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Hetedik ecloga

Miklós Rádnoti
Language: Hungarian


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Járkálj csak, halálraítélt!
(Miklós Rádnoti)
Nem tudhatom
(Miklós Rádnoti)
Ha én rózsa volnék
(Zsuzsa Koncz)


[Luglio 1944]
Versi del poeta ungherese Radnóti Miklós.
Forse questa poesia non è mai stata messa in musica, eppure provo lo stesso a proporla come CCG e non come Extra, visto il suo contenuto.
In ogni caso ci sono su YouTube molti video in cui questi splendidi e disperati versi vengono proposti o recitati con un sottofondo musicale: quello più appropriato mi è sembrato dei Nine Inch Nails, dal loro album del 2008 intitolato «Ghosts I-IV (Halo 26)»... Ma anche il video con la declamazione di Latinovits Zoltán, accompagnata dalla musica del compositore ungherese Béla Bartók (nell’esecuzione della New York Philharmonic Orchestra diretta da Leonard Bernstein), lascia davvero di sale.



Miklós Rádnoti (Budapest, 5 maggio 1909 – Abda, 10 novembre 1944) aveva studiato filosofia, voleva insegnare, ma nell’Ungheria filonazista gli fu impedito perché ebreo. Lo mandarono comunque al fronte, seppur in un battaglione di lavoro destinato agli indesiderabili ma pur sempre utili ebrei. Nel 1944 fu spedito a scavare rame in una miniera in Serbia ma, quando i partigiani di Tito si fecero troppo vicini, lui e gli altri 3.000 soldati/lavoratori/prigionieri ebrei ungheresi furono costretti ad una marcia della morte che costò la vita a moltissimi... Secondo le testimonianze, Miklós Rádnoti fu pestato a sangue da un soldato che lo aveva preso di mira perchè il poeta scriveva sempre, febbrilmente... Troppo debole per proseguire la marcia, fu finito sul posto, nei pressi di Abda, un villaggio nel nord-ovest dell’Ungheria.



Nei suoi vestiti, rintracciati in una fossa comune, fu trovato il suo ultimo taccuino di versi.
Questa «Settima Egloga» la scrisse nel luglio del 1944 ad Heidenau (non il sottocampo di Flossenbürg in Sassonia, ma un campo di lavoro in Serbia, nei dintorni della cittadina di Žagubica) poche settimane prima di venire assassinato...
Látod-e, esteledik s a szögesdróttal beszegett, vad
tölgykerités, barakk oly lebegõ, felszívja az este.
Rabságunk keretét elereszti a lassu tekintet
és csak az ész, csak az ész, az tudja, a drót feszülését.
Látod-e drága, a képzelet itt, az is így szabadul csak,
megtöretett testünket az álom, a szép szabadító
oldja fel és a fogolytábor hazaindul ilyenkor.

Rongyosan és kopaszon, horkolva repülnek a foglyok,
Szerbia vak tetejérõl búvó otthoni tájra.
Búvó otthoni táj! Ó, megvan-e még az az otthon?
Bomba sem érte talán? ‘s van’, mint amikor bevonultunk?
És aki jobbra nyöszörg, aki balra hever, hazatér-e?
Mondd, van-e ott haza még, ahol értik e hexametert is?

Ékezetek nélkül, csak sort sor alá tapogatva,
úgy irom itt a homályban a verset, mint ahogy élek,
vaksin, hernyóként araszolgatván a papíron;
zseblámpát, könyvet, mindent elvettek a ‘Lager’
õrei s posta se jön, köd száll le csupán barakunkra.

Rémhirek és férgek közt él itt francia, lengyel,
hangos olasz, szakadár szerb, méla zsidó a hegyekben,
szétdarabolt lázas test s mégis egy életet itt,-
jóhírt vár, szép asszonyi szót, szabad emberi sorsot,
s várja a véget, a sûrü homályba bukót, a csodákat.

Fekszem a deszkán, férgek közt fogoly állat, a bolhák
ostroma meg-megujúl, de a légysereg elnyugodott már.
Este van, egy nappal rövidebb, lásd, ujra a fogság
és egy nappal az élet is. Alszik a tábor. A tájra
rásüt a hold s fényében a drótok ujra feszülnek,
s látni az ablakon át, hogy a fegyveres õrszemek árnya
lépdel a falra vetõdve az éjszaka hangjai közben.

Alszik a tábor, látod-e drága, suhognak az álmok,
horkan a felriadó, megfordul a szûk helyen és már
ujra elalszik s fénylik az arca. Csak én ülök ébren,
féligszítt cigarettát érzek a számban a csókod
íze helyett és nem jön az álom, az enyhetadó, mert
nem tudok én meghalni se, élni se nélküled immár.

Lager Heidenau, Zagubica fölött a hegyekben, 1944. július

Contributed by Bernart Bartleby - 2014/1/16 - 22:36



Language: Italian

Traduzione italiana di Edith Bruck da Poetria, movimento clandestino di resistenza
SETTIMA EGLOGA

Vedi, imbrunisce, e l’atroce barriera di quercia
col fregio di filo spinato sta così sospesa che nel buio si dilegua.
Lo sguardo va lento oltre la cornice del campo,
la mente, la mente soltanto conosce la tensione del filo.
Vedi, cara, qui è così che si libera l’immaginazione, il sogno,
il bel liberatore, scioglie i nostri corpi sfatti,
e allora il campo si avvia alla volta di casa.

A brandelli e calvi, russando, volano i prigionieri
dall’alto della cieca Serbia verso il paesaggio di casa che si cela.
Paesaggio di casa che si cela! Ma c’è ancora una casa? Una bomba
non l’avrà colpita? E’ come quando ci arruolammo? Lo stremato
compagno di destra, quello a sinistra vedranno mai una casa?
Dimmi, laggiù c’è una casa dove ancora qualcuno intende l’esametro?

Senza strumenti, riga dopo riga, tastando,
scrivo i miei versi nella penombra così come vivo, cieco
come un bruco che striscia le sue dieci dita sulla carta,
il quaderno, la torcia, tutto mi fu tolto dagli scherani del campo
non arriva più neanche la posta, solo la nebbia scende sulle nostre baracche.

Tra notizie allarmanti e cimici, qui nelle montagne convivono
il francese e il polacco, l’italiano chiassoso, l’ebreo assorto,
il serbo scismatico, febbricitanti e con i corpi piagati,
nonostante tutto, vivono la stessa vita in attesa di una buona nuova,
una bella parola di donna, un destino libero e umano, una fine irraggiungibile,
aspettando il miracolo.

Sono disteso sul legno, un animale prigioniero, tra i parassiti,
tra un’onda e l’altra di pulci quando l’orda delle mosche s’è placata.
Vedi, è sera, un giorno di prigionia
e un giorno di vita in meno. Il campo dorme.
Sul paesaggio splende la luna e quella sua luce il filo
spinato è nuovamente teso, dalla finestra seguo sul muro
le ombre delle guardie armate tra le voci della notte.

Vedi, cara, il campo dorme, i sogni frusciano,
chi si sveglia di soprassalto si rigira nel suo stretto lembo,
e di nuovo sprofonda nel sonno con il volto che si illumina. Io solo
sono sveglio, seduto assaporo la cicca in bocca invece di un tuo bacio
e il sonno tarda a portarmi conforto, perché
ormai non posso più morire né vivere senza di te.

[Lager di Heidanau, sulle montagne sopra Žagubica, luglio 1944]

Contributed by Bernart Bartleby - 2014/1/16 - 22:37




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