Dans un coin pourri
Du pauvre Paris,
Sur un' place,
L'est un vieux bistrot
Tenu pas un gros
Dégueulasse.
Si t'as le bec fin,
S'il te faut du vin
D' premièr' classe,
Va boire à Passy,
Le nectar d'ici
Te dépasse.
Mais si t'as l' gosier
Qu'une armur' d'acier
Matelasse,
Goûte à ce velours,
Ce petit bleu lourd
De menaces.
Tu trouveras là
La fin' fleur de la
Populace,
Tous les marmiteux,
Les calamiteux,
De la place.
Qui viennent en rang,
Comme les harengs,
Voir en face
La bell' du bistrot,
La femme à ce gros
Dégueulasse.
Que je boive à fond
L'eau de tout's les fon-
tain's Wallace,
Si, dès aujourd'hui,
Tu n'es pas séduit
Par la grâce
De cett' joliì fé'
Qui, d'un bouge, a fait
Un palace.
Avec ses appas,
Du haut jusqu'en bas,
Bien en place.
Ces trésors exquis,
Qui les embrass', qui
Les enlace?
Vraiment, c'en est trop!
Tout ça pour ce gros
Dégueulasse!
C'est injuste et fou,
Mais que voulez-vous
Qu'on y fasse?
L'amour se fait vieux,
Il a plus les yeux
Bien en face.
Si tu fais ta cour,
Tâch' que tes discours
Ne l'agacent.
Sois poli, mon gars,
Pas de geste ou ga-
re à la casse!
Car sa main qui claqu'
Punit d'un flic-flac
Les audaces.
Certes, il n'est pas né
Qui mettra le nez
Dans sa tasse.
Pas né, le chanceux
Qui dégèl'ra ce
Bloc de glace.
Qui fera dans l' dos
Les corne' à ce gros
Dégueulasse.
Dans un coin pourri
Du pauvre Paris,
Sur un' place,
Une espèc' de fé',
D'un vieux bouge, a fait
Un palace.
Du pauvre Paris,
Sur un' place,
L'est un vieux bistrot
Tenu pas un gros
Dégueulasse.
Si t'as le bec fin,
S'il te faut du vin
D' premièr' classe,
Va boire à Passy,
Le nectar d'ici
Te dépasse.
Mais si t'as l' gosier
Qu'une armur' d'acier
Matelasse,
Goûte à ce velours,
Ce petit bleu lourd
De menaces.
Tu trouveras là
La fin' fleur de la
Populace,
Tous les marmiteux,
Les calamiteux,
De la place.
Qui viennent en rang,
Comme les harengs,
Voir en face
La bell' du bistrot,
La femme à ce gros
Dégueulasse.
Que je boive à fond
L'eau de tout's les fon-
tain's Wallace,
Si, dès aujourd'hui,
Tu n'es pas séduit
Par la grâce
De cett' joliì fé'
Qui, d'un bouge, a fait
Un palace.
Avec ses appas,
Du haut jusqu'en bas,
Bien en place.
Ces trésors exquis,
Qui les embrass', qui
Les enlace?
Vraiment, c'en est trop!
Tout ça pour ce gros
Dégueulasse!
C'est injuste et fou,
Mais que voulez-vous
Qu'on y fasse?
L'amour se fait vieux,
Il a plus les yeux
Bien en face.
Si tu fais ta cour,
Tâch' que tes discours
Ne l'agacent.
Sois poli, mon gars,
Pas de geste ou ga-
re à la casse!
Car sa main qui claqu'
Punit d'un flic-flac
Les audaces.
Certes, il n'est pas né
Qui mettra le nez
Dans sa tasse.
Pas né, le chanceux
Qui dégèl'ra ce
Bloc de glace.
Qui fera dans l' dos
Les corne' à ce gros
Dégueulasse.
Dans un coin pourri
Du pauvre Paris,
Sur un' place,
Une espèc' de fé',
D'un vieux bouge, a fait
Un palace.
Contributed by Riccardo Venturi - 2015/11/17 - 17:11
Language: Italian
Traduzione italiana di Riccardo Venturi
17 novembre 2015
17 novembre 2015
IL BISTROT
In un angolo marcio
della Parigi povera,
su una piazza
c'è un vecchio bistrot
tenuto da un bestione
di merda.
Se hai il palato fino,
se ti ci vuole vino
di prima classe,
vai a bere a Passy, [1]
il nettare di qui
non lo reggi.
Ma se hai la gola
foderata d'una armatura
d'acciaio,
gusta questa delizia,
questo vinaccio
minaccioso.
Ci troverai, là,
il fior fiore della
marmarglia,
tutti gli sfigati,
tutti i disgraziati
del posto
che vengono in fila
come aringhe
a vedere in faccia
la bella del bistrot,
la moglie di quel bestione
di merda.
Che io beva a fondo
l'acqua di tutte le fontanelle
Wallace, [2]
se da oggi in poi
sedotto non sarai
dalla grazia
di quella fatina
che ha trasformato un buco
in un palazzo,
con le sue bellezze
tutte belle a posto
da cima a fondo.
Quei tesori squisiti,
chi li abbraccia, chi
li stringe?
E' davvero troppo
tutto questo per quel bestione
di merda.
E' ingiusto, è pazzesco,
però che ci vole-
te fare?
L'amore sta invecchiando,
non ci vede più
molto bene.
Se le fai la corte
bada che quel che dici
non la irritino,
sii educato, ragazzo mio,
mani a posto o
succede un casino.
Ché con la sua mano da schiaffi
punisce a ciaffate
gli audaci,
certo ancora non è nato
chi gliele farà
sotto il naso.
Non è ancora nato
il tipo fortunato
che sgelerà 'sto ghiacciolo,
che metterà di nascosto
le corna a quel bestione
di merda.
In un angolo marcio
della Parigi povera.
su una piazza,
una specie di fata
ha trasformato un buco
in un palazzo.
In un angolo marcio
della Parigi povera,
su una piazza
c'è un vecchio bistrot
tenuto da un bestione
di merda.
Se hai il palato fino,
se ti ci vuole vino
di prima classe,
vai a bere a Passy, [1]
il nettare di qui
non lo reggi.
Ma se hai la gola
foderata d'una armatura
d'acciaio,
gusta questa delizia,
questo vinaccio
minaccioso.
Ci troverai, là,
il fior fiore della
marmarglia,
tutti gli sfigati,
tutti i disgraziati
del posto
che vengono in fila
come aringhe
a vedere in faccia
la bella del bistrot,
la moglie di quel bestione
di merda.
Che io beva a fondo
l'acqua di tutte le fontanelle
Wallace, [2]
se da oggi in poi
sedotto non sarai
dalla grazia
di quella fatina
che ha trasformato un buco
in un palazzo,
con le sue bellezze
tutte belle a posto
da cima a fondo.
Quei tesori squisiti,
chi li abbraccia, chi
li stringe?
E' davvero troppo
tutto questo per quel bestione
di merda.
E' ingiusto, è pazzesco,
però che ci vole-
te fare?
L'amore sta invecchiando,
non ci vede più
molto bene.
Se le fai la corte
bada che quel che dici
non la irritino,
sii educato, ragazzo mio,
mani a posto o
succede un casino.
Ché con la sua mano da schiaffi
punisce a ciaffate
gli audaci,
certo ancora non è nato
chi gliele farà
sotto il naso.
Non è ancora nato
il tipo fortunato
che sgelerà 'sto ghiacciolo,
che metterà di nascosto
le corna a quel bestione
di merda.
In un angolo marcio
della Parigi povera.
su una piazza,
una specie di fata
ha trasformato un buco
in un palazzo.
NOTE
[1] Passy, nel XVI arrondissement, è un quartiere molto elegante e alla moda; o perlomeno lo era nel 1960, ora non saprei. Quindi vi si beveva vino buono e, presumibilmente, molto caro.
[2] Nel 1872 un miliardario americano di nome Wallace, innamorato di Parigi (ed esserlo innamorato l'anno dopo la Comune non era cosa da poco), fece installare a sue complete spese moltissime fontanelle che, tuttora, sono mantenute in perfetta efficienza dal Comune. Come fra Brassens, bisogna pronunciare rigorosamente "valàss", guai a dire "uòllas".
[1] Passy, nel XVI arrondissement, è un quartiere molto elegante e alla moda; o perlomeno lo era nel 1960, ora non saprei. Quindi vi si beveva vino buono e, presumibilmente, molto caro.
[2] Nel 1872 un miliardario americano di nome Wallace, innamorato di Parigi (ed esserlo innamorato l'anno dopo la Comune non era cosa da poco), fece installare a sue complete spese moltissime fontanelle che, tuttora, sono mantenute in perfetta efficienza dal Comune. Come fra Brassens, bisogna pronunciare rigorosamente "valàss", guai a dire "uòllas".
Language: Italian (Toscano livornese)
A' Terrazzini - La versione livornese dell' Anonimo Toscano del XXI Secolo
(6 giugno 2018)
Era forse possibile non accogliere l'invito fatto da Marco Valdo M.I. nel suo Dialogue maïeutique? Ecco quindi che l'Anonimo Toscano del XXI Secolo ci offre questa sua rivisitazione in livornese del Bistrot di Brassens ambientata in un'osteria a pochi passi da dove egli ha abitato a lungo (l'Anonimo, non Brassens). L'Enoteca Mannari di via dei Terrazzini (quartiere del Pontino) aveva il suo rispettabile nome ufficiale grecizzante (ma, in greco, si dice enopòlio: οἱνοπωλεῖον), ma poi, dal nome della strada, per tutti era l'Osteria dei Terrazzini in un quartiere, il Pontino, dove parecchie strade prendono nome da osterie (Via della Pina d'Oro) e da puttane (via Eugenia, via Adriana e la stupefacente via Pompilia). L'adattamento dell'Anonimo è ovviamente anche un omaggio ad un'antica realtà ben conosciuta, dato che egli vi si recava a bé' giornalmente e sovente notturnamente: grazie al vinaccio di quell'osteria, ad esempio, detto Anonimo una sera è rotolato allegramente per tutta una rampa di scale della stazione di Livorno, spiaccicandosi poi ner muro. L'Anonimo si scusa ovviamente per non conoscere altrettanto bene i bistrot parigini (ma assai bene gli estaminets del circondario di Valenciennes). La rivisitazione, o adattamento, presenta forse un paio di strofe in più rispetto all'originale: pazienza. L'Anonimo tiene infine a precisare di essere contrario alla comune affermazione secondo la quale l'enjambement (in ultima analisi procedente dall'antichissimo scazonte della metrica classica), così tipico della metrica francese e di cui Brassens fa uso spesso e volentieri, mal si adatta alla metrica nostrana: ha quindi enjambato non poco in questo testo.
(6 giugno 2018)
Era forse possibile non accogliere l'invito fatto da Marco Valdo M.I. nel suo Dialogue maïeutique? Ecco quindi che l'Anonimo Toscano del XXI Secolo ci offre questa sua rivisitazione in livornese del Bistrot di Brassens ambientata in un'osteria a pochi passi da dove egli ha abitato a lungo (l'Anonimo, non Brassens). L'Enoteca Mannari di via dei Terrazzini (quartiere del Pontino) aveva il suo rispettabile nome ufficiale grecizzante (ma, in greco, si dice enopòlio: οἱνοπωλεῖον), ma poi, dal nome della strada, per tutti era l'Osteria dei Terrazzini in un quartiere, il Pontino, dove parecchie strade prendono nome da osterie (Via della Pina d'Oro) e da puttane (via Eugenia, via Adriana e la stupefacente via Pompilia). L'adattamento dell'Anonimo è ovviamente anche un omaggio ad un'antica realtà ben conosciuta, dato che egli vi si recava a bé' giornalmente e sovente notturnamente: grazie al vinaccio di quell'osteria, ad esempio, detto Anonimo una sera è rotolato allegramente per tutta una rampa di scale della stazione di Livorno, spiaccicandosi poi ner muro. L'Anonimo si scusa ovviamente per non conoscere altrettanto bene i bistrot parigini (ma assai bene gli estaminets del circondario di Valenciennes). La rivisitazione, o adattamento, presenta forse un paio di strofe in più rispetto all'originale: pazienza. L'Anonimo tiene infine a precisare di essere contrario alla comune affermazione secondo la quale l'enjambement (in ultima analisi procedente dall'antichissimo scazonte della metrica classica), così tipico della metrica francese e di cui Brassens fa uso spesso e volentieri, mal si adatta alla metrica nostrana: ha quindi enjambato non poco in questo testo.
A' TERRAZZINI
Se giravi 'ntorno
Pe' tutta Livorno
Ar Pontino [1]
C'era un'osteria,
Tre tavoli e vìa
A be' ir vino.
E c'era ir padrone
Di merda, un bestione
Già briào
Alle nov' e mezzo,
Puzzava di lezzo
Un dìo 'r fiào. [2]
Se volevi 'r vino
Bòno e sopraffino,
Ir Sassi'àia,
Dovevi pagà'
Pe' andatti a 'mbriaà'
All'Ornellàia. [3]
Quà c'è quer vinaccio
Lurido e minaccio-
so a quartini,
O a mezzi litri,
Vedi 'n po', Dimitri, [4]
Che posticini.
Ci dovevi avé'
Stòmao pe' tré
Foderato,
Chi ciandàva a bé
Si scordava se
Era entrato.
C'erano a sedé'
Sempre du' o tré
Disgrazziati,
Che come babbei
Guardavano lei
Estasiati.
Unzè mai saputo
Dé come quer bruto,
Quer briào
Ciavesse una moglie
Bella che ti toglie
Tutto 'r fiào.
C'eran delle sere
Che tutto ir quartiere,
Mezza 'Uropa,
Stava fino all'ò-
tto a mirà quer po-
pò' di topa.
Vorrè' traannà
Cento litri d'à-
cqua Uliveto [5]
Se anco tu di là
'Un passavi a fa'
Ir discreto.
A vedé' la fata
Che l'ha trasformata
I Terrazzini,
In una delìzzia
Piena di letìzzia
E d'amorini.
Se ripenzo a chi
La baciava, io ci
Sto basito,
Quer bestione, quer
Gorillone der
zu' marito.
Se ripenzo a chi
L'abbracciava, a chi
L'ha sposata,
Mi viene da dì'
Che ciò voglia di
Un'aranciata.
E che ci vòi fa'?
Ciài da smoccolà' [6]
Gesuccristo,
Se l'amore è cèo,
Certo quer babbeo
Un cià ma' visto.
E ciài da provà' !
Si rigira e, pààà!,
Giù manate,
E 'un ci riprovà',
Sennò lei ti dà
Bottigliate.
Mentre ir zu' marito
Tutto intenerito
E innamorato,
Offre un bicchiere
Di vinaccio a bere
Ar marcapitato.
Unn'è ancora nato
Dé ir fortunato
Che ci sgrilla,
Che 'ni metterà
Corne a rondemà [7]
A quer gorilla.
Se giravi 'ntorno
Pe' tutta Livorno
Ar Pontino,
La fata turchina
In una cantina
Verzava ir vino.
Se giravi 'ntorno
Pe' tutta Livorno
Ar Pontino [1]
C'era un'osteria,
Tre tavoli e vìa
A be' ir vino.
E c'era ir padrone
Di merda, un bestione
Già briào
Alle nov' e mezzo,
Puzzava di lezzo
Un dìo 'r fiào. [2]
Se volevi 'r vino
Bòno e sopraffino,
Ir Sassi'àia,
Dovevi pagà'
Pe' andatti a 'mbriaà'
All'Ornellàia. [3]
Quà c'è quer vinaccio
Lurido e minaccio-
so a quartini,
O a mezzi litri,
Vedi 'n po', Dimitri, [4]
Che posticini.
Ci dovevi avé'
Stòmao pe' tré
Foderato,
Chi ciandàva a bé
Si scordava se
Era entrato.
C'erano a sedé'
Sempre du' o tré
Disgrazziati,
Che come babbei
Guardavano lei
Estasiati.
Unzè mai saputo
Dé come quer bruto,
Quer briào
Ciavesse una moglie
Bella che ti toglie
Tutto 'r fiào.
C'eran delle sere
Che tutto ir quartiere,
Mezza 'Uropa,
Stava fino all'ò-
tto a mirà quer po-
pò' di topa.
Vorrè' traannà
Cento litri d'à-
cqua Uliveto [5]
Se anco tu di là
'Un passavi a fa'
Ir discreto.
A vedé' la fata
Che l'ha trasformata
I Terrazzini,
In una delìzzia
Piena di letìzzia
E d'amorini.
Se ripenzo a chi
La baciava, io ci
Sto basito,
Quer bestione, quer
Gorillone der
zu' marito.
Se ripenzo a chi
L'abbracciava, a chi
L'ha sposata,
Mi viene da dì'
Che ciò voglia di
Un'aranciata.
E che ci vòi fa'?
Ciài da smoccolà' [6]
Gesuccristo,
Se l'amore è cèo,
Certo quer babbeo
Un cià ma' visto.
E ciài da provà' !
Si rigira e, pààà!,
Giù manate,
E 'un ci riprovà',
Sennò lei ti dà
Bottigliate.
Mentre ir zu' marito
Tutto intenerito
E innamorato,
Offre un bicchiere
Di vinaccio a bere
Ar marcapitato.
Unn'è ancora nato
Dé ir fortunato
Che ci sgrilla,
Che 'ni metterà
Corne a rondemà [7]
A quer gorilla.
Se giravi 'ntorno
Pe' tutta Livorno
Ar Pontino,
La fata turchina
In una cantina
Verzava ir vino.
[1] Il quartiere del centro di Livorno dove si trova, appunto, via dei Terrazzini (propriamente: San Marco-Pontino). L'Anonimo Toscano del XXI Secolo vi ha abitato non pochi anni.
[2] Non dico il fiato.
[3] Tenuta vinicola di Bolgheri (LI) attigua a quella del Sassicaia; ma mentre quest'ultima è di proprietà dei marchesi Incisa Della Rocchetta, l'Ornellaia è stata dei marchesi Antinori e ora è dei marchesi Frescobaldi. Dai marchesi, come si può vedere, a Bolgheri comunque non si scappa. In entrambe le tenute si producono noti e costosissimi vini Supertuscan (Bolgheri DOC superiore).
[4] Una dedica al nostro nuovo amico Dimitri Steenvoorden.
[5] L'acqua termale d'Uliveto, come dì, pur essendo assai famosa a mio modesto parere fa veramente caà. In più sgorga nel comune di Vicopisano, vale a dire in provincia -iddìo ne scampi- di Pisa.
[6] Bestemmiare.
[7] A profusione, in abbondanza, oppure a casaccio tutt'attorno: tirà' ceffoni a rondemà. Antica espressione francese, à (la) ronde main, fissatasi chissà come nel livornese popolare, che del resto labronicizza anche l'inglese: te'erìsi (“pigliatela comoda”, da take it easy), camelò (“vieni qua”, da come along).
[2] Non dico il fiato.
[3] Tenuta vinicola di Bolgheri (LI) attigua a quella del Sassicaia; ma mentre quest'ultima è di proprietà dei marchesi Incisa Della Rocchetta, l'Ornellaia è stata dei marchesi Antinori e ora è dei marchesi Frescobaldi. Dai marchesi, come si può vedere, a Bolgheri comunque non si scappa. In entrambe le tenute si producono noti e costosissimi vini Supertuscan (Bolgheri DOC superiore).
[4] Una dedica al nostro nuovo amico Dimitri Steenvoorden.
[5] L'acqua termale d'Uliveto, come dì, pur essendo assai famosa a mio modesto parere fa veramente caà. In più sgorga nel comune di Vicopisano, vale a dire in provincia -iddìo ne scampi- di Pisa.
[6] Bestemmiare.
[7] A profusione, in abbondanza, oppure a casaccio tutt'attorno: tirà' ceffoni a rondemà. Antica espressione francese, à (la) ronde main, fissatasi chissà come nel livornese popolare, che del resto labronicizza anche l'inglese: te'erìsi (“pigliatela comoda”, da take it easy), camelò (“vieni qua”, da come along).
Language: French
Version française – AUX TERRASSES – Marco Valdo M.I. – 2018
A’ Terrazzini – La versione livornese dell’ Anonimo Toscano del XXI Secolo
(6 giugno 2018)
Dialogue Maïeutique
Avant de commencer notre dialogue maïeutique proprement dit et en complément aux autres chansons déjà mentionnées sur le même thème ou proches – comme « Le cul de la patronne », je voudrais signaler en vrac : La Madelon Quand Madelon…, Le Pinard – toutes deux ont inspiré le texte :
et d’autre chansons de port et de femmes-phares : Mylord (Moustaki), Ostende (Caussimon, Ferré et d’autres), Adélaïde (Debronckart) et je m’en tiens à la langue française. J’imagine qu’on pourrait construire tout un parcours autour des ports, des bistrots et des femmes qu’on y trouve et des hommes qui s’y égarent.
Ce serait certainement passionnant, dit Lucien l’âne, mais poursuivons.
Dès lors, Lucien l’âne mon ami, revenons à cet étonnant exercice de style – Raymond Queneau en a fait tout un livre – et parlons un peu de cet étonnant et magnifique A’ Terrazzini que l’Athée du XXIème Siècle nous a offert. C’est ce que Riccardo Venturi appelle une revisitation ; elle est en livournais – une revisitation du Bistrot de Georges Brassens. À moins, c’est une hypothèse que j’avance sur la pointe des pieds, à moins que ce ne soit Georges Brassens qui ait nocturnement, entre deux gallons de « pinard menaçant », hanté le-dit Anonyme – Athée, comme il se doit. Ça s’est déjà vu à Berlin quand Villon hanta Wolf Biermann Ballade auf den Dichter François Villon.
C’est un peu stupéfiant, dit Lucien l’âne. Enfin, si je comprends, Marco Valdo M.I., le jeu continue. Georges Brassens a écrit, composé et interprété Le bistrot. Riccardo Venturi en a fait une traduction en italien assez proche, d’où le titre « Il BISTROT » ; on lui suggère de la traduire en livournais. Comble de chance, notre Ventu fait appel à son hétéronyme l’Athée du XXIème Siècle, dit ici pour la commodité du discours l’Athée XXI, lequel maîtrise la langue des côtes et du port. L’Anonyme accède à la pressante demande et nous envoie ce « À Terrazzini ». Est-ce bien là qu’on en est ?
Oui et non, Lucien l’âne mon ami. Oui, car on y est arrivé – et pas sans mal et non, car on en est un pas plus loin avec cet « Aux Terrasses », qui est la version française que je viens d’en faire. Note immédiatement que cette version française au lieu de clore le cycle et de mettre fin au jeu, pourrait bien relancer encore la balle. En effet, comme je l’ai établie, je le sais pertinemment, elle est (forcément) différente de la version livournaise (qu’elle traduit cependant assez correctement) et tellement différente qu’il conviendrait – pour la clarté de la discussion – de la traduire en livournais ou en italien.
Moi, Marco Valdo M.I. mon ami, je m’amuse beaucoup à regarder cette dérive, cette évolution. On dirait un phénomène proche de celui qui se passe dans la nature. Donc, B réplique A (mais pas tout à fait), C réplique B (mais un peu adapté), D réplique C (et décale encore) et ainsi de suite aussi loin que l’on veut. Moi, je me demande où on finirait après des dizaines de translations. Sans attendre jusque-là, je me contente déjà de tes « Terrasses », je regarde, je compare, je m’étonne, je m’esbaubis et j’attends – j’espère – je souhaite la version suivante. Et « ad infinitum ».
Tu fais bien de le dire, Lucien l’âne mon ami : « ad infinitum » ; ce pourrait d’ailleurs être la devise, le motto des Chansons contre la Guerre. D’autre part, c’est une suggestion excellente de demander de prolonger ces traductions en cascade. Le tout serait de trouver des joueurs, mais l’expérience vaut d’être tentée. En tout cas, si demain, une nouvelle traduction de ce « Aux Terrasses » en italien, ou en toscan ou en romanesque apparaissait, je ne manquerais pour rien au monde d’en faire à mon tour une version française. Ces cascades seraient des recherches précieuses pour comprendre le phénomène de traduction, mais aussi l’évolution des langues et ce pourrait être éclairant sur le fonctionnement intime de la pensée.
Oh, dit Lucien l’âne, rien n’interdit, rien n’empêche comme pour « La Déclaration Universelle des Droits », qu’on en fasse sur mesure une version dans n’importe quelle langue. Évidemment dans ce cas (mettons en polonais – ce qui suppose l’exploration d’un caboulot de Varsovie ou de Gdansk, ou, ou… au choix ; une version grecque, ou espagnole, ou allemande ou, ou, ou…), si la langue t’échappe, il faudra attendre une version italienne qui ne manquerait pas de surgir un jour dans les Chansons contre la Guerre.
Encore une fois, je suis impatient de voir tout ça. En attendant, reprenons notre tâche et tissons le linceul de ce vieux monde caquetant comme un idiot, plein de mots et de cris (paraphrase en mémoire de John, l’anonyme italien de Londres – XVI et fabuleux traducteur de Montaigne en anglais) et cacochyme.
Heureusement !
Ainsi Parlaient Marco Valdo M.I. et Lucien Lane
A’ Terrazzini – La versione livornese dell’ Anonimo Toscano del XXI Secolo
(6 giugno 2018)
Était-il possible de ne pas accueillir l’invitation que Marco Valdo M.I nous a faite dans son Dialogue maïeutique ? Voilà donc que l’Anonyme Toscan du XXI Siècle nous offre sa revisitation en livournais du Bistrot de Brassens, replacé dans une taverne à quelques pas d’où il a habité un temps (l’Anonyme, pas Brassens). L’œnothèque Mannari des Terrazzini (quartier du Pontino) avait son respectable nom officiel grécisant (mais, en grec, on dit enopòlio : οἱνοπωλεῖον), mais ensuite, quant au nom de la rue, pour tous c’était l’Osteria des Terrazzini dans un quartier, le Pontino, où beaucoup de rues prennent le nom d’osteries (Rue de la Pina d’Oro) et de putains (Eugenia, Adriana et la stupéfiante Pompilia). L’adaptation de l’Anonyme est évidemment même un hommage à une ancienne réalité bien connue, vu qu’il s’y rendait quasi-quotidiennement et souvent nuitamment ; grâce au « vinaccio » de cette taverne, par exemple, le-dit Anonyme un soir est roulé gaiement en bas de toute une rampe d’escalier de la station de Livourne, s’écrasant enfin dans un mur. L’Anonyme s’excuse évidemment de ne pas connaître aussi bien les bistrots parisiens (mais assez bien les estaminets de la région de Valenciennes). Sa revisitation, ou adaptation, présente peut-être l’une ou l’autre strophe en plus que l’original : patience. L’Anonyme tient enfin à préciser être contraire à l’affirmation commune selon laquelle l’enjambement (en dernière analyse, dérivant en de l’ancien scazonte de la métrique classique), si typique de la métrique française et dont Brassens use souvent et volontiers, s’adapte mal à la métrique locale : il a donc enjambé assez bien dans ce texte.(A.T.XXI)
Dialogue Maïeutique
Avant de commencer notre dialogue maïeutique proprement dit et en complément aux autres chansons déjà mentionnées sur le même thème ou proches – comme « Le cul de la patronne », je voudrais signaler en vrac : La Madelon Quand Madelon…, Le Pinard – toutes deux ont inspiré le texte :
« Ici, le pinard, c’est de la vinasse
Fatale et grasse
À deux ronds
Le demi-litron de Madelon.
Imaginez un peu, mes amis,
Quel boui-boui ! »
Fatale et grasse
À deux ronds
Le demi-litron de Madelon.
Imaginez un peu, mes amis,
Quel boui-boui ! »
et d’autre chansons de port et de femmes-phares : Mylord (Moustaki), Ostende (Caussimon, Ferré et d’autres), Adélaïde (Debronckart) et je m’en tiens à la langue française. J’imagine qu’on pourrait construire tout un parcours autour des ports, des bistrots et des femmes qu’on y trouve et des hommes qui s’y égarent.
Ce serait certainement passionnant, dit Lucien l’âne, mais poursuivons.
Dès lors, Lucien l’âne mon ami, revenons à cet étonnant exercice de style – Raymond Queneau en a fait tout un livre – et parlons un peu de cet étonnant et magnifique A’ Terrazzini que l’Athée du XXIème Siècle nous a offert. C’est ce que Riccardo Venturi appelle une revisitation ; elle est en livournais – une revisitation du Bistrot de Georges Brassens. À moins, c’est une hypothèse que j’avance sur la pointe des pieds, à moins que ce ne soit Georges Brassens qui ait nocturnement, entre deux gallons de « pinard menaçant », hanté le-dit Anonyme – Athée, comme il se doit. Ça s’est déjà vu à Berlin quand Villon hanta Wolf Biermann Ballade auf den Dichter François Villon.
C’est un peu stupéfiant, dit Lucien l’âne. Enfin, si je comprends, Marco Valdo M.I., le jeu continue. Georges Brassens a écrit, composé et interprété Le bistrot. Riccardo Venturi en a fait une traduction en italien assez proche, d’où le titre « Il BISTROT » ; on lui suggère de la traduire en livournais. Comble de chance, notre Ventu fait appel à son hétéronyme l’Athée du XXIème Siècle, dit ici pour la commodité du discours l’Athée XXI, lequel maîtrise la langue des côtes et du port. L’Anonyme accède à la pressante demande et nous envoie ce « À Terrazzini ». Est-ce bien là qu’on en est ?
Oui et non, Lucien l’âne mon ami. Oui, car on y est arrivé – et pas sans mal et non, car on en est un pas plus loin avec cet « Aux Terrasses », qui est la version française que je viens d’en faire. Note immédiatement que cette version française au lieu de clore le cycle et de mettre fin au jeu, pourrait bien relancer encore la balle. En effet, comme je l’ai établie, je le sais pertinemment, elle est (forcément) différente de la version livournaise (qu’elle traduit cependant assez correctement) et tellement différente qu’il conviendrait – pour la clarté de la discussion – de la traduire en livournais ou en italien.
Moi, Marco Valdo M.I. mon ami, je m’amuse beaucoup à regarder cette dérive, cette évolution. On dirait un phénomène proche de celui qui se passe dans la nature. Donc, B réplique A (mais pas tout à fait), C réplique B (mais un peu adapté), D réplique C (et décale encore) et ainsi de suite aussi loin que l’on veut. Moi, je me demande où on finirait après des dizaines de translations. Sans attendre jusque-là, je me contente déjà de tes « Terrasses », je regarde, je compare, je m’étonne, je m’esbaubis et j’attends – j’espère – je souhaite la version suivante. Et « ad infinitum ».
Tu fais bien de le dire, Lucien l’âne mon ami : « ad infinitum » ; ce pourrait d’ailleurs être la devise, le motto des Chansons contre la Guerre. D’autre part, c’est une suggestion excellente de demander de prolonger ces traductions en cascade. Le tout serait de trouver des joueurs, mais l’expérience vaut d’être tentée. En tout cas, si demain, une nouvelle traduction de ce « Aux Terrasses » en italien, ou en toscan ou en romanesque apparaissait, je ne manquerais pour rien au monde d’en faire à mon tour une version française. Ces cascades seraient des recherches précieuses pour comprendre le phénomène de traduction, mais aussi l’évolution des langues et ce pourrait être éclairant sur le fonctionnement intime de la pensée.
Oh, dit Lucien l’âne, rien n’interdit, rien n’empêche comme pour « La Déclaration Universelle des Droits », qu’on en fasse sur mesure une version dans n’importe quelle langue. Évidemment dans ce cas (mettons en polonais – ce qui suppose l’exploration d’un caboulot de Varsovie ou de Gdansk, ou, ou… au choix ; une version grecque, ou espagnole, ou allemande ou, ou, ou…), si la langue t’échappe, il faudra attendre une version italienne qui ne manquerait pas de surgir un jour dans les Chansons contre la Guerre.
Encore une fois, je suis impatient de voir tout ça. En attendant, reprenons notre tâche et tissons le linceul de ce vieux monde caquetant comme un idiot, plein de mots et de cris (paraphrase en mémoire de John, l’anonyme italien de Londres – XVI et fabuleux traducteur de Montaigne en anglais) et cacochyme.
Heureusement !
Ainsi Parlaient Marco Valdo M.I. et Lucien Lane
AUX TERRASSES
Si un jour, tu retournes
Te perdre à Livourne,
Au Pontino,
Il y a là-bas une osteria,
Trois tables de guingois,
Va-z-y boire un pot.
Prends garde au patron,
Une merde, un bourrin
Déjà rond
À neuf heures du matin.
Il dégage une senteur
À tuer le malheur.
Si tu veux du vin
De bec de rupin,
Si tu veux ton Sassicaia.
Il te faudra payer
Pour te soûler
À l’Ornellàia.
Ici, le pinard, c’est de la vinasse
Fatale et grasse
À deux ronds
Le demi-litron de Madelon.
Imaginez un peu, mes amis,
Quel boui-boui !
Ici, il vous faut
Un estomac en peau
De taureau.
Quiconque entre là pour boire
Laisse tout espoir
Et sombre dans le noir.
On se retrouve à cet endroit
À deux ou trois
Péquenots,
À la regarder
Comme des dévots
Extasiés.
On n’a jamais su
Comment cet infâme,
Ce ventru,
A eu une femme
Belle à couper
L’envie de pisser.
Certains soirs d’été
Tout le quartier,
Une moitié de l’Europe,
Est là à contempler
En vrais nyctalopes
Ce popotin d’antilope.
J’irai jusqu’à boire
Cent litres
D’eau de ciboire
Si tu tiens
En ermite
Jusqu’au matin.
À voir comment la fée
L’a métamorphosée,
L’osterie, chaque jour,
Se mue en cour du soir,
Pleine d’espoirs
Et de petits amours.
Quand je pense à celui
Qui la baise,
J’en suis tout étourdi.
Un balaise,
Ce Gorille qui
Lui sert de mari.
Quand je repense à celui
Qui l’embrasse,
Qui l’enlace,
Je me dis
Que je boirais bien
L’eau de mon bain.
Mais qu’y peut-on ?
À part penser à ses petons
Et prier Eros et Aphrodite.
Comme l’amour est mal voyant,
Sûr que cet hypocrite
En profite joliment.
Et tu peux essayer !
Elle se raidit et, pan !
La claque. Et
Ne t’y reprends
Pas, sinon elle t’éveille
À coups de bouteille.
Et son mari
Tout attendri,
Tout énamouré,
Offre à boire
Un verre de son pinard
Au maltombé.
Il n’est pas encore né
Le fortuné
Qui la dégèlera,
Qui fera
Des cornes d’élan
À cet orang-outan.
Si un jour, tu retournes
Te perdre à Livourne,
Au Pontino,
La fée Margot,
Dans son caboulot
T’offrira un pot.
Si un jour, tu retournes
Te perdre à Livourne,
Au Pontino,
Il y a là-bas une osteria,
Trois tables de guingois,
Va-z-y boire un pot.
Prends garde au patron,
Une merde, un bourrin
Déjà rond
À neuf heures du matin.
Il dégage une senteur
À tuer le malheur.
Si tu veux du vin
De bec de rupin,
Si tu veux ton Sassicaia.
Il te faudra payer
Pour te soûler
À l’Ornellàia.
Ici, le pinard, c’est de la vinasse
Fatale et grasse
À deux ronds
Le demi-litron de Madelon.
Imaginez un peu, mes amis,
Quel boui-boui !
Ici, il vous faut
Un estomac en peau
De taureau.
Quiconque entre là pour boire
Laisse tout espoir
Et sombre dans le noir.
On se retrouve à cet endroit
À deux ou trois
Péquenots,
À la regarder
Comme des dévots
Extasiés.
On n’a jamais su
Comment cet infâme,
Ce ventru,
A eu une femme
Belle à couper
L’envie de pisser.
Certains soirs d’été
Tout le quartier,
Une moitié de l’Europe,
Est là à contempler
En vrais nyctalopes
Ce popotin d’antilope.
J’irai jusqu’à boire
Cent litres
D’eau de ciboire
Si tu tiens
En ermite
Jusqu’au matin.
À voir comment la fée
L’a métamorphosée,
L’osterie, chaque jour,
Se mue en cour du soir,
Pleine d’espoirs
Et de petits amours.
Quand je pense à celui
Qui la baise,
J’en suis tout étourdi.
Un balaise,
Ce Gorille qui
Lui sert de mari.
Quand je repense à celui
Qui l’embrasse,
Qui l’enlace,
Je me dis
Que je boirais bien
L’eau de mon bain.
Mais qu’y peut-on ?
À part penser à ses petons
Et prier Eros et Aphrodite.
Comme l’amour est mal voyant,
Sûr que cet hypocrite
En profite joliment.
Et tu peux essayer !
Elle se raidit et, pan !
La claque. Et
Ne t’y reprends
Pas, sinon elle t’éveille
À coups de bouteille.
Et son mari
Tout attendri,
Tout énamouré,
Offre à boire
Un verre de son pinard
Au maltombé.
Il n’est pas encore né
Le fortuné
Qui la dégèlera,
Qui fera
Des cornes d’élan
À cet orang-outan.
Si un jour, tu retournes
Te perdre à Livourne,
Au Pontino,
La fée Margot,
Dans son caboulot
T’offrira un pot.
Contributed by Marco Valdo M.I. - 2018/6/8 - 13:02
Nn sono daccordo con alcune traduzioni ...sbaglierò ma " bestione di merda nn è una frase che avrebbe scritto ....infatti nn l ha scritta .
E anche " vinaccio minaccioso " manca totalmente di poesia .. nn rispetta per niente la frase originale .parliamone
E anche " vinaccio minaccioso " manca totalmente di poesia .. nn rispetta per niente la frase originale .parliamone
Steenvoorden.dimitri@Gmail.com - 2018/6/3 - 20:18
Carissimo Dimitri Steenvoorden, se vogliamo parlarne lo faccio volentieri. Inizio col dirti che non intendo minimamente “difendere”o “giustificare” una mia traduzione, o adattamento, o comunque tu voglia chiamare la resa di un testo in un'altra lingua. Lungi da me. Ti dico soltanto che, per me, la “traduzione” è semplicemente, ed esclusivamente, farina del mio sacco. Scritto secondo la mia data sensibilità, che peraltro può variare da momento a momento, e da testo originale a testo originale. La “traduzione” che ho fatto di questa canzone è del 17 novembre 2015: può benissimo darsi che il 18 novembre la avrei fatta in un altro modo, e oggi in un altro ancora. Nel “tradurre”, peraltro, il pensiero di “che cosa avrebbe scritto” tale o tal altro autore non mi tange minimamente, ma non per superbia o indifferenza: semplicemente perché non lo so, e non posso saperlo. Quel che ha scritto un dato autore, Georges Brassens in questo caso, lo si trova esclusivamente nel testo originale, là sta e nessuno, ovviamente, può toccarlo; ma il “traduttore” ha, a mio parere, il diritto e anche il dovere di toccarlo, che stia eseguendo una semplice traduzione senza velleità artistiche, o che stia eseguendo invece una traduzione più o meno “d'arte”, o “poetica”. Ad ogni modo, chiunque “traduca” lo fa esclusivamente secondo i propri intendimenti e secondo la propria poetica, e senza canoni assoluti di “poesia”. A prescindere dagli effettivi risultati e dalla ricezione del proprio lavoro, il “traduttore” opera secondo propri (e, spesso, variabili) canoni. Questo sito ospita migliaia e migliaia di traduzioni e, spesso, se ne hanno diverse dello stesso testo nella medesima lingua: sono tutte, e per natura, differenti. Nell'impostazione, nella terminologia, in ogni cosa. Limitandoci a Brassens, e ignorando le tue competenze linguistiche, ti inviterei comunque a dare un'occhiata alle svariate traduzioni brassensiane effettuate da autori anche importanti sia in italiano, che nelle varie lingue: vedrai che non si tratta affatto di “traduzioni”, ma di adattamenti in proprio. Il 17 novembre 2015, con intendimenti miei propri, si vede che ci avevo in testa un “bestione di merda”. Conosco questa canzone da, direi, una quarantina d'anni e ogni canzone, ogni testo, ha la sua sedimentazione di immagini e di percezioni che, in un dato momento, si coagulano in una espressione. Giusta? Sbagliata? Ragionare in questi termini non mi è mai appartenuto. A volte, traducendo Brassens, ho sentito l'esigenza di essere filologicamente preciso; altre volte ho fatto l'esatto contrario e mi sono lasciato andare a quel che mi passava in testa con tutto il poids très lourd della mia vita. Tutto qui. Ho, in definitiva, altre forme di rispetto verso un testo, che perdipiù non sono né univoche, né intoccabili. Io ho le mie, che espongo; tu avrai, naturalmente, le tue. Poiché, nonostante Le pluriel, ritengo la pluralità un autentico tesoro, e poiché -come saprai- la partecipazione a questo sito è libera per chiunque, non posso quindi fare altro che invitarti a fornire una traduzione di questo testo (e di qualsiasi altro, se vorrai) secondo la tua sensibilità, i tuoi intendimenti, la tua poetica e qualsiasi altra cosa tu ti senta dentro, o addosso. Come avresti reso quella data espressione, quella data parola, quel dato verso? Mi interessa, perché mettere a confronto la diversità è sempre e comunque utile e fruttuoso. Naturalmente intendo una traduzione completa di un testo, non “noterelle” o osservazioni sparse. Cordiali saluti e, spero, a presto.
Riccardo Venturi - 2018/6/4 - 12:06
Le Bistrot – En défense de la traduction
Texte de Riccardo Venturi, publié en note de la chanson Le Bistrot (et de sa traduction par R.V.).
Très cher Dimitri Steenvoorden, si vous voulez en parler, je le fais volontiers. Commençons par dire que je n’entends pas le moins du monde « défendre » ou « justifier » ma traduction, ou adaptation, ou de quelque façon que tu voudras appeler la restitution d’un texte dans une autre langue. Loin de moi. Je te dis seulement que, pour moi, la « traduction » est simplement, et exclusivement, farine de mon moulin. Écrite selon ma sensibilité particulière, qui par ailleurs, peut varier d’un instant à l’autre, et de texte original à texte original. La « traduction » que j’ai faite de cette chanson est du 17 novembre 2015 ; il se pourrait très bien que le 18 novembre, je l’aurais faite d’une autre manière, et aujourd’hui, d’une autre encore. D’autre part, dans la « traduction », la pensée de « ce qu’aurait écrit » tel ou tel autre auteur ne m’effleure pas le moins du monde, non par orgueil ou indifférence, mais simplement parce que je ne le sais pas, et que je ne peux pas le savoir. Ce qu’a écrit un certain auteur, Georges Brassens dans ce cas, se trouve exclusivement dans le texte original, c’est là et personne, évidemment, ne peut le changer ; mais le « traducteur » a, à mon avis, le droit et même le devoir de le changer, qu’il exécute une simple traduction sans velléité artistique, ou qu’il exécute par contre une traduction plus ou moins « d’art », ou « poétique ». De toute façon, n’importe qui qui « traduit », le fait exclusivement comme il l’entend et selon sa propre « poétique », et sans règles absolues de « poésie ». Au-delà des résultats effectifs et de la réception de son travail, le « traducteur » opère selon ses (et, souvent, variables) règles. Ce site accueille des milliers et milliers de traductions et, souvent, il y en a plusieurs d’un même texte dans la même langue : elles sont toutes, et par nature, différentes. Dans la disposition, dans la terminologie, dans toute chose. En nous limitant à Brassens, et en ignorant tes compétences linguistiques, je t’inviterais de toute façon à jeter un coup d’œil aux différentes traductions « brassensiennes » effectuées par des auteurs, certains importants, tant en italien, que dans différentes autres langues : tu verras qu’il ne s’agit pas du tout de « traductions », mais d’adaptations, en vérité. Le 17 novembre 2015, avec mes propres compréhensions, on voit que je nous avais en tête un « bestione di merda ». Je connais cette chanson depuis, disons, une quarantaine d’années et chaque chanson, chaque texte, a sa sédimentation d’images et de perceptions qui, à un moment donné, se coagulent dans une expression. Juste ? Erronée ? Raisonner en ces termes ne m’a jamais plu. Parfois, en traduisant Brassens, j’ai senti l’exigence d’être philologiquement précis ; d’autres fois, j’ai fait exactement le contraire et je me suis laissé aller à ce qui me passait par la tête avec tout « le poids très lourd » de ma vie. Résumons. J’ai, en définitive, certaines formes de respect envers un texte, qui de surcroît ne sont ni univoques, ni intouchables. J’ai les miennes, que je propose ; tu auras, naturellement, les tiennes. Puisque, nonobstant Le pluriel, je considère que la pluralité est un authentique trésor, et puisque – comme tu sauras – la participation à ce site est libre pour chacun, je ne peux donc que t’inviter à fournir une traduction de ce texte (et de n’importe quel autre, si tu voudras) selon ta sensibilité, tes intentions, ta poétique et n’importe quelle autre chose tu ressens, ou penses. Comment aurais-tu rendu telle expression, tel mot, tel vers ? Ça m’intéresse, parce que se confronter à la diversité est toujours et malgré tout, utile et fructueux. Naturellement, j’entends une traduction complète d’un texte, pas des « notules » ou des observations ponctuelles. Salutations cordiales et, j’espère, à bientôt.
Riccardo Venturi – 4/6/2018 – 12:06
Texte de Riccardo Venturi, publié en note de la chanson Le Bistrot (et de sa traduction par R.V.).
Très cher Dimitri Steenvoorden, si vous voulez en parler, je le fais volontiers. Commençons par dire que je n’entends pas le moins du monde « défendre » ou « justifier » ma traduction, ou adaptation, ou de quelque façon que tu voudras appeler la restitution d’un texte dans une autre langue. Loin de moi. Je te dis seulement que, pour moi, la « traduction » est simplement, et exclusivement, farine de mon moulin. Écrite selon ma sensibilité particulière, qui par ailleurs, peut varier d’un instant à l’autre, et de texte original à texte original. La « traduction » que j’ai faite de cette chanson est du 17 novembre 2015 ; il se pourrait très bien que le 18 novembre, je l’aurais faite d’une autre manière, et aujourd’hui, d’une autre encore. D’autre part, dans la « traduction », la pensée de « ce qu’aurait écrit » tel ou tel autre auteur ne m’effleure pas le moins du monde, non par orgueil ou indifférence, mais simplement parce que je ne le sais pas, et que je ne peux pas le savoir. Ce qu’a écrit un certain auteur, Georges Brassens dans ce cas, se trouve exclusivement dans le texte original, c’est là et personne, évidemment, ne peut le changer ; mais le « traducteur » a, à mon avis, le droit et même le devoir de le changer, qu’il exécute une simple traduction sans velléité artistique, ou qu’il exécute par contre une traduction plus ou moins « d’art », ou « poétique ». De toute façon, n’importe qui qui « traduit », le fait exclusivement comme il l’entend et selon sa propre « poétique », et sans règles absolues de « poésie ». Au-delà des résultats effectifs et de la réception de son travail, le « traducteur » opère selon ses (et, souvent, variables) règles. Ce site accueille des milliers et milliers de traductions et, souvent, il y en a plusieurs d’un même texte dans la même langue : elles sont toutes, et par nature, différentes. Dans la disposition, dans la terminologie, dans toute chose. En nous limitant à Brassens, et en ignorant tes compétences linguistiques, je t’inviterais de toute façon à jeter un coup d’œil aux différentes traductions « brassensiennes » effectuées par des auteurs, certains importants, tant en italien, que dans différentes autres langues : tu verras qu’il ne s’agit pas du tout de « traductions », mais d’adaptations, en vérité. Le 17 novembre 2015, avec mes propres compréhensions, on voit que je nous avais en tête un « bestione di merda ». Je connais cette chanson depuis, disons, une quarantaine d’années et chaque chanson, chaque texte, a sa sédimentation d’images et de perceptions qui, à un moment donné, se coagulent dans une expression. Juste ? Erronée ? Raisonner en ces termes ne m’a jamais plu. Parfois, en traduisant Brassens, j’ai senti l’exigence d’être philologiquement précis ; d’autres fois, j’ai fait exactement le contraire et je me suis laissé aller à ce qui me passait par la tête avec tout « le poids très lourd » de ma vie. Résumons. J’ai, en définitive, certaines formes de respect envers un texte, qui de surcroît ne sont ni univoques, ni intouchables. J’ai les miennes, que je propose ; tu auras, naturellement, les tiennes. Puisque, nonobstant Le pluriel, je considère que la pluralité est un authentique trésor, et puisque – comme tu sauras – la participation à ce site est libre pour chacun, je ne peux donc que t’inviter à fournir une traduction de ce texte (et de n’importe quel autre, si tu voudras) selon ta sensibilité, tes intentions, ta poétique et n’importe quelle autre chose tu ressens, ou penses. Comment aurais-tu rendu telle expression, tel mot, tel vers ? Ça m’intéresse, parce que se confronter à la diversité est toujours et malgré tout, utile et fructueux. Naturellement, j’entends une traduction complète d’un texte, pas des « notules » ou des observations ponctuelles. Salutations cordiales et, j’espère, à bientôt.
Riccardo Venturi – 4/6/2018 – 12:06
Dialogue maïeutique
Vois-tu, Lucien l’âne mon ami, quand Riccardo Venturi, que je qualifierai volontiers de « maître traducteur » (et même vu sa taille, de double mètre traducteur)…
Halte-là, laisse-moi t’interrompre. Maître traducteur ?, Marco Valdo M.I. mon ami, en voilà une qualification, n’est-elle pas emphatique ?
Certainement pas, Lucien l’âne mon ami. Il faut comprendre « maître » dans le sens où on parle de « maître boulanger », « maître tailleur », « maître charpentier »… C’est-à-dire celui qui possède les qualités nécessaires pour garantir une bonne « maîtrise » de son métier, de son « art » – entendu comme la manière de faire de l’artisan. Donc, quand Venturi prend la plume pour parler de son « art », il vaut la peine d’en donner une version française (à ma mode, bien entendu) et aussi d’y réfléchir un peu.
J’espère bien, dit Lucien l’âne en relevant le front. J’espère bien qu’on y réfléchira un peu, c’est la moindre des choses sachant que – toute question de personne mise à part – la réflexion de Riccardo Venturi touche au cœur même des Chansons contre la Guerre, un site qui se distingue notamment par son amplitude linguistique, par le nombre de traductions qu’il a recueillies jusqu’ici, par son abyssale liberté d’esprit et – ce qui pourrait paraître paradoxal – sa grande rigueur « littéraire ».
Sans aller plus loin dans ces considérations sur l’art de la traduction – on lira celles de Riccardo Venturi et puis, il est certain qu’on y reviendra encore à cette épineuse question, reprend Marco Valdo M.I. ; c’est un sujet que nous avons déjà plusieurs fois abordé et auquel on est chaque jour confronté. Quant à mes compétences linguistiques, je rappelle que si j’ai traduit des textes provenant de diverses langues, je n’en connais véritablement aucune et c’est tout juste si je maîtrise correctement le français. Cependant, j’y ai appris une règle de logique préliminaire à toute discussion à propos de la traduction : pour qu’une traduction existe, condition sine qua non, il faut et elle doit « changer » le texte original, le « modifier », le « transformer », lui « donner une autre forme » tout en le conservant, bien évidemment et paradoxe inévitable : lui donner d’autres mots, lui inventer des expressions. C’est le principe même de la traduction – on ne peut traduire à moins. En clair, sans changer, modifier, etc, le texte original, il n’y a pas de translation possible. En corollaire, dans l’univers de la chanson, dans l’univers « poétique » – on ne parle pas ici d’un catalogue commercial, l’acte de traduire est une (re)création et le texte qui en résulte est une œuvre à part entière, indépendamment du texte d’origine.
Certes, dit Lucien l’âne, je suis de ton point de vue d’autant plus que nous l’avons souvent abordé, à l’occasion de traductions de diverses langues et de divers auteurs.
Sans donc aller plus loin dans ces considérations, Lucien l’âne mon ami, je voudrais m’attarder un instant sur la « traduction » de l’expression avec laquelle Georges Brassens désigne le patron du bistrot. Tonton Georges – j’utilise ce nom familier pour marquer la connivence qui lie ce site et ses aficionados au poète de Sète, et pour certains aux poètes de Sète et peut-être de Pézenas, je ne sais pas. En l’occurrence, j’insiste, singulièrement R.V., alias Riccardo Venturi, dont on ne peut ignorer le sympathique lien qu’il entretient avec l’œuvre et le personnage de Brassens. Dès lors, le bon Ventu a traduit toute la chanson « Le Bistrot » (comme d’autres chansons de Brassens et de tant d’autres auteurs).
Traduire « Le Bistrot » : déjà, il fallait l’oser, déclare tranquillement Lucien l’âne ; la performance n’était pas si évidente, ni si simple. La pierre d’achoppement du Bistrot, comme il est dit ici et dans la chanson, c’est le patron. Pas la patronne, grands dieux, non !; apparemment, elle recueille l’assentiment enthousiaste de tous les messieurs qui hantent son comptoir. La patronne, rien qu’à l’imaginer, on entend le contre-chant de Ricet Barriet vantant «Le cul de la patronne» et son inénarrable et poétique final :
« Il est beau le cul le cul le cul de la patronne,
Si on l’avait comme drapeau,
On serait tous des héros !!
Taratatatata !!! »
Je voudrais, Lucien l’âne mon ami, rassurer la moralité publique, au Bistrot de Brassens, on voit la patronne « bien en face ». Cela étant, le patron est assez revêche et d’une jalousie de bête sauvage. Bref, Georges Brassens le dit : c’est un « gros dégueulasse ».
Remarque, remarque dit Lucien l’âne, qu’il pourrait être mince comme un clou et propre comme un sou neuf, il n’en serait pas moins un « gros dégueulasse », tel est le « ressenti » des voyeurs de comptoir – à Bruxelles, bonne ville, dans les caberdouches (qui sont des estaminets locaux), on les appelle les « pisseurs de comptoir », tant ils n’en décollent plus, phalènes sur un globe lumineux.
Donc, reprend Marco Valdo M.I., et on lui en fait querelle, notre Ventu traduit « gros dégueulasse » par une expression de son cru : « bestione di merda » ; mais bon sang de bœuf, c’est vraiment ce que l’enamouré de la patronne (vue de face, je précise rapport à la moralité) pense de cet « empêcheur d’admirer en rond » (et plus si affinités).
Oh, dit Lucien l’âne, il faut bien avouer que ce qu’il impose – ce gros dégueulasse – aux habitués, c’est la dernière glaciation. Moi, j’essaye de comprendre où est le nœud de l’affaire. Car enfin, un « bestione », c’est une très grosse bête ; quelque chose ou quelqu’un « di merda », ça s’appelle une merde et forcément, c’est dégueulasse. Et user d’une expression forte, dégueulasse même pour dire le « dégueulasse » me paraît éminemment poétique.
Faut dire, Lucien l’âne mon ami, que pour ce qui est des traductions, je n’y connais rien de plus que ce que j’en sais et c’est pas grand-chose ; mes seules références étant celles que j’ai faites et nul ne sait si elles sont parfaites ; ce serait plutôt le contraire, mais, comme on le dit toujours, vaut mieux une mauvaise traduction que pas de traduction du tout.
Dans la foulée, réglons le compte de ce « petit bleu lourd de menaces » que Ventu rend par « vinaccio minaccioso ». Pas poétique ce « vinaccio minaccioso » ? Mais c’est une véritable trouvaille, un diamant de poésie pure. Ma parole, il faut avoir les yeux à côté des trous pour ne pas le sentir couler dans la gorge ce « tord-boyaux » (version Pierre Perret du Bistrot) :
Oh, dit Lucien l’âne, que voilà une belle chanson à mettre dans les chansons et puis, une fameuse « traduction » à faire en livournais. Enfin, moi je dis ça…
Ainsi Parlaient Marco Valdo M.I. et Lucien Lane
Vois-tu, Lucien l’âne mon ami, quand Riccardo Venturi, que je qualifierai volontiers de « maître traducteur » (et même vu sa taille, de double mètre traducteur)…
Halte-là, laisse-moi t’interrompre. Maître traducteur ?, Marco Valdo M.I. mon ami, en voilà une qualification, n’est-elle pas emphatique ?
Certainement pas, Lucien l’âne mon ami. Il faut comprendre « maître » dans le sens où on parle de « maître boulanger », « maître tailleur », « maître charpentier »… C’est-à-dire celui qui possède les qualités nécessaires pour garantir une bonne « maîtrise » de son métier, de son « art » – entendu comme la manière de faire de l’artisan. Donc, quand Venturi prend la plume pour parler de son « art », il vaut la peine d’en donner une version française (à ma mode, bien entendu) et aussi d’y réfléchir un peu.
J’espère bien, dit Lucien l’âne en relevant le front. J’espère bien qu’on y réfléchira un peu, c’est la moindre des choses sachant que – toute question de personne mise à part – la réflexion de Riccardo Venturi touche au cœur même des Chansons contre la Guerre, un site qui se distingue notamment par son amplitude linguistique, par le nombre de traductions qu’il a recueillies jusqu’ici, par son abyssale liberté d’esprit et – ce qui pourrait paraître paradoxal – sa grande rigueur « littéraire ».
Sans aller plus loin dans ces considérations sur l’art de la traduction – on lira celles de Riccardo Venturi et puis, il est certain qu’on y reviendra encore à cette épineuse question, reprend Marco Valdo M.I. ; c’est un sujet que nous avons déjà plusieurs fois abordé et auquel on est chaque jour confronté. Quant à mes compétences linguistiques, je rappelle que si j’ai traduit des textes provenant de diverses langues, je n’en connais véritablement aucune et c’est tout juste si je maîtrise correctement le français. Cependant, j’y ai appris une règle de logique préliminaire à toute discussion à propos de la traduction : pour qu’une traduction existe, condition sine qua non, il faut et elle doit « changer » le texte original, le « modifier », le « transformer », lui « donner une autre forme » tout en le conservant, bien évidemment et paradoxe inévitable : lui donner d’autres mots, lui inventer des expressions. C’est le principe même de la traduction – on ne peut traduire à moins. En clair, sans changer, modifier, etc, le texte original, il n’y a pas de translation possible. En corollaire, dans l’univers de la chanson, dans l’univers « poétique » – on ne parle pas ici d’un catalogue commercial, l’acte de traduire est une (re)création et le texte qui en résulte est une œuvre à part entière, indépendamment du texte d’origine.
Certes, dit Lucien l’âne, je suis de ton point de vue d’autant plus que nous l’avons souvent abordé, à l’occasion de traductions de diverses langues et de divers auteurs.
Sans donc aller plus loin dans ces considérations, Lucien l’âne mon ami, je voudrais m’attarder un instant sur la « traduction » de l’expression avec laquelle Georges Brassens désigne le patron du bistrot. Tonton Georges – j’utilise ce nom familier pour marquer la connivence qui lie ce site et ses aficionados au poète de Sète, et pour certains aux poètes de Sète et peut-être de Pézenas, je ne sais pas. En l’occurrence, j’insiste, singulièrement R.V., alias Riccardo Venturi, dont on ne peut ignorer le sympathique lien qu’il entretient avec l’œuvre et le personnage de Brassens. Dès lors, le bon Ventu a traduit toute la chanson « Le Bistrot » (comme d’autres chansons de Brassens et de tant d’autres auteurs).
Traduire « Le Bistrot » : déjà, il fallait l’oser, déclare tranquillement Lucien l’âne ; la performance n’était pas si évidente, ni si simple. La pierre d’achoppement du Bistrot, comme il est dit ici et dans la chanson, c’est le patron. Pas la patronne, grands dieux, non !; apparemment, elle recueille l’assentiment enthousiaste de tous les messieurs qui hantent son comptoir. La patronne, rien qu’à l’imaginer, on entend le contre-chant de Ricet Barriet vantant «Le cul de la patronne» et son inénarrable et poétique final :
« Il est beau le cul le cul le cul de la patronne,
Si on l’avait comme drapeau,
On serait tous des héros !!
Taratatatata !!! »
Je voudrais, Lucien l’âne mon ami, rassurer la moralité publique, au Bistrot de Brassens, on voit la patronne « bien en face ». Cela étant, le patron est assez revêche et d’une jalousie de bête sauvage. Bref, Georges Brassens le dit : c’est un « gros dégueulasse ».
Remarque, remarque dit Lucien l’âne, qu’il pourrait être mince comme un clou et propre comme un sou neuf, il n’en serait pas moins un « gros dégueulasse », tel est le « ressenti » des voyeurs de comptoir – à Bruxelles, bonne ville, dans les caberdouches (qui sont des estaminets locaux), on les appelle les « pisseurs de comptoir », tant ils n’en décollent plus, phalènes sur un globe lumineux.
Donc, reprend Marco Valdo M.I., et on lui en fait querelle, notre Ventu traduit « gros dégueulasse » par une expression de son cru : « bestione di merda » ; mais bon sang de bœuf, c’est vraiment ce que l’enamouré de la patronne (vue de face, je précise rapport à la moralité) pense de cet « empêcheur d’admirer en rond » (et plus si affinités).
Oh, dit Lucien l’âne, il faut bien avouer que ce qu’il impose – ce gros dégueulasse – aux habitués, c’est la dernière glaciation. Moi, j’essaye de comprendre où est le nœud de l’affaire. Car enfin, un « bestione », c’est une très grosse bête ; quelque chose ou quelqu’un « di merda », ça s’appelle une merde et forcément, c’est dégueulasse. Et user d’une expression forte, dégueulasse même pour dire le « dégueulasse » me paraît éminemment poétique.
Faut dire, Lucien l’âne mon ami, que pour ce qui est des traductions, je n’y connais rien de plus que ce que j’en sais et c’est pas grand-chose ; mes seules références étant celles que j’ai faites et nul ne sait si elles sont parfaites ; ce serait plutôt le contraire, mais, comme on le dit toujours, vaut mieux une mauvaise traduction que pas de traduction du tout.
Dans la foulée, réglons le compte de ce « petit bleu lourd de menaces » que Ventu rend par « vinaccio minaccioso ». Pas poétique ce « vinaccio minaccioso » ? Mais c’est une véritable trouvaille, un diamant de poésie pure. Ma parole, il faut avoir les yeux à côté des trous pour ne pas le sentir couler dans la gorge ce « tord-boyaux » (version Pierre Perret du Bistrot) :
« Au Tord-Boyaux,
Le patron s’appelle Bruno ;
Il a de la graisse plein les tifs,
De gros points noirs sur le pif. »
Le patron s’appelle Bruno ;
Il a de la graisse plein les tifs,
De gros points noirs sur le pif. »
Oh, dit Lucien l’âne, que voilà une belle chanson à mettre dans les chansons et puis, une fameuse « traduction » à faire en livournais. Enfin, moi je dis ça…
Ainsi Parlaient Marco Valdo M.I. et Lucien Lane
Marco Valdo M.I. - 2018/6/5 - 11:23
Anche Nanni Svampa (assieme a Mario Mascioli) ha tradotto la strofa "ce petit bleu lourd de menaces" con "questo vinaccio minaccioso" nel suo libro del 1991 edito da Franco Muzzio.
Flavio Poltronieri - 2018/6/6 - 09:53
E d'altronde -mi chiedo- come altro si potrebbe tradurre "petit bleu lourd de menaces"? ... "Vinello intimidatorio"? Hélas il ne pleut jamais du gros bleu qui tache....
Riccardo Venturi - 2018/6/6 - 18:43
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[1960]
Testo e musica: Georges Brassens
Paroles et musique: Georges Brassens
Album: Le mécréant
Mi è capitato in questi giornacci cani di pensare a una canzone che, per me, fosse Parigi. Ce n'è più d'una; ma nessuna ha a che vedere con tricolori, con marsigliesi, con aeroplani, con coprifuochi, con stati di emergenza, con patrie, con campi elisi, con paure, con terrori. La prima che mi è venuta a mente, di canzoni, è stata questa; e allora, mi sono detto, bisognerà che ce la metta.
En ces jours de merde, il m'est arrivé de penser à une chanson qui serait mon Paris. Il y en a plusieurs; mais aucune d'elles n'a rien à voir avec drapeaux tricolores, marseillaises, avions, couvre-feux, états d'urgence, patries, champs élysés, peurs, terreurs. La première qui m'est passée par la tête, c'est bien cette-ci; et, alors, je me suis dit qu'il fallait la mettre. [RV]