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Ein Psalm aus Babylon, zu klagen

František Petr Kien
Language: German


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Versi di František Petr (Franz Peter) Kien (1919-1944), poeta ed artista ebreo ceco di lingua tedesca.
Molte delle poesie di Franz Peter Kien furono trasposte in musica dall’amico Gideon Klein (1919-1945), pianista e compositore ebreo ceco, che scrisse, per esempio, la musica per la poesia Die Peststadt e per l’intero ciclo in cui era inclusa, intitolato “Die Pest”.
Non so se anche questi versi siano stati musicati, ma comunque si tratta di un salmo, di un canto di lamentazione, per cui mi permetto di proporli direttamente, senza inserirli come Extra.
Testo trovato sullo studio di Sandra Alfers, della Western Washington University, intitolato Poetry from the Theresienstadt Transit Camp, 1941-1945



Franz Peter Kien era nativo di Varnsdorf in Boemia, al confine con la Sassonia. Studiò pittura e grafica a Brno e a Praga, dove fu compagno di scuola dello scrittore e drammaturgo Peter Weiss. Quando nel 1939 la Boemia e la Moravia furono fagocitate dalla Germania nazista, uno dei primi atti dei dominatori fu l’estensione delle leggi razziali. Gli ebrei furono allontanati da ogni istituzione pubblica e a Franz Peter Kien fu impedito di continuare a frequentare l’Accademia di Belle Arti, ma continuò a studiare privatamente. Nel 1940 si sposò e cercò di fuggire all’estero con i suoi famigliari, ma nel 1941 tutti vennero presi e rinchiusi a Theresienstadt.



Nel ghetto-campo di concentramento Franz Peter Kien venne assegnato all’ufficio grafica e design del Freizeitgestaltung (“L’Amministrazione del Tempo Libero”) ma la sua produzione artistica più interessante non è quella, per così dire, ufficiale, bensì le centinaia di schizzi, disegni, dipinti e poesie in cui l’artista ritrasse e raccontò la vita a Theresienstadt, una vita dominata – come descritto in questi versi – dall’onnipresenza della morte ne Die Peststadt, un luogo che non era altro che l’anticamera dell’inferno di Auschwitz, dello sterminio.



Il nome di Franz Peter Kien è legato soprattutto alla famosa opera lirica “Der Kaiser von Atlantis oder Die Tod-Verweigerung” (“L'imperatore di Atlantide ovvero Il rifiuto della morte”) di cui Kien scrisse il libretto su musiche di Viktor Ullmann. L’opera fu composta nella seconda metà del 1943 e nella primavera del 1944 tutto era pronto per la sua prima rappresentazione, che però fu impedita dai nazisti, accortisi che si trattava di un’intelligente satira contro il totalitarismo (basti pensare che il personaggio principale è l'imperatore Overall, traduzione inglese dell’“Über Alles”, parola d’ordine del regime hitleriano…).



Il 16 ottobre 1944 Franz Peter Kien decise di seguire la moglie e i parenti nel trasporto verso Auschwitz. Lasciò una valigia piena di poesie e disegni all’amica Helga Wolfenstein, conosciuta nel ghetto e divenuta sua amante, che sopravvisse all’Olocausto. Lui invece non ce la fece: morì di un’infezione già alla fine di quel 1944.



Nel suo riferirsi espressamente al Salmo 137 (136) dell’Antico Testamento, Franz Peter Kien mette a diretto confronto il lamento dei Giudei esuli a Babilonia dopo la caduta di Gerusalemme nel 587 a.C. con la prigionia degli ebrei a Theresienstadt, campo di transito verso l’annientamento. Le differenze sono eclatanti fin dai primi versi, dove per cominciare non sono più i fiumi, concetto comunque liquido, a cingere e costringere gli ebrei, ma le dure e invalicabili mura della fortezza-ghetto. E poi mi sembra che rispetto al Salmo biblico qui non ci sia più spazio per Dio, ma solo per la nostalgia della vita e della felicità perdute, disperse come sabbia dalla tempesta ai quattro angoli del mondo. E non c’è più spazio nemmeno per il popolo come entità, benchè esule e sofferente, perché “Jeder stirbt für sich allein” - “Ognuno muore solo”, per citare Hans Fallada - abbandonato in un deserto ostile… Un futuro di morte per i più e, per chi dovesse sopravvivere, comunque solitario, ostile, incerto, accompagnato da un Dio che si è rivelato inetto, negligente, in definitiva assente, quando non inesistente.

L’orrore della persecuzione e dello sterminio ha trasformato un Salmo di speranza in un lamento blasfemo, una preghiera religiosa in un grido fortemente laico…
Unter den Mauern Babylons
sassen wir und weinten,
wenn wir der Heimat gedachten.

Heimat!
Das ist das Rauschen der Bäume in den Gärten
Ach, sie sind gefällt

Heimat!
Das ist der Atem, der aus der breiten Brust des Stroms quillt,
Ach, er ist verdorrt

Heimat!
Das sind schweigenden Fenster in alten Prunkfassaden
Ach, sie sind geschleift.

Wenn ich dein vergesse, süsses Gestern,
so werde meiner Hoffnung vergessen.

Unter den Mauern Babylons
sassen wir und weinten,
wenn wir um uns blickten.

Schutthalden und verpestete Hügel

Leid und Verbrechen wandeln Arm in Arm durch zerklüftete Strassen
denn ein ziellos suchender Wahnwitz
schlitzte der Erde den Leib auf
und wühlt in ihren Gedärmen
nach einem Orakel

Unter den Mauern Babylons
sassen wir und weinten
wenn wir der Zukunft gedachten

Nicht zur Rückkehr löst sich die Fessel von unseren Füssen
aber wie Sand vor dem Herbststurm
werden wir nach den vier Winden wirbeln,
jeder einsam in feindliche Wüsten.

Contributed by Bernart Bartleby - 2015/1/27 - 15:09



Language: English

Traduzione inglese di Sandra Alfers dal suo studio intitolato Poetry from the Theresienstadt Transit Camp, 1941-1945 (Il titolo ho provato a tradurlo io, ma non so se è giusto. Se qualcuno ci desse un’occhiata…)
MENTIONING A PSALM ABOUT BABYLON

Under the walls of Babylon
we sat and cried
whenever we remembered home.

Home!
That is the rustling of the trees in the gardens
Ach, they are no more

Home!
That is the breath streaming from the wide breast of the river
Ach, it is withered!

Home!
That is the silent windows in old grandiose edifices
Ach, they have been sanded.

When I forget you, sweet yesterday,
[I] will forget my hope

Under the walls of Babylon
we sat and cried
whenever we looked around us.

Piles of rubble and contaminated hills

Pain and suffering walk arm in arm through ragged streets
because an aimlessly wandering lunacy
slit open the body of the earth
and rummages through its bowels
for an oracle

Under the walls of Babylon
we sat and cried
whenever we thought of the future

Not for our return will the shackle be removed from our feet
but like sand before the fall storm
we will be swirled into the direction of the four winds
each one alone into hostile deserts.

Contributed by Bernart Bartleby - 2015/1/27 - 15:10




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