Es gibt
keinen jüdischen Wohnbezirk
in Warschau mehr.
La Grossaktion è completata.
Sedici maggio, ore sei.
Sessanteseimilacinquasei
i subumani spacciati.
Dentro le tane dei banditi
la prova dei loro crimini:
quattro cuscini, due scodelle,
un tavolino di vimini.
Es gibt
keinen jüdischen Wohnbezirk
in Warschau mehr.
In via Tlomackie un'esplosione,
poi il rombo rauco di un rogo:
come il roveto di Mosè
si accende la sinagoga.
Va in fiamme il Fedro di Platone
e una pantofola rosa,
bruciano Kafka e Dostoevskij
ed un vestito da sposa.
Es gibt
keinen jüdischen Wohnbezirk
in Warschau mehr.
Voi che da Lipsia, o da Milano,
guardate il ghetto bruciare
come si guarda, dalla riva del mare,
laggiù, lontano, un naufragio:
anche per voi verrà, tra poco,
l'ora più buia e più grave,
l'ora del fuoco e delle decisioni:
lottare, o vivere da schiavi.
Non c’è
più nessun ghetto degli Ebrei
a Varsavia.
keinen jüdischen Wohnbezirk
in Warschau mehr.
La Grossaktion è completata.
Sedici maggio, ore sei.
Sessanteseimilacinquasei
i subumani spacciati.
Dentro le tane dei banditi
la prova dei loro crimini:
quattro cuscini, due scodelle,
un tavolino di vimini.
Es gibt
keinen jüdischen Wohnbezirk
in Warschau mehr.
In via Tlomackie un'esplosione,
poi il rombo rauco di un rogo:
come il roveto di Mosè
si accende la sinagoga.
Va in fiamme il Fedro di Platone
e una pantofola rosa,
bruciano Kafka e Dostoevskij
ed un vestito da sposa.
Es gibt
keinen jüdischen Wohnbezirk
in Warschau mehr.
Voi che da Lipsia, o da Milano,
guardate il ghetto bruciare
come si guarda, dalla riva del mare,
laggiù, lontano, un naufragio:
anche per voi verrà, tra poco,
l'ora più buia e più grave,
l'ora del fuoco e delle decisioni:
lottare, o vivere da schiavi.
Non c’è
più nessun ghetto degli Ebrei
a Varsavia.
envoyé par Bernart Bartleby - 23/3/2014 - 14:43
Il sergente afferrò il mio fucile e puntò la canna contro il piccolo petto del bambino.
Il bambino si pisciò addosso.
Poi, mi guardò in faccia. Perché stava cercando il mio sguardo? Sperava in un mio pentimento? In una tardiva complicità?
Strappai il fucile dalle mani del sergente, e gli dissi: "Non hai il diritto di disporre della mia arma".
Il sergente reagì: "Bene, finirai davanti alla corte marziale, non pensare di passarla liscia".
Risposi: "Non me ne frega niente".
Lui mise in moto e con un'espressione in arabo maledisse mia madre, mia sorella e varie generazioni di femmine della mia famiglia.
Poi sbraitò: "Tu e tutti quelli come te, gli amanti degli arabi", così disse, gli amanti degli arabi, "dovreste essere uccisi, dovreste essere cancellati dalla faccia della terra, siete la vergogna del popolo d'Israele".
Nell'immaginario dell'Occidente, la questione del rapporto tra la vittima e il carnefice è fondamentale ed è oggetto di una continua discussione.
In sostanza c'è chi ritiene che la vittima, per il suo essere stata vittima, diventi migliore. C'è invece chi sostiene che la vittima finisce per
assomigliare al carnefice, per aver assimilato e fatto proprio il male subìto. Io penso che essere stati vittima o carnefice non cambia niente.
Conta solo la capacità o l'incapacità di mettersi nei panni altrui; non di amare l'altro, compito troppo difficile, quasi impossibile; ma di pensare cosa farei io, come mi sentirei io, quali paure avrei provato io, se fossi nella situazione dell'altro.
Penso che questa capacità vada insegnata, e non nasce spontaneamente.
Sono convinto che il sergente avesse visto più e più volte la foto del ragazzino con le mani alzate in una strada del ghetto di Varsavia, con intorno soldati tedeschi che gli puntano contro i fucili. È una immagine che nelle scuole israeliane veniva mostrata agli alunni.
Ma aver visto un'immagine non significa niente se non c'è nessuno a spiegare: quella foto parla di te. E non è detto che tu sia il ragazzino, anche se sei ebreo e israeliano.
Il bambino si pisciò addosso.
Poi, mi guardò in faccia. Perché stava cercando il mio sguardo? Sperava in un mio pentimento? In una tardiva complicità?
Strappai il fucile dalle mani del sergente, e gli dissi: "Non hai il diritto di disporre della mia arma".
Il sergente reagì: "Bene, finirai davanti alla corte marziale, non pensare di passarla liscia".
Risposi: "Non me ne frega niente".
Lui mise in moto e con un'espressione in arabo maledisse mia madre, mia sorella e varie generazioni di femmine della mia famiglia.
Poi sbraitò: "Tu e tutti quelli come te, gli amanti degli arabi", così disse, gli amanti degli arabi, "dovreste essere uccisi, dovreste essere cancellati dalla faccia della terra, siete la vergogna del popolo d'Israele".
Nell'immaginario dell'Occidente, la questione del rapporto tra la vittima e il carnefice è fondamentale ed è oggetto di una continua discussione.
In sostanza c'è chi ritiene che la vittima, per il suo essere stata vittima, diventi migliore. C'è invece chi sostiene che la vittima finisce per
assomigliare al carnefice, per aver assimilato e fatto proprio il male subìto. Io penso che essere stati vittima o carnefice non cambia niente.
Conta solo la capacità o l'incapacità di mettersi nei panni altrui; non di amare l'altro, compito troppo difficile, quasi impossibile; ma di pensare cosa farei io, come mi sentirei io, quali paure avrei provato io, se fossi nella situazione dell'altro.
Penso che questa capacità vada insegnata, e non nasce spontaneamente.
Sono convinto che il sergente avesse visto più e più volte la foto del ragazzino con le mani alzate in una strada del ghetto di Varsavia, con intorno soldati tedeschi che gli puntano contro i fucili. È una immagine che nelle scuole israeliane veniva mostrata agli alunni.
Ma aver visto un'immagine non significa niente se non c'è nessuno a spiegare: quella foto parla di te. E non è detto che tu sia il ragazzino, anche se sei ebreo e israeliano.
Il bambino nella neve, Wlodek Goldkorn
Lorenzo - 27/1/2018 - 11:56
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[2013]
Scritta da Umberto Fiori e Tommaso Leddi degli Stormy Six
Dallo spettacolo “Benvenuti nel ghetto” realizzato dal gruppo insieme a Moni Ovadia, in occasione dei 70 anni dall’insurrezione del ghetto di Varsavia.
“Eppure - chissà - là dove qualcuno resiste senza speranza, è forse là che inizia la storia umana, come la chiamiamo, e la bellezza dell’uomo.” Yannis Ritsos / Γιάννης Ρίτσος, frammento da “Ελένη”, 1970.
Tra l’aprile e il maggio del 1943 gli ebrei del ghetto di Varsavia — uomini e donne, vecchi e bambini — si ribellavano alla violenza delle SS e tenevano loro testa, armi in pugno, per quasi un mese. Si tratta del primo episodio di resistenza armata contro i nazisti; un episodio tanto più significativo perché a esserne protagonisti — in condizioni di disperata inferiorità militare e di quasi totale isolamento — sono le vittime designate della persecuzione razzista e del genocidio, i "subumani senza onore" dai quali le truppe di Hitler si attendevano solo viltà e sottomissione. Le undici canzoni del disco, scritte in occasione dell’anniversario, rievocano lo storico episodio da diverse angolature.
1. Canzone del tempo e della memoria
2. Canto dei sarti ebrei della Wehrmacht
3. Devarìm (dal Deuteronomio)
4. Umschlagplatz
5. Benvenuti nel ghetto (Cocktail Molotov)
6. Mordechai Anielewicz
7. Mein name ist Stroop, durch zwei ‘o’
8. Viene un giorno (da Malachia)
9. Il sole sottoterra
10.Es gibt
11.Invocazione
Il ritornello di Es gibt ricalca parola per parola l’incipit del rapporto finale di Stroop nel maggio del 1943 dopo la distruzione e l’incendio del ghetto (Wohnbezirk, lett. distretto abitativo) e della sinagoga di Varsavia (che nella seconda strofa vengono associati al rogo dei libri messo in opera dai nazisti nel maggio del 1933). Grossaktion era il nome dato dai comandi tedeschi alla repressione sistematica della rivolta. Subumani (Untermenschen, sottouomini), banditi, criminali, erano qualificati gli ebrei nella terminologia hitleriana.
Un’altra foto dal rapporto di Stroop:
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