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Die Peststadt

František Petr Kien
Language: German



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Versi di František Petr (Franz Peter) Kien (1919-1944), poeta ed artista ebreo ceco di lingua tedesca.
Musica di Gideon Klein (1919-1945), pianista e compositore ebreo ceco.
La poesia fa parte del ciclo “Die Pest” musicato da Klein su versi di Kien. Il ciclo fu eseguito a Theresienstadt con la direzione Viktor Ullmann (1898-1944), compositore, pianista e direttore d’orchestra ebreo austriaco, ma purtroppo la musica è andata perduta, così come tutti i suoi protagonisti.
Testo trovato su di un sito dedicato al Ghetto di Theresienstadt





Franz Peter Kien era nativo di Varnsdorf in Boemia, al confine con la Sassonia. Studiò pittura e grafica a Brno e a Praga, dove fu compagno di scuola dello scrittore e drammaturgo Peter Weiss. Quando nel 1939 la Boemia e la Moravia furono fagocitate dalla Germania nazista, uno dei primi atti dei dominatori fu l’estensione delle leggi razziali. Gli ebrei furono allontanati da ogni istituzione pubblica e a Franz Peter Kien fu impedito di continuare a frequentare l’Accademia di Belle Arti, ma continuò a studiare privatamente. Nel 1940 si sposò e cercò di fuggire all’estero con i suoi famigliari, ma nel 1941 tutti vennero presi e rinchiusi a Theresienstadt.
Nel ghetto-campo di concentramento Franz Peter Kien venne assegnato all’ufficio grafica e design del Freizeitgestaltung (“L’Amministrazione del Tempo Libero”) ma la sua produzione artistica più interessante non è quella, per così dire, ufficiale, bensì le centinaia di schizzi, disegni, dipinti e poesie in cui l’artista ritrasse la vita a Theresienstadt, una vita dominata – come descritto in questi versi – dall’onnipresenza della morte nella “città della peste”, un luogo che non era altro che l’anticamera dell’inferno di Auschwitz, dello sterminio.



“Die Peststadt” è una litanìa di morte, di epidemia, di paura, di corpi insepolti, di urla dei morenti in un città avvolta da un’aria mefitica che la schiaccia come una spessa coltre. Ma nonostante la totale assenza di speranza la poesia si conclude con un verso quasi rabbioso: “Doch unsere Träume kann uns niemand rauben”, “Ma nessuno può derubarci dei nostri sogni”



Il 16 ottobre 1944 Franz Peter Kien decise di seguire la moglie e i parenti nel trasporto verso Auschwitz. Lasciò una valigia piena di poesie e disegni all’amica Helga Wolfenstein, conosciuta nel ghetto e divenuta la sua amante, che sopravvisse all’Olocausto. Lui invece non ce la fece: morì di un’infezione già alla fine di quel 1944.



Il nome di Franz Peter Kien è legato soprattutto alla famosa opera lirica “Der Kaiser von Atlantis oder Die Tod-Verweigerung” (“L'imperatore di Atlantide ovvero Il rifiuto della morte”) di cui Kien scrisse il libretto su musiche di Viktor Ullmann. L’opera fu composta nella seconda metà del 1943 e nella primavera del 1944 tutto era pronto per la sua prima rappresentazione, che però fu impedita dai nazisti, accortisi che si trattava di un’intelligente satira contro il totalitarismo (basti pensare che il personaggio principale è l'imperatore Overall, traduzione inglese dell’“Über Alles”, parola d’ordine del regime hitleriano…).
Kaum wagt der Blick sich in die öde Weite,
wo schwarz der Peststadt Silhouette droht –
dort ist der Tod.
Wie Trauerfahnen wehn die Rabenscharen,
und ihnen neiderfüllt zur Seite
die Geier und der Pest Geleite.
Verängstigt schleicht der Bauer durch die Auen,
den Tod vor sich dort hinter Wall und Graben,
im Nacken Grauen
und mäht nach der Musik der heisern Raben.

Die Leichen unbegraben auf der Straße liegend,
die Kranken in den Häusern heulend:
das ist die Pest mit ihren schwarzen Beulen,
das ist die Pest, der schrecklichste der Kriege.
Noch klirrt das dünne Eisen der Duelle.
Noch geht der Stolz durch wohlgefüllte Ställe.
Noch gibt es Maskenbälle.

Durch die Straßen rollte der Leichenkarren,
von vermummten Knechten stumm begleitet –
über morsche Knochen hingebreitet.
Und die Luft liegt wie in Barren
Über die entsetzte Stadt gepresst.
Dort im letzten Hause tobt das letzte Fest.
Irre Klänge von zerborstnen Mandolinen,
Reigen von zerfetzten Harlekinen,
Küsse, Blut und Wein hinter verschlossenen Gardinen.
Pest.

Ohn Atem, kahl, zerrissnes Hemde,
Blei an den Sohlen, Stacheldraht ums Herz,
im eignen Haus ewig Fremde.
Und jeden Tag und jede Stunde zerrt`s
An unserem Leben, wie die Angelrute
Den Fisch aus seinem schleudert uferwärts.
Uns jagt das Leiden wie der Hengst die Stute,
vermählt sich uns mit wieherndem Triumph,
umarmt uns mit den Schnüren seiner Knute.
Ohn Atem, kahl, mit blaugedroschnem Rumpf
Presst uns die Not in ihre Daumenschrauben
Und macht an unserm Fleisch ihr Messer stumpf.
Doch unsere Träume kann uns niemand rauben.

Contributed by Bernart Bartleby - 2015/1/27 - 11:36




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