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In memoria

Giuseppe Ungaretti
Langue: italien


Giuseppe Ungaretti

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[1916]
Poesia di Giuseppe Ungaretti
Dapprima nella raccolta Il porto sepolto
Poi nella raccolta complessiva L'allegria
1a edizione: Mondadori, Milano, 1931
Musica di Aldo Bova [2014]

Carso, 1916. Giuseppe Ungaretti (1888-1970) in divisa di giovane soldato durante la Grande Guerra.
Carso, 1916. Giuseppe Ungaretti (1888-1970) in divisa di giovane soldato durante la Grande Guerra.


Questa poesia di Giuseppe Ungaretti ha quasi cent'anni. Cent'anni sono passati da quando il poeta combatteva e conosceva gli orrori della guerra sul Carso, "scontando la morte vivendo"; in mezzo ai brevi componimenti nel quale descriveva la terribile vita di trincea, ebbe a ricordare un amico. "Locvizza, il 30 settembre 1916", reca il quaderno di Ungaretti; e Locvizza, o Lokvica, è nei pressi del Monte San Michele "bagnato di sangue italiano", come dice Fuoco e mitragliatrici e Valzer dei disertori. Nei pressi, anche, di San Martino del Carso. Luoghi di guerra dove Ungaretti si trovava non di rado a ricordare episodi della vita civile, che sembrava oramai lontana diecimila anni. Una meditazione continua sulla vita e sulla morte, sull'amore e sulla trascendenza.

Tra questi episodi, la vicenda di un amico che si era tolto la vita a Parigi soltanto tre anni prima, nel 1913. Si chiamava Moammed Sceab, così Ungaretti scrive il suo nome nascondendo probabilmente un Muhammad Sha'ab o qualcosa del genere; aveva ventisei anni ed era un egiziano di nobile origine libanese. Era stato coinquilino di Ungaretti in un albergo fatiscente di Rue des Carmes, nel quinto Arrondissement, albergo nel quale si era suicidato. Un episodio, come tutti gli altri, che la guerra aveva certamente contribuito a ricordare, a suscitare; come se ricordare una vita facesse da contraltare alla morte che, in trincea, sempre stava dappresso.

E' la storia di un senza radici, o di uno sradicato; una storia comune allora come adesso. Di una persona che, esule in un paese straniero, sente di non farne e di non poterne far parte allo stesso modo in cui, oramai, il suo stesso paese gli è diventato estraneo. Se, indubbiamente, è opportuno maneggiare la parola "identità" con molta attenzione, è altrettanto indubbio che la crisi di identità è una tragedia personale che, in parecchi casi, va ad aggiungersi alle altre tragedie che un esule, un profugo, un rifugiato deve subire sulle proprie spalle. Tra queste, la solitudine totale.

Rimanere sospesi tra una tradizione e una vita lasciate dietro di sé come in un gorgo che si richiude, ed una nuova condizione materiale e culturale che è pressoché impossibile interiorizzare. E' la condizione usuale del déraciné che Ungaretti ben conosceva. Nato a Alessandria d'Egitto da genitori toscani (lucchesi), dall'Egitto Ungaretti si era trasferito in Francia dove si sentì sempre un senza patria.

Nelle prime edizioni del Porto sepolto, "In memoria" si trova quasi isolata, all'inizio, come se si trattasse di una dedica. Nella raccolta complessiva L'allegria, pubblicata molti anni dopo (nel 1931), il tema complessivo è quello della guerra; e la poesia dedicata all'emico egiziano suicida è ancora una volta lasciata a sé stante, legata indissolubilmente quanto indefinitamente alla guerra.

Tentare con tutte le proprie forze di adattarsi, o di "integrarsi" come si direbbe adesso. Arrivare a cambiare nome; quante volte, conoscendo per intenzione o per caso un attuale immigrato, al sentirsi domandare il proprio nome questi risponde declinando un nome locale, Pietro, Giuseppe, Maria, al posto del proprio nome vero? Qualche anno fa, all'Elba, arrivava sempre a casa un ragazzo del Ghana a vendere la sua mercanzia di quart'ordine; per tutti si chiamava "Alessandro". Il proprio nome è la propria identità; è ciò per cui tutti ti riconoscono come appartenente ad una tradizione o ad un'altra. In questo il poeta Ungaretti, che pure nome non lo aveva cambiato, si riconosce appieno; l'amico Moammed Sceab è il suo alter ego. Una condizione che il poeta si trova a ricordare e a fissare in versi in una situazione terribile, lontanissima eppure vicina. Lo fa sconvolgendo totalmente una tradizione poetica intera: un linguaggio fatto di parole comunissime, secco, dalla sintassi elementare. Quasi dei piccoli gridi interiori che riescono, però, a coprire il frastuono dei combattimenti.



Sarebbe forse inutile, al giorno d'oggi, chiedere o addirittura esigere che di tutte queste cose si tenesse conto di fronte a un immigrato; eppure sono cose che molti, anche in questo paese, hanno vissuto. Sicuramente, essere in una trincea a costante e diretto contatto con la morte poteva aiutare a penetrare nel dramma vissuto da chi aveva lasciato il proprio paese per sempre; morendo, resterà una qualche traccia della nostra vita? La risposta del poeta è la poesia stessa, che è anche una risposta di umanità e di amicizia; una risposta attraverso la quale la vita torna a scorrere. Il nome di Moammed Sceab, quello autentico, è rimasto.

Non così quello, ad esempio, delle centinaia di migranti periti in fondo al mare Mediterraneo. Annegati due volte, nel mare e nella massa dei diseredati. Privati di tutto, anche della propria individualità di esseri umani. Ridotti a numeri di statistiche, e senza nessun poeta che si ricordi di loro nel momento estremo. A tutte queste persone vorrei dedicare questa poesia, scritta nell'infuriare di una guerra. [RV]

Una grande importanza nella storia della mia vita e nella storia della mia poesia deriva dall’incontro, ad un certo momento della mia giovinezza, con Enrico Pea ad Alessandria d’Egitto. Enrico Pea faceva ad Alessandria il commerciante di marmi e nello stesso tempo aveva messo su, sviluppando il laboratorio di falegnameria del suocero, una segheria meccanica. Sopra la segheria meccanica – era ingegnoso Pea -aveva pensato di starci di casa e di destinare uno stanzone, uno stanzone enorme, e altri stanzini accanto allo stanzone enorme, ai gruppi sovversivi che, in quel periodo erano numerosi ad Alessandria.

Tra i giovani sovversivi di Alessandria che si raccoglievano nella baracca del mio amico Pea, c’era un arabo – era forse l’unico arabo in quella baracca – e questo arabo era Moammed Sceab. Moammed Sceab era anche stato mio compagno di scuola. Quindi eravamo doppiamente uniti; eravamo uniti nelle speranze di un mondo organizzato con maggior giustizia, ed eravamo uniti dai ricordi di infanzia e dalle aspirazioni letterarie che avevamo l’uno e l’altro. Aspirazioni diverse: io credevo in una poesia dove il segreto dell’uomo (fin da allora) trovasse in qualche modo un’eco, credevo nella poesia dell’inesprimibile, e invece Sceab credeva – mente logica, arabo discendente da quelli che avevano inventato l’algebra – credeva invece in una poesia strettamente legata alla ragione.

Ecco. Ed avevamo, in fondo, in comune anche un altro dramma: l’uno e l’altro avevamo un’educazione europea, occidentale, francese. Anch’io. Io ero nato in un paese che non era il mio, ero nato ad Alessandria, lontano dalle mie tradizioni; ero lontano dai paesaggi, dalle immagini che avevano accompagnato la vita di tutti i miei. Eravamo l’uno e l’altro, per ragioni diverse, degli uomini che non erano avviati in un modo naturale a compiere il loro destino. E naturalmente queste cose non avvengono nell’uomo senza turbamenti e senza strazi a volte terribili. E la mia, la nostra gioventù, la nostra prima gioventù, quella mia e quella di Sceab, è cosparsa di giovani, di giovani compagni che nelle stesse circostanze delle nostre si troncarono la vita. E anche Sceab a un certo momento si troncò la vita. Sceab a Parigi, lontano dalla sua terra africana – o dalla sua terra araba perché in fondo viveva in Egitto ma non era africano, veniva dal Libano – essendo stato rilavorato da una cultura e da una tradizione diversa, non resisté al dissidio e anche lui si uccise.

Giuseppe Ungaretti.
Ripresa dal blog Kelebekler

Parigi. Rue des Carmes nel 1913.
Parigi. Rue des Carmes nel 1913.
IN MEMORIA.
Locvizza il 30 settembre 1916.

Si chiamava
Moammed Sceab

Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
Amò la Francia
e mutò nome

Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè

E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono

L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa.

Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera

E forse io solo
so ancora
che visse.

envoyé par Riccardo Venturi - 30/10/2015 - 18:00




Langue: français

La traduzione francese di Jacqueline Spaccini-Iovinelli
Dal blog Traducete innanzi quel traditor d'un traduttore!
25 febbraio 2014
Traduction française de Jacqueline Spaccini-Iovinelli
D'après le blog Traducete innanzi quel traditor d'un traduttore!
25 février 2014
EN SA MÉMOIRE

Son nom était
Mohammed Sceab

il descendait
des émirs nomades
il s’est suicidé
parce qu'il n’avait
plus de Patrie
Il aimait la France
et changea de nom

Il fut Marcel
mais pas Français
Il ne savait plus vivre
sous la tente des siens
où l'on écoute
la cantilène du Coran
en savourant du café

Et il ne savait
pas délier
le chant
de son abandon

Je l'ai accompagné
avec la patronne de l'hôtel
où nous vivions
à Paris
depuis le numéro 5 de la Rue des Carmes
une ruelle en pente et flétrie

Il repose
au cimetière d'Ivry
un faubourg qui paraît
éternellement
dans un de ces jours
de foire décoiffée

Et peut-être moi seul
sais encore
qu'il a vécu.

envoyé par Riccardo Venturi - 30/10/2015 - 19:39




Langue: anglais

Traduzione inglese di Francesca Ciambella dal blog Italian Poems
English translation by Francesca Ciambella reproduced from the blog Italian Poems
IN MEMORY

His name was
Moammed Sceab

Descendant
of emirs of nomads
suicide
because he no longer had
a Homeland
He loved France
and changed name

He became Marcel
but he wasn't French
and he could no longer live
in the bell tent of his people
where they listened to the singsong
of the Koran
enjoying a coffee

And he couldn't
raise
the song
of his loneliness

I accompanied him
together with the landlady
of the hotel we lived in
to Paris
to number 5 of Rue de Carmes
a declining downhill alley

He rests in peace
in the cemetery of Ivry
a suburb which seems
always to be
in a day of
decomposed fair

And maybe I am the only one
who still knows
he lived.

envoyé par Riccardo Venturi - 30/10/2015 - 19:42




Langue: allemand

La traduzione tedesca di Ingeborg Bachmann
Da: Frankfurter Anthologie (pagina culturale della Frankfurter Allgemeine)
Deutsche Übersetzung von Ingeborg Bachmann
Aus Frankfurter Anthologie (Kulturseite der Frankfurter Allgemeinen)


Ingeborg Bachmann (1926-1973).
Ingeborg Bachmann (1926-1973).


Mohammed Sheab, 26 Jahre alt, setzte seinem Leben im Sommer 1913 ein Ende. Zusammen mit seinem Freund Giuseppe Ungaretti war er aus dem ägyptischen Alexandria nach Paris gekommen, um an der Sorbonne zu studieren. Schon als Schüler hatten die beiden eine kleine Literaturzeitschrift herausgegeben, als Studenten teilten sie ein Zimmer in einem Hotel, das immer noch existiert, aber nicht mehr „schäbig“ ist, genau so wenig wie die rue des Carmes im Quartier Latin.

Mit Beginn des Ersten Weltkriegs kehrte Ungaretti, Sohn italienischer Auswanderer, in das Land seiner Eltern zurück und meldete sich 1915 als Freiwilliger an die Front. Dort, wo der Tod allgegenwärtig war, versah er alle Gedichte mit Datum und Ort der Entstehung. „In Memoriam“ schloss er am 30. September 1916 in Locvizza ab.

Die ersten Verse rufen den Namen des Toten auf. Im italienischen Original erscheint er als „Moammed Sceab“, Ingeborg Bachmann wählte für ihre Übersetzung eine andere, dem Deutschen angepasste Schreibweise. Aber ein Mohammed Sheab unserer Tage würde wohl kaum seinen Namen ablegen und sich Marcel nennen in der Illusion, durch diesen Akt zum Franzosen zu werden. Hundert Jahre Diskurs über Migration und Identität haben die Einsicht befestigt, dass Integration in eine andere Kultur nicht voraussetzt, seine Wurzeln zu leugnen. Sheab, so deutet es Ungaretti, ging zugrunde, weil er sich zumutete, ein anderer zu sein als er war.

Im Original heißt das, was Mohammed fehlt, ganz selbstverständlich, ohne Ironie oder Distanzierung, „Patria“, groß geschrieben wie „Francia“ und als einziges die Zeile füllendes Wort schwer wie ein Stein. Ingeborg Bachmann mochte 1961 „Patria“ nicht mit „Vaterland“ wiedergeben, sie übersetzte es mit „Land“ und begrub damit den Stein in der allen Menschen gehörenden Erde. „Vaterland“ war im Deutschen ein Reizwort und ist es noch heute. Dagegen weckt die Bezeichnung „Land“ eher sanfte Assoziationen an einen bäuerlichen Kontext, fern von Pathos und Schuld.

Mohammed Sheab empfand sich als Nichts im Nirgendwo und löschte sich aus. Hätte er „den Gesang seiner Verlassenheit“ anstimmen können, gleichgültig in welcher Sprache, hätte ihn dieses Singen, Sprechen, Schreiben vielleicht gerettet. Es hätte ihm geholfen, sich seiner selbst zu vergewissern. Die göttliche Gabe, „zu sagen, was ich leide“, tröstete nicht nur Goethes Tasso. Auch Ungaretti, der in Ägypten aufwuchs, in Frankreich studierte, für Italien in den Krieg zog und später schmerzvolle Jahre in Brasilien verbrachte, war ein Wanderer, für den die Sprache die Heimat bildete, das Rückgrat der Identität. Sein „In Memoriam“ klagt um den toten Freund, aber es enthält auch den Rückbezug auf die eigene Kreativität, die es ihm erlaubt, „den Gesang“ anzustimmen.

Erleichterung und das Bewusstsein der eigenen Existenz schwingen darin, was in den letzten Worten noch einmal zum Ausdruck kommt. Weshalb sollte der Dichter der einzige sein, der drei Jahre nach Mohammeds Tod noch weiß, „daß er lebte“? Hatte Mohammed keine Familie im fernen Ägypten, keine Freunde, Nachbarn, Kameraden? Keine Liebste? Das Privileg des Dichters ist es, sein Gedenken öffentlich zu machen und damit das „ich allein/weiß vielleicht noch“ gleichzeitig zu behaupten und zu konterkarieren. Er muss die Worte finden, die im Gedächtnis haften und lebendig bleiben, hundert Jahre und länger. Ob und in welchem „Land“ dies gelingt, kann er nur teilweise beeinflussen. Vom glanzvollen Autorenquartett der italienischen Lyrik des zwanzigsten Jahrhunderts – Saba, Montale, Quasimodo, Ungaretti – wurde allein Letzterer von Ingeborg Bachmann übersetzt. Ihre Auswahl mit dem schlichten Titel „Gedichte“, zu der sie auch das Nachwort schrieb, hat es seit 1961 auf zwölf Auflagen gebracht. Dass Mohammed Sheab lebte, wissen viele deutschsprachige Leser, und die Anteilnahme an seinem Schicksal dürfte immer noch wachsen. Ein melancholischer Trost, aber doch: ein Trost.
IN MEMORIAM

Er hieß
Mohammed Sheab

Abkömmling
von Emiren von Nomaden
Er beging Selbstmord
weil er kein Land
mehr hatte
Er liebte Frankreich
und änderte seinen Namen

Wurde Marcel
war aber nicht Franzose
und konnte nicht mehr
leben
im Zelt der Seinen
wo man dem Singsang
des Korans lauscht
einen Kaffee nippend

Und wußte nicht
anzustimmen
den Gesang
seiner Verlassenheit

Ich habe ihm das Geleit gegeben
zusammen mit der Besitzerin des Hotels
in dem wir wohnten
in Paris
Nummer 5 rue des Carmes
schäbiges steiles Gäßchen

Er ruht
auf dem Friedhof von Ivry
Vorstadt die immer
erscheint wie am Tag
eines aufgelösten Jahrmarkts

Und ich allein
weiß vielleicht noch
daß er lebte.

envoyé par Riccardo Venturi - 30/10/2015 - 20:17




Langue: espagnol

La traduzione spagnola di Carlos Vitale
Da: La Alegría, Ediciones Igitur, Tarragona 1997
Traducción al castellano por Carlos Vitale
Desde: La Alegría, Ediciones Igitur, Tarragona 1997
EN MEMORIA
Locvizza, 30 de setiembre de 1916

Se llamaba
Mohammed Sceab

Descendiente
de emires de nómadas
suicida
porque ya no tenía
Patria

Amó a Francia
y cambió de nombre

Fue Marcel
pero no era francés
y ya no sabía vivir
en la tienda de los suyos
donde se escucha la cantilena
del Corán
saboreando un café

Y no sabía
entonar
el canto
de su abandono

Lo acompañé
junto con la dueña del hotel
donde residíamos
en París
en el número 5 de la rue des Carmes
marchita calleja en bajada

Descansa
en el camposanto de Ivry
suburbio que parece
estar siempre
en el día
de una
destartalada feria

Y quizá sólo yo
sé aún
que vivió.

envoyé par Riccardo Venturi - 30/10/2015 - 23:46




Langue: portugais

La traduzione portoghese di Alberto Martins
Folha de São Paulo, caderno "Mais!", 20/04/2003
Da Tópicos e Teoria e História Literária
Tradução portuguesa de Alberto Martins
Folha de São Paulo, caderno "Mais!", 20/04/2003
Da Tópicos e Teoria e História Literária
IN MEMORIAM

Chamava-se
Moamed Sceab

Descendente
de emires de nômades
suicida
porque não tinha mais
Pátria

Amou a França
e mudou de nome

Foi Marcel
mas não era francês
e não sabia mais
viver
na tenda
dos seus
onde se escuta a cantilena
do Corão
tomando um café

E não sabia
desatar o canto
de seu abandono

Eu o acompanhei
junto com a dona do albergue
onde morávamos em Paris
no número 5 da rue des Carmes
uma viela murcha em declive

Repousa
no cemitério de Ivry
subúrbio que lembra
sempre o dia
de uma feira desmanchada

E talvez apenas eu
sei ainda
que existiu.

envoyé par Riccardo Venturi - 31/10/2015 - 00:03




Langue: grec moderne

Traduzione greca di Riccardo Venturi
Firenze, 30/31 ottobre 2015
Μετέφρασε στα Ελληνικά ο Ρικάρντο Βεντούρη
Φλωρεντία, 30/31.10.2015
ΕΝ ΜΝΗΜΗ

Τον έλεγαν
Μωαμέθ Σιεάμπ

Κατάγοταν
από εμίρες από νομάδες
αυτοκτόνησε
γιατί δεν είχε πια
μία πατρίδα
αγάπησε την Γαλλία
κι άλλαξε όνομα

Τον έλεγαν Μαρσέλ
αλλά δεν ήταν Γάλλος
και δεν ήξερε πια
να ζει
στις σκηνές των προγόνων του
όπου τραγουδιέται σιγά
το Κοράνιο
γεύοντας ένα καφέ

Και δεν ήξερε
πώς τραγουδάει
τη μοναξιά του

Τον συνόδευσα
μαζί με την κυρία του ξενοδοχείου
όπου μέναμε
στο Παρίσι
ρυ-ντε-Καρμ στο αριθμό 5
ένα άθλιο σοκάκι σε κατηφόρα

Αναπαύεται
στο νεκροταφείο του Ιβρύ
ένα προάστιο που μοιάζει
πάντα
ένα παζάρι
τη τελευταία μέρα

Κι ίσως μόνο εγώ
ξέρω ακόμη
ότι έζησε.

31/10/2015 - 00:48




Langue: russe

La versione russa di Jusuf Karaev
Da Джузеппе Унгаретти и его творчество / Алекс Боу
Перевод с итальянского Юсуфа Караева
ПАМЯТИ

Его звали
Мохаммед Шеаб

Потомок
Эмиров Номадов
Он покончил с собой
Вдали от своей сущности

Жил во Франции
изменил имя
звался Марселем
Но не стал французом
Он не смог больше жить
В шатре своих предков
Где прислушиваются
К монотонному пению Корана
Медленно смакуя кофе

И не знал больше
Запева песни своего одиночества

Я проводил его в последний путь
Вместе с хозяйкой отеля
В котором мы жили
В Париже
Номер 5 rue des Carmes

Заброшенная крутая улочка
Он покоится
На еврейском кладбище
Пригород
Который всегда выглядит так
Как опустевшая
После закрытия ярмарки площадь

И возможно только один я
Знаю
Что он жил.

envoyé par Riccardo Venturi - 1/11/2015 - 00:34




Langue: polonais

La traduzione polacca di Grzegorz Franczak
Polski przekład Grzegorza Franczaka
KU PAMIĘCI
Locvizza, 30 września 1915

Nazywał się
Mohammed Szeab

Potomek
emirów nomadów
samobójca
bo nie miał
Ojczyzny

Pokochał Francję
i zmienił imię

Był Marcelem
ale nie Francuzem
nie potrafił już
żyć
w namiocie współplemieńców
gdzie słucha się kantyleny
Koranu
smakując kawę

Nie potrafił
wysnuć pieśni
swojego opuszczenia

Towarzyszyłem mu
razem z właścicielką hotelu
w którym mieszkaliśmy
w Paryżu
przy rue des Carmes pięć
w zwiędłym stromym zaułku

Leży
na cmentarzu w Ivry
przedmieściu które wygląda
zawsze
jak w pierwszym
dniu
po jarmarku

I chyba ja jeden
wiem jeszcze
że żył.

envoyé par Krzysiek - 31/10/2015 - 22:22




Langue: ukrainien

La versione ucraina di Jurij Pedan
Da: Джузеппе Унґаретті: Поезія, Переклад Юрія Педана
Переклад Юрія Педана
ПАМ'ЯТІ ДРУГА

Він звався
Мохамед Шеаб.

Нащадок
кочовиків-емірів,
самогубець,
бо втратив
батьківщину.

Заради Франції
змінив ім'я.
Він став Марселем,
та не став французом,
хоча покинув
родове шатро,
де слухають
корану кантилени
і каву попивають
водночас.

Він не зумів
у втіхах розчинити
тужливий спів
своєї самоти.

Я проводив його
з хазяйкою готелю,
де ми жили
в Парижі на рю де Карм
в будинку номер п'ять,
убогому притулку
злидарів.

Він спочиває
на цвинтарі в Іврі,
околиці,
яка здається вдень
огидним стервом.

Можливо,
тільки я
і пам'ятаю,
що жив такий
на світі.

envoyé par Riccardo Venturi - 1/11/2015 - 00:39


" Muḥammad Shihāb, di famiglia egiziana non umile (Ungaretti lo qualificava, con enfasi poetica, "figlio di Emiri nomadi"), era nato ad Alessandria d'Egitto il 23 gennaio 1887 da Ibrāhīm Shihāb e da ʿĀʾisha, di cui tuttavia non si ricorda il nome di famiglia. Fu amico del futuro poeta, in quanto entrambi frequentavano il liceo Jacot, dove si appassionarono dei testi di Baudelaire e Nietzsche. Nel 1912, appena venticinquenne, si trasferì a Parigi, dove fu raggiunto presto dall'amico italiano.
Patì la condizione frustrante dell'esule (s'era dato, nel suo tentativo di integrazione nella società parigina il nome di Marcel, lavorando per mantenersi come contabile). Morì suicida il 9 settembre 1913, nella medesima pensione di Rue des Carmes 5 in cui viveva Ungaretti. Moammed Sceab fu seppellito nel cimitero di Ivry-sur-Seine, come in una sua poesia ricorda il suo memore e affezionato compagno di scuola e amico di gioventù. "

(Nota da it.wikipedia : Giuseppe Ungaretti)

Riccardo Venturi - 31/10/2015 - 01:38


Non è un commento, perché non ho le parole. Grazie Riccardo per questa poesia bellissima che avevo dimenticato.

Cristina - 31/10/2015 - 15:54


Credo sinceramente che avere poche parole di fronte a questa poesia sia il commento più appropriato, Cristina. E il più sincero. Se ne ho avute qualcuna in più, nell'introduzione, è solo per cercare di ricostruire un po', sia pure per sommi capi, la vicenda umana del giovane Muhammad Shihab; e anche quella del poeta Giuseppe Ungaretti. Il quale, poco dopo, come è noto aderì al fascismo per poi allontanarsene senz'altro, ma mantenendo sempre una riservatezza estrema che da molti fu presa per ambiguità o per una mancata presa di distanza. Una riservatezza che lo portò, ad esempio, ad essere conosciuto dal grande pubblico solo quando, nel 1968, leggeva i passi del poema omerico che precedevano le puntate della famosa "Odissea" televisiva con Bekim Fehmiu (noialtri "vegliardi" ce ne ricordiamo, ohimè). Saluti carissimi.

Riccardo Venturi - 1/11/2015 - 00:19


DecideteVi 1915 o 1916... anche se non ha grande importanza, ma duole 'na ' ncongruensa ; )

krzyś - 1/11/2015 - 03:24


Indimenticabile quell'"Odissea". E, per quel che mi riguarda, anche Bekim Fehmiu; mi pare di aver letto che lui, kossovaro, fosse assolutamente contrario alla guerra e alla frammentazione della Jugoslavia.

Cristina - 1/11/2015 - 19:20


Hai letto benissimo, Cristina. Esistono addirittura delle ipotesi sul suo suicidio (avvenuto il 15 giugno 2010 a Belgrado) che sarebbe stato causato anche dal dolore, mai sopito, per le guerre jugoslave e la frammentazione del suo paese nel sangue. Ripeto, soltanto ipotesi; ma la depressione di cui soffriva da anni può essere stata dovuta anche "ai tragici rivolgimenti politici e sociali vissuti dal suo paese negli ultimi anni" (parole riprese da un articolo del "Sole 24 Ore" del 17 giugno 2010). E' comunque un fatto che Bekim Fehmiu abbia espresso più volte la sua ferma decisione di essere sempre stato, e di continuare a considerarsi, jugoslavo. Chi ha più di qualche anno, comunque, continuerà a ricordarlo per sempre in quella stupefacente Odissea diretta da Franco Rossi, Piero Schivazappa e Mario Bava, accanto, tra gli altri, a Irene Papas.

Riccardo Venturi - 2/11/2015 - 00:27




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