550). Una forza politica diventato in breve tempo il terzo “incomodo” nel Parlamento. Spezzando di fatto il controllo esercitatovi da Recep Tayyip Erdogan fin dal 2015. Tanto da dover ricorrere a elezioni anticipate per riconquistarlo (alleandosi con l’estrema destra islamista, quella dei “Lupi Grigi”). Messo al bando per pretestuosi “legami con il terrorismo” (leggi con il PKK), HDP è stato sostituito in Parlamento dal partito DEM (Partito per l’Uguaglianza e la Democrazia dei Popoli). Dal canto suo, dopo la sconfitta del candidato dell’opposizione (da lui appoggiato) al ballottaggio delle ultime presidenziali,Demirtas si è ufficialmente dimesso dalla politica attiva pur continuando “la lotta con tutti miei compagni di prigione”.
Rinchiuso nel carcere di Edirne, in questi giorni l’ex co-presidente di HDP ha potuto incontrare (per circa tre ore) i co-presidenti del partito DEM, Tülay Hatimoğulları e Tuncer Bakırhan che il giorno prima avevano incontratoFigen Yüksekdağ (ex vice segretaria di HDP e condannata a 30 anni e 3 mesi) nella prigione diKandıra.
Denunciando l’ennesimo atto di repressione contro il dissenso (il verdetto del Caso Kobane), Tülay Hatimoğulları ha ricordato che “i nostri compagni sono stati condannati a secoli di prigione. Lo abbiamo già detto molte volte e lo diciamo ancora. Il caso della “Cospirazione Kobane” è un caso di vendetta puramente politica. Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ, in passato nostri co-presidenti, sono stati condannati a pene molto pesanti. Nel contempo i rivoluzionari socialisti di sinistra che avevano espresso solidarietà al popolo curdo, i rivoluzionari che cercavano una soluzione alla questione curda con metodi democratici e pacifici, i rivoluzionari cheperoravano in favore della lotta democratica unitaria furono ugualmente condannati a lunghe pene (…).
Queste le sentenze (considerate illegali dal Partito DEM):
1) SELAHATTİN DEMİRTAŞ (Copresidente dell’HDP) 42,5 anni di reclusione
2) FİGEN YÜKSEKDAĞ (copresidente dell’HDP) 30 anni e 3 mesi di reclusione
3) ALP ALTINÖRS (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 22,5 anni di reclusione
4) NAZMİ GÜR (Vice copresidente per gli affari esteri e membro dell’APCE) 22,5 anni di reclusione
5) ZEKİ ÇELİK (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 22,5 anni di reclusione
6) ZEYNEP KARAMAN (Membro del comitato esecutivo dell’HDP) 22,5 anni di reclusione
7) PERVİN ODUNCU (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 22,5 anni di reclusione
8) GÜNAY KUBİLAY (Presidente e membro del consiglio esecutivo di HDP) 20,5 anni di reclusione
9) İSMAİL ŞENGÜL (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 20,5 anni di reclusione
10) DİLEK YAĞLI (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 20 anni di reclusione
11) BÜLENT PARMAKSIZ (Membro del comitato esecutivo dell’HDP) 18 anni di reclusione
12) ALİ ÜRKÜT (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 17 anni di reclusione
13) CİHAN ERDAL (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 16 anni di reclusione
14) GÜLTAN KIŞANAK (Sindaco della municipalità metropolitana di Diyarbakir) 12 anni di reclusione
15) SEBAHAT TUNCEL (ex deputato e membro esecutivo dell’Assemblea delle donne dell’HDP) 12 anni di reclusione
16) ZEYNEP ÖLBECİ (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 11,5 anni di reclusione
17) AHMET TÜRK (Sindaco della municipalità metropolitana di Mardin) 10 anni di reclusione
18) EMİNE AYNA (ex parlamentare e membro dell’Assemblea delle donne dell’HDP) 10 anni di reclusione
19) AYLA AKAT ATA (ex parlamentare e membro esecutivo dell’Assemblea delle donne dell’HDP) 9 anni e 9 mesi di reclusione
20) AYNUR AŞAN (Membro dell’Assemblea HDP) 9 anni di reclusione
21) AYŞE YAĞCI (Membro dell’Assemblea HDP) 9 anni di reclusione
22) MERYEM ADIBELLİ (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 9 anni di reclusione
23) MESUT BAĞCIK (membro dell’Assemblea HDP) 9 anni di reclusione
24) NEZİR ÇAKAN (Membro del comitato esecutivo dell’HDP) 9 anni di reclusione
Coincidenza non certo casuale, tale sentenza è piombata in contemporanea con il viaggio del ministro degli esteri Hakan Fidan in Iraq. Per ottenere la definitiva messa la bando del PKK, sia da parte del governo centrale, sia da quello regionale curdo di Erbil (sotto la guida del PDK di Barzani).
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 2024/5/21 - 09:36
1 NOVEMBRE 2024: giornata mondiale per Kobanê
Gianni Sartori
Forse è nel cimitero di Kobane che bisognerebbe recarsi in questi giorni per non dimenticare (come sembra aver fatto da tempo l'opinione pubblica mondiale) il sacrificio di migliaia di curdi caduti combattendo contro Daesh.
Premessa. Con Tev-Dem si indica la Tevgera Civaka Demoqratik (“Movimento della società democratica”) ossia il progetto sociale sperimentato nel Rojava: il confederalismo democratico. In sintesi, Tev-Dem è la forma di organizzazione della società ancora in atto, nonostante tutto, nel Rojava.
A dieci anni dalla Resistenza di Kobanê (novembre 2014), TEV-DEM rivolge un appello al sostegno internazionale per la popolazione del Rojava sotto attacco da parte dell'esercito di Ankara e dei suoi ascari jihadisti. In quella che ormai si celebra regolarmente da dieci anni il 1 novembre (“Giornata mondiale per Kobanê), il Movimento per una società democratica si rivolge al mondo (per quanto in altre faccende affaccendato) affinché non consenta allo Stato turco, supporter dello Stato islamico che il 15 settembre 2014 aveva assaltato Kobanê, di completarne l'opera.
Migliaia di combattenti curdi erano caduti nella battaglia con gli islamisti tra settembre 2014 e gennaio 2015. Mentre i combattimenti causavano la quasi completa distruzione di Kobanê, oltre 300mila persone erano ridotte nella condizione di sfollati-profughi interni.
Come si legge nel comunicato di TEV-DEM “a Kobanê è stata condotta una resistenza senza precedenti. La città è diventata un simbolo mondiale di resistenza per i valori comuni dell'umanità”.
All'epoca, dal carcere di Imrali, era giunto un altro appello, quello di Abdullah Öcalan che chiamava i curdi alla mobilitazione generale per difendere questa cittadina frontaliera nel nord della Siria. Sempre all'epoca, centinaia di milgliaia di persone, forse milioni, erano scese in strada il 1 novembre (proclamato da allora “Giornata mondiale per Kobanê").
Continuando nella sua dichiarazione, TEV-DEM spiega che “dieci anni dopo Kobanê è nuovamante sotto attacco da parte dello Stato turco e dei suoi proxy jihadisti”. Per questo “ci appelliamo ad un maggior sostegno alle conquiste dei popoli del nord e dell'est della Siria. Il Rojava ha resistito per l'intera umanità, l'umanità deve ora impegnarsi per il Rojava”.
Una possibile spiegazione dell'ostinato persistere di Erdogan nella sua guerra contro i curdi, è stata ipotizzata in una recente intervista (all'agenzia ANHA) da Xerîb Hiso.
Denunciando la “politica di saccheggio e occupazione” di Ankara nelle regioni del nord e dell'est della Siria, il copresidente del Partito dell'Unione democratica (PYD, Partiya Yekîtiya Demokrat) ha condannato le aggressioni di quello che costituisce il secondo esercito della Nato contro la popolazione e le istituzioni locali. Aggressioni che sarebbero una conferma della sostanziale “perdita di influenza della Turchia in Medio-oriente”.
“Lo Stato turco – ha spiegato – si è illuso per lungo tempo che attaccando i curdi si sarebbe rafforzato. Un approccio del tutto sbagliato. Forse ha potuto funzionare in passato, ma alla fine non darà alcun risultato. Da oltre un secolo, massacri, saccheggi e occupazioni non hanno portato niente di positivo alla Turchia. Mentre si ostina a procedere sulla strada del fascismo e della brutalità, in realtà va perdendo il suo ruolo nella regione mediorientale, sempre più sconfitto e frammentato. Sul piano interno la Turchia sta cadendo nel caos, una conferma che la soluzione dei suoi problemi non può rinvenirla fuori dalle proprie frontiere. Gli attacchi contro di noi non sono altro che atti vigliacchi e terroristici. I tempi in cui si poteva affamare e scacciare la popolazione sono definitivamente finiti e la volontà del popolo alla fine vincerà”.
Indispensabile poi dire due parole anche su quanto avviene più a sud e a est, a Deir ez-Zor lungo le rive dell'Eufrate. Con le recenti immagini (criticate severamente da “campisti” di varia estrazione) di esponenti delle Forze Democratiche Siriane (FDS; in arabo الديمقراطي , in curdo Quwwāt Sūriyā al-Dīmuqrāṭīya; in siriaco Hêzên Sûriya Demokratîk; in inglese Syrian Democratic Forces) dialogare fraternamente con militari della Coalizione internazionale chiaramente statunitensi). Con i simboli della rivoluzione curda (v. La stella rossa) a fianco della bandiera stelle e strisce.
Il video (SDF press center) documentava la recente costituzione di una pattuglia congiunta, costituita appunto da FDS (o SDF) e forze della Coalizione Internazionale a Deir ez-Zor. In difesa della popolazione ripetutamente sottoposta agli attacchi di Daesh e di non meglio precisate “milizie affiliate ai servizi di sicurezza di Damasco” (tribali arabi forse). In risposta, si legge in un comunicato di SDF press center, alle "ripetute richieste delle tribù e dei popoli della regione, richieste emerse nel corso di precedenti riunioni con il comando generale delle SDF e della Coalizione internazionale".
A tale scopo sarebbe stata “rafforzata la capacità di combattimento per proteggere la popolazione dalle minacce portate da fazioni ostili”.
Nelle immagini si vedono appunto i blindati USA e i furgoni curdi percorrere insieme le strade. Poi i componenti della pattuglia congiunta (con i rispettivi simboli di riconoscimento, stella rossa in campo verde e bandierina a stelle e strisce) distribuire volantini informativi alla popolazione (con frotte di bambini che ne fanno incetta).
Capisco la contraddizione e non dico che faccia piacere. Ma – chiedo umilmente – che cazzo dovrebbero fare i curdi e gli altri popoli dell'area, visto che tutti (tutti, anche i francesi ormai) li hanno abbandonati al loro destino? Lasciarsi massacrare buoni e zitti? Affidarsi a Putin e Bashar al-Assad (proprio quando sembra in ripresa l'idillio con Erdogan)?
Fatemi sapere che magari glielo spiego.
Gianni Sartori
Gianni Sartori
Forse è nel cimitero di Kobane che bisognerebbe recarsi in questi giorni per non dimenticare (come sembra aver fatto da tempo l'opinione pubblica mondiale) il sacrificio di migliaia di curdi caduti combattendo contro Daesh.
Premessa. Con Tev-Dem si indica la Tevgera Civaka Demoqratik (“Movimento della società democratica”) ossia il progetto sociale sperimentato nel Rojava: il confederalismo democratico. In sintesi, Tev-Dem è la forma di organizzazione della società ancora in atto, nonostante tutto, nel Rojava.
A dieci anni dalla Resistenza di Kobanê (novembre 2014), TEV-DEM rivolge un appello al sostegno internazionale per la popolazione del Rojava sotto attacco da parte dell'esercito di Ankara e dei suoi ascari jihadisti. In quella che ormai si celebra regolarmente da dieci anni il 1 novembre (“Giornata mondiale per Kobanê), il Movimento per una società democratica si rivolge al mondo (per quanto in altre faccende affaccendato) affinché non consenta allo Stato turco, supporter dello Stato islamico che il 15 settembre 2014 aveva assaltato Kobanê, di completarne l'opera.
Migliaia di combattenti curdi erano caduti nella battaglia con gli islamisti tra settembre 2014 e gennaio 2015. Mentre i combattimenti causavano la quasi completa distruzione di Kobanê, oltre 300mila persone erano ridotte nella condizione di sfollati-profughi interni.
Come si legge nel comunicato di TEV-DEM “a Kobanê è stata condotta una resistenza senza precedenti. La città è diventata un simbolo mondiale di resistenza per i valori comuni dell'umanità”.
All'epoca, dal carcere di Imrali, era giunto un altro appello, quello di Abdullah Öcalan che chiamava i curdi alla mobilitazione generale per difendere questa cittadina frontaliera nel nord della Siria. Sempre all'epoca, centinaia di milgliaia di persone, forse milioni, erano scese in strada il 1 novembre (proclamato da allora “Giornata mondiale per Kobanê").
Continuando nella sua dichiarazione, TEV-DEM spiega che “dieci anni dopo Kobanê è nuovamante sotto attacco da parte dello Stato turco e dei suoi proxy jihadisti”. Per questo “ci appelliamo ad un maggior sostegno alle conquiste dei popoli del nord e dell'est della Siria. Il Rojava ha resistito per l'intera umanità, l'umanità deve ora impegnarsi per il Rojava”.
Una possibile spiegazione dell'ostinato persistere di Erdogan nella sua guerra contro i curdi, è stata ipotizzata in una recente intervista (all'agenzia ANHA) da Xerîb Hiso.
Denunciando la “politica di saccheggio e occupazione” di Ankara nelle regioni del nord e dell'est della Siria, il copresidente del Partito dell'Unione democratica (PYD, Partiya Yekîtiya Demokrat) ha condannato le aggressioni di quello che costituisce il secondo esercito della Nato contro la popolazione e le istituzioni locali. Aggressioni che sarebbero una conferma della sostanziale “perdita di influenza della Turchia in Medio-oriente”.
“Lo Stato turco – ha spiegato – si è illuso per lungo tempo che attaccando i curdi si sarebbe rafforzato. Un approccio del tutto sbagliato. Forse ha potuto funzionare in passato, ma alla fine non darà alcun risultato. Da oltre un secolo, massacri, saccheggi e occupazioni non hanno portato niente di positivo alla Turchia. Mentre si ostina a procedere sulla strada del fascismo e della brutalità, in realtà va perdendo il suo ruolo nella regione mediorientale, sempre più sconfitto e frammentato. Sul piano interno la Turchia sta cadendo nel caos, una conferma che la soluzione dei suoi problemi non può rinvenirla fuori dalle proprie frontiere. Gli attacchi contro di noi non sono altro che atti vigliacchi e terroristici. I tempi in cui si poteva affamare e scacciare la popolazione sono definitivamente finiti e la volontà del popolo alla fine vincerà”.
Indispensabile poi dire due parole anche su quanto avviene più a sud e a est, a Deir ez-Zor lungo le rive dell'Eufrate. Con le recenti immagini (criticate severamente da “campisti” di varia estrazione) di esponenti delle Forze Democratiche Siriane (FDS; in arabo الديمقراطي , in curdo Quwwāt Sūriyā al-Dīmuqrāṭīya; in siriaco Hêzên Sûriya Demokratîk; in inglese Syrian Democratic Forces) dialogare fraternamente con militari della Coalizione internazionale chiaramente statunitensi). Con i simboli della rivoluzione curda (v. La stella rossa) a fianco della bandiera stelle e strisce.
Il video (SDF press center) documentava la recente costituzione di una pattuglia congiunta, costituita appunto da FDS (o SDF) e forze della Coalizione Internazionale a Deir ez-Zor. In difesa della popolazione ripetutamente sottoposta agli attacchi di Daesh e di non meglio precisate “milizie affiliate ai servizi di sicurezza di Damasco” (tribali arabi forse). In risposta, si legge in un comunicato di SDF press center, alle "ripetute richieste delle tribù e dei popoli della regione, richieste emerse nel corso di precedenti riunioni con il comando generale delle SDF e della Coalizione internazionale".
A tale scopo sarebbe stata “rafforzata la capacità di combattimento per proteggere la popolazione dalle minacce portate da fazioni ostili”.
Nelle immagini si vedono appunto i blindati USA e i furgoni curdi percorrere insieme le strade. Poi i componenti della pattuglia congiunta (con i rispettivi simboli di riconoscimento, stella rossa in campo verde e bandierina a stelle e strisce) distribuire volantini informativi alla popolazione (con frotte di bambini che ne fanno incetta).
Capisco la contraddizione e non dico che faccia piacere. Ma – chiedo umilmente – che cazzo dovrebbero fare i curdi e gli altri popoli dell'area, visto che tutti (tutti, anche i francesi ormai) li hanno abbandonati al loro destino? Lasciarsi massacrare buoni e zitti? Affidarsi a Putin e Bashar al-Assad (proprio quando sembra in ripresa l'idillio con Erdogan)?
Fatemi sapere che magari glielo spiego.
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 2024/11/1 - 10:10
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