En arribent a Peccais
lo baile nos demanda
lo baile nos demanda
se volem travalhar
Que lo tron de Dieu
que cure cante Peccaissiana
Chau aver tuat paire e maire
per anar a Peccais
En arribent a l’ostau
la femna tòca la borseta
tòca la borseta
d’argent n’i aviá pas cap
Que lo tron de Dieu
que cure cante Peccaissiana
Chau aver tuat paire e maire
per anar a Peccais
Se la Repubblica sabiá la vida
que nos fan faire
farián brular Peccais
Christ e mai cure baile
lo baile nos demanda
lo baile nos demanda
se volem travalhar
Que lo tron de Dieu
que cure cante Peccaissiana
Chau aver tuat paire e maire
per anar a Peccais
En arribent a l’ostau
la femna tòca la borseta
tòca la borseta
d’argent n’i aviá pas cap
Que lo tron de Dieu
que cure cante Peccaissiana
Chau aver tuat paire e maire
per anar a Peccais
Se la Repubblica sabiá la vida
que nos fan faire
farián brular Peccais
Christ e mai cure baile
envoyé par Dead End - 12/3/2013 - 13:09
Langue: français
Traduzione francese di Enzo Barnabà
EN ARRIVANT À PECCAIS
En arrivant à Peccais
le chef nous demande
le chef nous demande
si nous voulons travailler
Que le tonnerre de Dieu
qui emporte tout, chante la chanson de Peccais
Il faudrait avoir tué père et mère
pour aller à Peccais
En arrivant à la maison
la femme tâte la bourse
tâte la bourse
de l’argent il n’y en avait pas
Que le tonnerre de Dieu
qui emporte tout, chante la chanson de Peccais
Il faudrait avoir tué père et mère
pour aller à Peccais
Si la République savait la vie
qu’on nous fait mener
elle ferait brûler Peccais
le Christ et enverrait au diable le chef
En arrivant à Peccais
le chef nous demande
le chef nous demande
si nous voulons travailler
Que le tonnerre de Dieu
qui emporte tout, chante la chanson de Peccais
Il faudrait avoir tué père et mère
pour aller à Peccais
En arrivant à la maison
la femme tâte la bourse
tâte la bourse
de l’argent il n’y en avait pas
Que le tonnerre de Dieu
qui emporte tout, chante la chanson de Peccais
Il faudrait avoir tué père et mère
pour aller à Peccais
Si la République savait la vie
qu’on nous fait mener
elle ferait brûler Peccais
le Christ et enverrait au diable le chef
envoyé par Dead End - 12/3/2013 - 13:09
Langue: italien
Traduzione italiana di Enzo Barnabà
ARRIVANDO A PECCAIS
Arrivando a Peccais
il capo ci chiede
il capo ci chiede
se vogliamo lavorare
Che il tuono di Dio
che tutto porta via canti la canzone di Peccais
Bisognerebbe aver ucciso padre e madre
per andare a Peccais
Arrivando a casa
la moglie tasta la borsa
tasta la borsa
e soldi non ce n’erano
Che il tuono di Dio
che tutto porta via canti la canzone di Peccais
Bisognerebbe aver ucciso padre e madre
per andare a Peccais
Se la Repubblica sapesse la vita
che ci fanno fare
farebbe bruciare Peccais
Cristo e manderebbe al diavolo il capo
Arrivando a Peccais
il capo ci chiede
il capo ci chiede
se vogliamo lavorare
Che il tuono di Dio
che tutto porta via canti la canzone di Peccais
Bisognerebbe aver ucciso padre e madre
per andare a Peccais
Arrivando a casa
la moglie tasta la borsa
tasta la borsa
e soldi non ce n’erano
Che il tuono di Dio
che tutto porta via canti la canzone di Peccais
Bisognerebbe aver ucciso padre e madre
per andare a Peccais
Se la Repubblica sapesse la vita
che ci fanno fare
farebbe bruciare Peccais
Cristo e manderebbe al diavolo il capo
envoyé par Dead End - 12/3/2013 - 13:10
Quella strage in Francia degli immigrati italiani
Fabio Gambaro intervista lo storico Gérard Noiriel
da La Repubblica del 14 gennaio 2010
«Il più grande pogrom della storia francese contemporanea. Un emblema della xenofobia di tutti i tempi».
E´ in questi termini che Gérard Noiriel presenta «il massacro degli italiani», vale a dire la terribile caccia all´uomo che il 17 agosto del 1893 si abbatté sui nostri immigrati impiegati nelle saline d´Aigues-Mortes, in Provenza. Una giornata di follia collettiva e di violenza feroce che fece 9 morti accertati, oltre cinquanta feriti e una quindicina di dispersi i cui corpi non vennero mai ritrovati. A quell´episodio a lungo rimosso dalla storiografia ufficiale, Noiriel considerato il maggior specialista francese della storia dell´immigrazione dedica oggi uno studio completo e documentatissimo, Le massacre des Italiens (Fayard, pagg. 291, euro 20, da ieri in libreria), che ricostruisce nei minimi dettagli la dinamica di quelle violenze, la realtà dell´immigrazione italiana e soprattutto «lo scandalo di un processo che, malgrado tutte le prove accumulate, assolse tutti gli imputati».
Il massacro degli italiani rimase infatti impunito e in seguito l´episodio fu a lungo dimenticato da una parte come dall´altra delle Alpi. «All´epoca, tra Italia e Francia vi fu un violento scontro diplomatico, ma poi, per evitare che la situazione degenerasse in conflitto internazionale, entrambi i paesi preferirono insabbiare la vicenda», spiega lo studioso francese, per il quale troppo spesso gli italiani sembrano dimenticare i loro molti antenati emigrati all´estero. «Da allora, quel massacro fu rimosso dalla memoria collettiva. Innanzitutto in Francia, dove nessuno voleva ricordare quella pagina vergognosa della storia nazionale, i cui responsabili non furono i rappresentanti dello stato, ma dei normali cittadini. Paradossalmente però l´episodio fu dimenticato anche in Italia, forse perché per gli italiani l´emigrazione è un fenomeno poco valorizzante, vissuto sempre con un sentimento di vergogna».
Cosa successe esattamente?
«Tutto nacque da un dissidio legato al lavoro nelle saline. I giornalieri francesi, per lo più emarginati e vagabondi, non riuscivano a stare al passo con il ritmo di lavoro degli stagionali italiani, che venivano quasi tutti dal Piemonte ed erano lavoratori infaticabili. Il sentimento d´umiliazione dei francesi alimentò una prima rissa che poi degenerò, innescando la caccia all´uomo contro gli italiani, che furono inseguiti e attaccati da una folla inferocita. All´iniziale rivalità economica, si sovrappose il richiamo alla nazionalità che servì a giustificare e strutturare la violenza. Così, anche gli abitanti d´Aigues-Mortes, che inizialmente erano indifferenti alla sorte dei giornalieri francesi, si associarono alle violenze contro gli italiani. Furono pochissimi coloro che cercarono di aiutare gli immigrati a mettersi in salvo».
La xenofobia fu quindi il motore del massacro?
«Per chi non possiede nulla il richiamo all´identità nazionale diventa l´unico bene di cui andare fieri. Allora come oggi, chi si sente ai margini della società trova nella nazionalità un modo per valorizzarsi. Da qui il sentimento di superiorità nei confronti degli stranieri. E quando per caso gli immigrati riescono meglio dei nazionali, questi provano un grandissimo sentimento d´ingiustizia. Ad Aigues-Mortes, la violenza divenne ancora più feroce, quando i francesi videro che i gendarmi cercavano di proteggere gli italiani. Va poi ricordato che per i più deboli, la violenza contro gli immigrati e il discorso xenofobo sono spesso un modo per contestare l´ordine dello stato. Ancora oggi affermare la propria xenofobia è un modo per sfidare i benpensanti e le istituzioni».
Come si svolse il processo?
«I magistrati cercarono di rispettare le forme della legalità, ma al contempo avvalorarono l´idea che le responsabilità andassero condivise tra italiani e francesi. Ad esempio, accusarono di tentato omicidio Giovanni Giordano, che potremmo considerare il primo clandestino della storia di Francia, dato che all´epoca era già stato espulso una volta dal territorio francese. Insomma, i magistrati manipolarono il processo, ma i giudici popolari si spinsero ancora più in là, giacché assolsero tutti gli imputati francesi, dando così sfogo al risentimento popolare nei confronti degli immigrati italiani».
Quali erano le caratteristiche dell´immigrazione italiana?
«Gli italiani furono i protagonisti della prima grande stagione dell´immigrazione in Francia. Verso la fine del secolo, proprio a causa delle molte violenze e delle molte ingiustizie subite, gli arrivi dall´Italia rallentarono, ma ripresero all´inizio del XX secolo, quando gli italiani divennero la più importante comunità straniera in Francia. L´immigrazione italiana, che all´inizio è stagionale e provvisoria, tende in seguito a diventare sempre più stabile, trovando opportunità di lavoro soprattutto nel mondo rurale e nel settore delle costruzioni».
L´immigrazione italiana era sentita come un problema?
«Nel decennio precedente il massacro di Aigues-Mortes, si cristallizzano tutti gli stereotipi sugli immigrati italiani, considerati una minaccia e una realtà non assimilabile nella società francese. In passato, c´erano stati diversi episodi di violenza, che avevano coinvolto sia dei francesi che degli immigrati, ma non erano mai stati considerati come un problema politico legato all´opposizione tra francesi e italiani. L´immigrazione in quanto tale non era un problema. E´ solo a partire dal 1881, dopo alcuni incidenti a Marsiglia, che l´immigrazione diventa un problema politico. Naturalmente sono le élite vale a dire i politici, i giornalisti che fabbricano le rappresentazioni collettive relative agli stranieri, che poi vengono adottate e interpretate in vario modo nei diversi ambiti della società. Gli italiani furono i primi a subire un discorso apertamente xenofobo, in seguito l´ostilità si sposterà verso altre comunità di stranieri».
Oggi come viene percepita l´immigrazione italiana?
«Alla fine dell´Ottocento, i francesi vedevano negli italiani un elemento di corruzione dell´identità francese. Oggi quell´immagine è radicalmente cambiata. Il ricordo dell´immigrazione italiana viene idealizzato. Gli italiani sono diventati un esempio d´immigrazione riuscita che ha saputo integrarsi felicemente nella società francese. E addirittura c´è chi ad esempio, lo storico e scrittore Max Gallo rivendica l´origine italiana come una componente dell´identità francese. In realtà, tale visione idealizzata dell´immigrazione italiana viene spesso utilizzata per stigmatizzare la nuova immigrazione proveniente dall´Africa e dal mondo arabo. All´epoca però agli italiani venivano fatti gli stessi rimproveri mossi oggi agli immigrati non europei. I tempi cambiano, ma la diffidenza nei confronti degli stranieri riprende sempre gli stessi discorsi».
Fabio Gambaro intervista lo storico Gérard Noiriel
da La Repubblica del 14 gennaio 2010
«Il più grande pogrom della storia francese contemporanea. Un emblema della xenofobia di tutti i tempi».
E´ in questi termini che Gérard Noiriel presenta «il massacro degli italiani», vale a dire la terribile caccia all´uomo che il 17 agosto del 1893 si abbatté sui nostri immigrati impiegati nelle saline d´Aigues-Mortes, in Provenza. Una giornata di follia collettiva e di violenza feroce che fece 9 morti accertati, oltre cinquanta feriti e una quindicina di dispersi i cui corpi non vennero mai ritrovati. A quell´episodio a lungo rimosso dalla storiografia ufficiale, Noiriel considerato il maggior specialista francese della storia dell´immigrazione dedica oggi uno studio completo e documentatissimo, Le massacre des Italiens (Fayard, pagg. 291, euro 20, da ieri in libreria), che ricostruisce nei minimi dettagli la dinamica di quelle violenze, la realtà dell´immigrazione italiana e soprattutto «lo scandalo di un processo che, malgrado tutte le prove accumulate, assolse tutti gli imputati».
Il massacro degli italiani rimase infatti impunito e in seguito l´episodio fu a lungo dimenticato da una parte come dall´altra delle Alpi. «All´epoca, tra Italia e Francia vi fu un violento scontro diplomatico, ma poi, per evitare che la situazione degenerasse in conflitto internazionale, entrambi i paesi preferirono insabbiare la vicenda», spiega lo studioso francese, per il quale troppo spesso gli italiani sembrano dimenticare i loro molti antenati emigrati all´estero. «Da allora, quel massacro fu rimosso dalla memoria collettiva. Innanzitutto in Francia, dove nessuno voleva ricordare quella pagina vergognosa della storia nazionale, i cui responsabili non furono i rappresentanti dello stato, ma dei normali cittadini. Paradossalmente però l´episodio fu dimenticato anche in Italia, forse perché per gli italiani l´emigrazione è un fenomeno poco valorizzante, vissuto sempre con un sentimento di vergogna».
Cosa successe esattamente?
«Tutto nacque da un dissidio legato al lavoro nelle saline. I giornalieri francesi, per lo più emarginati e vagabondi, non riuscivano a stare al passo con il ritmo di lavoro degli stagionali italiani, che venivano quasi tutti dal Piemonte ed erano lavoratori infaticabili. Il sentimento d´umiliazione dei francesi alimentò una prima rissa che poi degenerò, innescando la caccia all´uomo contro gli italiani, che furono inseguiti e attaccati da una folla inferocita. All´iniziale rivalità economica, si sovrappose il richiamo alla nazionalità che servì a giustificare e strutturare la violenza. Così, anche gli abitanti d´Aigues-Mortes, che inizialmente erano indifferenti alla sorte dei giornalieri francesi, si associarono alle violenze contro gli italiani. Furono pochissimi coloro che cercarono di aiutare gli immigrati a mettersi in salvo».
La xenofobia fu quindi il motore del massacro?
«Per chi non possiede nulla il richiamo all´identità nazionale diventa l´unico bene di cui andare fieri. Allora come oggi, chi si sente ai margini della società trova nella nazionalità un modo per valorizzarsi. Da qui il sentimento di superiorità nei confronti degli stranieri. E quando per caso gli immigrati riescono meglio dei nazionali, questi provano un grandissimo sentimento d´ingiustizia. Ad Aigues-Mortes, la violenza divenne ancora più feroce, quando i francesi videro che i gendarmi cercavano di proteggere gli italiani. Va poi ricordato che per i più deboli, la violenza contro gli immigrati e il discorso xenofobo sono spesso un modo per contestare l´ordine dello stato. Ancora oggi affermare la propria xenofobia è un modo per sfidare i benpensanti e le istituzioni».
Come si svolse il processo?
«I magistrati cercarono di rispettare le forme della legalità, ma al contempo avvalorarono l´idea che le responsabilità andassero condivise tra italiani e francesi. Ad esempio, accusarono di tentato omicidio Giovanni Giordano, che potremmo considerare il primo clandestino della storia di Francia, dato che all´epoca era già stato espulso una volta dal territorio francese. Insomma, i magistrati manipolarono il processo, ma i giudici popolari si spinsero ancora più in là, giacché assolsero tutti gli imputati francesi, dando così sfogo al risentimento popolare nei confronti degli immigrati italiani».
Quali erano le caratteristiche dell´immigrazione italiana?
«Gli italiani furono i protagonisti della prima grande stagione dell´immigrazione in Francia. Verso la fine del secolo, proprio a causa delle molte violenze e delle molte ingiustizie subite, gli arrivi dall´Italia rallentarono, ma ripresero all´inizio del XX secolo, quando gli italiani divennero la più importante comunità straniera in Francia. L´immigrazione italiana, che all´inizio è stagionale e provvisoria, tende in seguito a diventare sempre più stabile, trovando opportunità di lavoro soprattutto nel mondo rurale e nel settore delle costruzioni».
L´immigrazione italiana era sentita come un problema?
«Nel decennio precedente il massacro di Aigues-Mortes, si cristallizzano tutti gli stereotipi sugli immigrati italiani, considerati una minaccia e una realtà non assimilabile nella società francese. In passato, c´erano stati diversi episodi di violenza, che avevano coinvolto sia dei francesi che degli immigrati, ma non erano mai stati considerati come un problema politico legato all´opposizione tra francesi e italiani. L´immigrazione in quanto tale non era un problema. E´ solo a partire dal 1881, dopo alcuni incidenti a Marsiglia, che l´immigrazione diventa un problema politico. Naturalmente sono le élite vale a dire i politici, i giornalisti che fabbricano le rappresentazioni collettive relative agli stranieri, che poi vengono adottate e interpretate in vario modo nei diversi ambiti della società. Gli italiani furono i primi a subire un discorso apertamente xenofobo, in seguito l´ostilità si sposterà verso altre comunità di stranieri».
Oggi come viene percepita l´immigrazione italiana?
«Alla fine dell´Ottocento, i francesi vedevano negli italiani un elemento di corruzione dell´identità francese. Oggi quell´immagine è radicalmente cambiata. Il ricordo dell´immigrazione italiana viene idealizzato. Gli italiani sono diventati un esempio d´immigrazione riuscita che ha saputo integrarsi felicemente nella società francese. E addirittura c´è chi ad esempio, lo storico e scrittore Max Gallo rivendica l´origine italiana come una componente dell´identità francese. In realtà, tale visione idealizzata dell´immigrazione italiana viene spesso utilizzata per stigmatizzare la nuova immigrazione proveniente dall´Africa e dal mondo arabo. All´epoca però agli italiani venivano fatti gli stessi rimproveri mossi oggi agli immigrati non europei. I tempi cambiano, ma la diffidenza nei confronti degli stranieri riprende sempre gli stessi discorsi».
Dead End - 12/3/2013 - 13:30
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Canto in occitano dei lavoratori provenienti dalle Cévennes, nel Massiccio Centrale francese, impiegati come giornalieri nelle saline di Peccais, nei pressi di Aigues-Mortes, in Linguadoca.
Molti degli immigrati italiani che lavoravano nelle saline di Peccais/Aigues-Mortes erano piemontesi e sicuramente capirono e forse anche intonarono questa canzone dei loro compagni francesi…
Peccato che nel corso de La Guerre de Cent mille ans che i ricchi fanno ai poveri spesso la solidarietà di classe ha lasciato il posto al razzismo e allo scontro tra gli sfruttati…
Così avvenne nell’agosto del 1893 ad Aigues-Mortes: 9 morti accertati, parecchi dispersi, un centinaio di feriti, tutti lavoratori italiani immigrati, massacrati a colpi di pietre e randelli dai loro compagni francesi e dagli abitanti del luogo.
Questa la ricostruzione dell’episodio dalla pagina su cui ho anche trovato questo canto, sul sito dello scrittore siciliano Enzo Barnabà che, insieme allo storico francese Gérard Noiriel, si è occupato di questo triste e terribile episodio quasi dimenticato sotto le sabbie della politica e del tempo.
Al proposito si vedano: E tutti va in Francia; Gérard Noiriel, “Le massacre des Italiens”, Fayard, 2010; Enzo Barnabà, “Morte agli italiani!”, Infinito edizioni, 2001.
In primavera, avevano lasciato i loro paesi per “andare all’avventura” in Francia. Così facevano in tanti: per rimpinguare col lavoro stagionale i meschini proventi dei campi o per sfuggire definitivamente alla vita grama cui sembravano predestinati. Andrea, Giovanni ed Angelo avevano attraversato il tunnel del Tenda aperto da dieci anni, il primo a piedi, l’altro sul carro di un contadino che si recava a Briga e l’ultimo, il più fortunato, sulla corriera (dodici lire per il posto di seconda classe, sette cambi di cavalli e quattordici ore di viaggio per percorrere i 118 chilometri che lo separavano dal mare). Per tutti e quattro, infatti, la prima tappa era stata Nizza. Poi, in treno, verso la grande città industriale: Marsiglia. Qui avevano trovato lavoro; chi in una fabbrica di laterizi, chi come manovale nell’edilizia, chi nell’industria chimica. A luglio avevano saputo che ad Aigues-Mortes, un paese al di là della pianura della Camargue, reclutavano operai per la stagione del sale e che, lavorando sodo, in un paio di settimane si potevano mettere da parte anche duecento lire: di che tornare in paese con un vestito e un paio di scarpe nuove.
Lunedì 7 agosto, sul vagone che li porta verso le paludi salmastre, si sono fiutati, riconosciuti e sono diventati amici. L’indomani, a Peccais fanno parte della stessa squadra: cinque franchi al giorno undici ore di lavoro estenuante. Accanto a loro, un gruppo di operai provenienti dalle Cévennes, sfoga la propria rabbia intonando un feroce canto occitano che parla con eloquenza anche al loro cuore: “En arribent a Peccais”.
Tutto cambia il 16 agosto, quando si passa alla fase successiva. Adesso si lavora a cottimo e gli operai vanno su e giù come automi spingendo carriole stracolme. C’è tensione perché alcuni francesi,cui quel mattino è stata negata l’assunzione, si sentonodefraudati di un lavoro che pensano spetti prioritariamente a loro. I pimo (questo lo sprezzante epiteto riservato ai piemontesi), inoltre, vengono accusati di imporre ritmi infernali a causa della loro sete di guadagno. Qua e là scoppiano litigi per futili motivi. Durante la pausa di mezzogiorno, una pietra colpisce il capanno degli italiani che interrompono il pranzo e vanno a chiedere conto e ragione ai colleghi transalpini che stanno mangiando nella loro baracca. Ha luogo una sorta d’assedio al grido di “Viva l’Italia, abbasso la Francia!”. Tra i più esaltati proprio Giovanni Giordano che strilla più degli altri agitando un forcone. L’intervento della forza pubblica riporta una calma che si rivelerà soltanto apparente e che non permetterà in ogni caso la ripresa dell’attività.
L’indomani mattina gli italiani aspettano gli operai francesi per cominciare il lavoro. Giungono invece i gendarmi che li rinchiudono nella loro baracca per proteggerli da una banda di malintenzionati che stanno arrivando dal paese. Eccoli, infatti, spuntare all’orizzonte. Man mano che si avvicinano ci si rende conto che si tratta di una vera e propria folla che urla parole di morte, armata di quanto ha potuto trovare: randelli, forconi, sassi. Qua e là si vede luccicare anche qualche pistola e qualche fucile. I gendarmi vengono travolti e la baracca presa d’assalto. Sfondato il tetto, inizia una spietata lapidazione. Angelo si accascia al suolo con la spalla frantumata da una grossa pietra.
Dopo un’ora di quel sadico tiro al bersaglio, si riesce a calmare gli assalitori offrendo loro l’espulsione degli italiani, che saranno subito accompagnati alla stazione. Il ripugnante corteo parte allora in direzione della città con i feriti sorretti dai loro compagni. I più scalmanati si insinuano tra i gendarmi e colpiscono con violenza. Giovanni con un piccolo gruppo fugge in direzione delle vigne che si vedono in lontananza. Vengono inseguiti. Il giovane vernantese viene acciuffato, buttato a terra e randellato brutalmente. “Non è morto” esclama uno degli aggressori dopo alcuni minuti “bisogna finirlo” – “No, basta” gli risponde un altro impietosito. E vanno via lasciandolo tramortito in una pozza di sangue.
Il corteo avanza a fatica. Quando le mura della città cominciano a farsi più nitide e si spera che il calvario stia per finire, si vede uscire dalla Porta della Regina una grossa banda preceduta da un tamburo e da una bandiera. Presi tra due fuochi, per gli italiani non c’è scampo. Antonio, il tendasco, viene colpito da un forcone, cade a terra e si finge morto accanto a corpi ansimanti. Dopo una buona mezz’ora di caccia all’uomo, si riesce a mettere assieme quello che resta del gruppo e si riparte alla volta della stazione. Sotto le mura però, una nuova frotta di aggressori si scaglia all’attacco. “Enormi pietre vengono lanciate da ogni lato” scriverà un magistrato “ad ogni passo si è obbligati a lasciare per terra vittime indifese che forsennati, con indicibile efferatezza, finiranno a randellate”. E ancora: “Come bestie portate al macello, gli italiani si sdraiano sulla strada, sfiniti, aspettando la morte, lapidati, storditi, lasciando ad ogni passo uno dei loro”. Tra di essi, Andrea il ragazzo di Vinadio.
Adesso, nel camerone dell’ospizio, si raccontano quello che hanno visto e non sanno dar risposta agli interrogativi che si pongono. Nel cortile sono allineati sette cadaveri. È la notte del 18 agosto. L’afa e i dolori che trafiggono le loro membra non danno tregua. La luce fievole della candela lascia intravedere i volti tumefatti di due compagni (“non potevano aprire gli occhi né parlare e quasi non avevano più figura umana”, dirà il console italiano). I rantoli ininterrotti aggiungono sofferenza alla sofferenza.
Verso la mezzanotte, si sentono rumori provenienti dal cortile. Giovanni riesce ad avvicinarsi alla finestra. Vede e riferisce. È arrivato un prete accompagnato da un uomo e seguito da due carretti. In gran fretta, le salme vengono benedette, le bare inchiodate e senza indugio, clandestinamente, il lugubre, assurdo corteo si avvia alla volta del cimitero. I quattro amici non possono immaninare che al processo che si svolgerà in dicembre nessuno degli assassini sarà punito. Il solo colpevole che la corte d’assise individuerà sarà proprio Giovanni Giordano, beffardamente condannato per resistenza alla forza pubblica.
Ha un senso evocare oggi questi drammi di collettiva follia che si sono svolti nel 1893? […]
A una simile domanda, lo storico non può rispondere che affermativamente. E non solo per l’ovvio richiamo all’onestà intellettuale: nessuna pagina di storia, per nessun motivo, può essere insabbiata; gli armadi devono contenere abiti e non scheletri. La memoria è anche trampolino verso il futuro. Ricordare permette infatti di esaminare nella giusta luce nodi del presente. E poi, siamo sicuri che il sonno delle erinni che ci portiamo dentro sia ormai divenuto eterno? Che le terribili dee non possano risvegliarsi quando meno ce lo aspettiamo?
Au printemps, ils avaient quitté leurs villages et ils étaient partis pour l’aventure en France. Ceux qui pratiquaient cela étaient nombreux: afin de renflouer les revenus dérisoires des champs par le travail saisonnier ou bien échapper à jamais à l’existence lamentable à laquelle ils semblaient prédestinés. Andrea, Giovanni et Angelo avaient traversé le tunnel de Tende, qui était ouvert depuis dix ans ; le premier à pieds, le second dans le chariot d’un paysan qui se rendait à la Brigue et le dernier, le plus chanceux, en diligence (douze lires pour la place de deuxième classe, sept relais de chevaux et quatorze heures de voyage pour parcourir les 118 kilomètres qui le séparaient de la mer). Nice, en effet, avait été la première étape des quatre. Après, ils avaient continué en train en direction de Marseille, où ils avaient trouvé du travail dans une briqueterie, dans le bâtiment en tant que manœuvre et dans l’industrie chimique. En juillet, ils avaient su qu’à Aigues-Mortes, au-delà de la plaine de la Camargue, on cherchait des ouvriers pour la saison du sel et qu’en travaillant dur en quinze jours on pouvait économiser jusqu’à deux cents lires: de quoi rentrer au village avec un costume et une paire de chaussures neuves.
Lundi 7 août 1893, dans le wagon qui les emmène vers les marais salants ils se sont étudiés, reconnus et ont fraternisé. Le lendemain à Peccais ils font partie de la même équipe : cinq francs par jour pour onze heures de travail épuisant. A côté, un groupe de Cévenols exhale sa rage en occitan, dans un chant farouche qui sait aussi parler à leur cœur: “En arribent a Peccais”
Tout change le 16 août lorsqu’on passe à la deuxième phase du travail. Maintenant on est payé à la tâche et les ouvriers vont et viennent comme des automates en poussant des brouettes débordantes. Il y a de la tension dans l’air parce que des Français, qui n’ont pas été embauchés le matin, ont le sentiment d’avoir été frustrés d’un travail qui leur revenait en priorité. Les pimos (c’est l’épithète méprisante que l’on réserve aux Piémontais), sont accusés d’imposer des cadences infernales à cause de leur soif d’argent. Des disputes à propos de futilités éclatent çà et là. Pendant la pause de midi, une pierre atteint la baraque des Italiens qui arrêtent le repas et vont demander des comptes au Français. Une sorte de siège de la baraquede ces derniers a lieu, au cri de « Vive l’Italie, à bas la France ! ». Parmi les plus exaltés se fait remarquer Giovanni Giordano qui crie plus que les autres et agite une fourche. L’arrivée de la force publique ramène un calme apparent qui, de toute façon, ne permettra pas de se remettre à l’œuvre.
Le lendemain matin, les Italiens attendent les ouvriers français pour pouvoir reprendre le travail. Mais ce sont les gendarmes qui arrivent et qui les renferment dans leur baraque pour les protéger d’une bande de malintentionnés qui vont arriver depuis Aigues-Mortes. Les voilà en effet pointer à l’horizon. Au fur et à mesure qu’ils s’approchent, on se rend compte qu’il s’agit d’une véritable foule qui lance des cris de mort, armée de gourdins, fourches et pierres. Ici et là on voit aussi reluire quelques pistolets et quelques fusils. Les gendarmes sont dépassés et la maison est prise d’assaut. Le toit est défoncé et une lapidation impitoyable commence. Angelo s’affaisse sur le sol, l’épaule brisée par une grosse pierre.
Après une heure de ce tir à la cible sadique, on arrive à calmer les assaillants en leur promettant l’expulsion des Italiens qui seront aussitôt accompagnés à la gare. Le rebutant cortège part alors en direction de la ville, les blessés soutenus par leurs camarades. Les plus enragés se faufilent parmi les gendarmes et frappent violemment. Un petit groupe, dont Giovanni, s’échappe en direction des vignes que l’on aperçoit dans le lointain. Le jeune homme est attrapé, terrassé et rossé brutalement. «Il n’est pas mort» s’exclame un des agresseurs quelques minutes plus tard « il faut l’achever » - « Non, ça suffit » lui répond un autre atteint de pitié. Et ils s’en vont le laissant évanoui dans une mare de sang.
Le cortège avance à grand peine. Lorsque les remparts de la ville se font plus nets et que l’on espère que le calvaire sera bientôt fini, on voit sortir par la Porte de la Reine une grosse bande précédée d’un tambour et d’un drapeau. Pris entre deux feux, pour les Italiens il n’y a pas de salut. Le jeune tendasque, est atteint d’un coup de fourche, tombe par terre et feint d’être mort à côté d’autres corps qui halètent. Après une bonne demi-heure de chasse à l’homme, on arrive à réunir ce qui reste du groupe et on repart en direction de la gare. Sous les remparts, toutefois, une nouvelle meute d’agresseurs se lance à l’attaque. « Des pierres énormes sont jetées de tous côtés » écrira un magistrat « à chaque pas on est forcé de laisser sur le sol des victimes sans défense que des forcenés viendront, avec une sauvagerie sans nom, achever à coups de matraque ». Et encore « Comme des bêtes qu’on mène à l’abattoir, les Italiens se couchent sur la route, épuisés, attendant la mort, lapidés, assommés, laissant à chaque pas un des leurs ». Parmi eux, Andrea, le garçon de Vinadio.
Maintenant, dans la chambrée de l’hospice, ils se racontent ce qu’ils ont vu et n’ont aucune réponse aux questions qu’ils se posent. Dans la cour, sept cadavres sont alignés. C’est la nuit du 18 août. La chaleur étouffante et les douleurs qui transpercent leurs membres ne donnent aucun répit. La faible lumière de la bougie laisse entrevoir les visages tuméfiés de deux de leurs compagnons (« ils ne pouvaient ouvrir les yeux ni parler et ils n’avaient presque plus d’aspect humain » dira le consul italien). Les râles qu’on émet sans cesse tout autour ajoutent de la souffrance à la souffrance.
Vers minuit, on entend des bruits provenant de la cour. Giovanni réussit à s’approcher de la fenêtre. Il voit et rapporte. Un curé accompagné d’un homme et suivi de deux charrettes, est arrivé. En toute hâte, les corps sont bénis, les cercueils cloués et sans plus tarder, dans la clandestinité, l’absurde et lugubre cortège s'achemine vers le cimetière. Les quatre amis ne peuvent imaginer qu’au procès, en décembre, aucun des assassins ne sera puni. Le seul coupable que la cour reconnaîtra sera Giovanni Giordano, condamné pour résistance à la force publique.
Y a-t-il un sens à évoquer aujourd’hui ces drames de folie collective qui se sont déroulés en 1893? […]
L’historien ne peut que répondre par l’affirmative à une telle question. Et non seulement par l’évidente mise en cause de la notion d’honnêteté intellectuelle : aucune page de l’histoire, pour aucune raison, ne peut être enterrée ; les armoires se doivent de garder des habits et non pas des squelettes. La mémoire est aussi un tremplin vers le futur. Elle nous permet d’examiner dans la juste lumière des nœuds du présent. Et par ailleurs, sommes-nous sûrs que le sommeil des érynies que nous portons en nous est devenu éternel ? Que les terribles déesses ne peuvent pas se réveiller au moment où l’on s’y attend le moins ?