Ultimo volo
Orazione civile per Ustica
MONOLOGO PRIMO
Volare è un'arte
In fondo volare è un'arte. E quando le correnti ascensionali sostengono le rapide intese verso le alture, allora si raggiunge il sublime che è disegnato nel cielo: quel vortice di immenso che anche le anime antiche hanno colorato di un intatto mistero. Sarei ipocrita se non confessassi di avere sempre invidiato nei volatili la libertà di azione. La possibilità di improvvisare piroette e giravolte, di giocare coi flutti d'aria con la confidenza sfacciata del fuoriclasse.
Io invece, dall'alto dei miei diecimila metri, osservavo gli uccelli sul Pacifico e mi chiedevo se mai, un giorno, sarei riuscito a farmeli amici. Loro, che al mio passaggio si tenevano larghi e rallentavano attoniti all'ansimare dei miei polmoni di acciaio.
Ma tutto questo è solo un ricordo. Sono nato negli anni sessanta in un paese molto lontano da qui. Le mie rotte d'allora erano quelle che collegavano, per conto di una linea americana, le isole Hawaii. Lavoro duro di routine. Trasportavo pesce destinato ai mercati ittici di quell'arcipelago appena divenuto l'ennesima e ultima stelletta sulla bandiera degli Stati Uniti d'America.
A quel tempo non conoscevo il traffico spasmodico e nervoso dei vostri aeroporti europei, le attese in fila per un decollo in gravoso ritardo. Nulla sapevo dei cieli intasati di questo pezzo di pianeta che si chiama Europa. E poi, soprattutto, quasi niente sapevo degli umani. Ne ospitavo pochissimi a bordo. Solo i piloti che mi guidavano a occhi chiusi fra gli spazi aperti del cielo sull'oceano.
Poi, un bel giorno, la mia vita cambiò. Andai a vivere nel vecchio continente e presi servizio presso la compagnia ITAVIA, nella penisola italiana. Era l'inizio degli anni settanta e quando arrivai scoprii un paese in forte trasformazione, uno sviluppo di vita e di tecnologia che un giorno o l'altro – lo sapevo – mi avrebbe messo fuorigioco. Ma ero giovane allora e non temevo la concorrenza perché la mia fibra era fortissima e io ero stato creato per lavorare di giorno e di notte. Anche le intemperie o le turbolenze non mi hanno mai preoccupato. Qualche apprensione, invece, specie in principio, mi veniva dall'intenso traffico, dal continuo incrociare quei miei fratelli che immaginavo stressati da tanta frenesia. Ma ben presto mi ci abituai, grazie anche alla serenità che mi veniva dal personale di bordo, da quegli umani con cui condividevo il lavoro. Presi a percorrere instancabile quei corridoi di cielo che univano le punte estreme di questo paese, da nord a sud, dalle isole alle città industriali appena sotto la larga arcata di montagne che chiamate Alpi. Così, in poco tempo, ospitai decine di migliaia di passeggeri e finii con l'ignorare lo stress di questo mondo nevrotico e sempre all'apparente ricerca di chissà che cosa.
Fino al 27 giugno del 1980 avevo accumulato la bellezza di 9000 decolli e altrettanti atterraggi. 9000 voli tutti impressi nella mia memoria di pachiderma dei cieli. Quel giorno lo ricordo molto bene: partimmo con circa due ore di ritardo, ma non certo per colpa mia. Anzi, contavo di recuperare qualche minuto nella speranza che il pilota mi desse il benestare per un'accelerata in aerovia. Il sole era scomparso da poco alla mia destra e con lo sguardo osservavo altri aerei che volavano lontano. Altri ancora, invece, sembravano volerci sfiorare per quanto osassero accostarsi a noi. Strano, pensai. Aerei civili e militari, di varie nazionalità, sembravano addensarsi rapidi in un vorticoso andirivieni di mosse incomprensibili, Cosa mai potrà accadere? - mi chiesi. E mi abbandonai al vento lieve di quella sera di prima estate di cui mai avrei conosciuto il nome.
CANZONE PRIMA
A sud di questo melodramma sparirei
E col cipiglio di vacanza senza remi
Col muso eretto fra le nuvole e i teoremi
Solco le Apuane, i mari e i Pirenei.
Che io di sogni nel mio piccolo ne ho avuti
E questo cielo sul Tirreno li ha raccolti
E questo cielo che è sereno li ha tradotti
A quattro venti e alle bordate fra i viadotti.
Portami lontano, amico mio
Fra le arie buone e i fiumi di gennaio
Prendimi per mano, amico mio
Che l'altr'America è un candore di granaio.
Che questo oceano che ci sembra non finire
È solo un inganno fatto apposta per colpire
Che questo oceano che ci sembra mai finire
È solo un trucco per indurci a rinunciare.
Che io di viaggi me ne intendo e di tristezze,
Che quante volte avrei piantato armi e bagagli
A sorvolare le colline fra le brezze,
A salutare i cormorani fra gli scogli.
Che i legni i chiodi e le lamiere che io indosso
Tutte le lingue e le bestemmie hanno sentito
E ogni parola sconosciuta hanno capito
E ogni colpevole silenzio hanno creduto.
Portami lontano, amico mio
Che d'altre rotte abbiamo voglia e di pianure
Prendimi per mano, amico mio
Che già intravedo le campagne e le radure.
Che questo viaggio che ci sembra mai finire
È solo un abbaglio, e prima o poi dovrà svanire
Che questo viaggio che ci sembra non finire
Al sole del mattino o all'imbrunire?
Portami lontano, amico mio
Fra le arie buone e i fiumi di gennaio
Prendimi per mano, amico mio
Che l'altr'America è un candore di granaio.
Che questo oceano che ci sembra non finire
È solo un inganno fatto apposta per colpire
Che questo oceano che ci sembra mai finire
È solo un trucco per indurci a rinunciare.
E col cipiglio di vacanza senza remi
Col muso eretto fra le nuvole e i teoremi
Solco le Apuane, i mari e i Pirenei.
Che io di sogni nel mio piccolo ne ho avuti
E questo cielo sul Tirreno li ha raccolti
E questo cielo che è sereno li ha tradotti
A quattro venti e alle bordate fra i viadotti.
Portami lontano, amico mio
Fra le arie buone e i fiumi di gennaio
Prendimi per mano, amico mio
Che l'altr'America è un candore di granaio.
Che questo oceano che ci sembra non finire
È solo un inganno fatto apposta per colpire
Che questo oceano che ci sembra mai finire
È solo un trucco per indurci a rinunciare.
Che io di viaggi me ne intendo e di tristezze,
Che quante volte avrei piantato armi e bagagli
A sorvolare le colline fra le brezze,
A salutare i cormorani fra gli scogli.
Che i legni i chiodi e le lamiere che io indosso
Tutte le lingue e le bestemmie hanno sentito
E ogni parola sconosciuta hanno capito
E ogni colpevole silenzio hanno creduto.
Portami lontano, amico mio
Che d'altre rotte abbiamo voglia e di pianure
Prendimi per mano, amico mio
Che già intravedo le campagne e le radure.
Che questo viaggio che ci sembra mai finire
È solo un abbaglio, e prima o poi dovrà svanire
Che questo viaggio che ci sembra non finire
Al sole del mattino o all'imbrunire?
Portami lontano, amico mio
Fra le arie buone e i fiumi di gennaio
Prendimi per mano, amico mio
Che l'altr'America è un candore di granaio.
Che questo oceano che ci sembra non finire
È solo un inganno fatto apposta per colpire
Che questo oceano che ci sembra mai finire
È solo un trucco per indurci a rinunciare.
MONOLOGO SECONDO
Negli abissi
Visto da questi abissi, il mare è un'altra cosa. Non ci sono pesci colorati ad accarezzare i resti della mia carcassa né apparenti forme di vita; non si odono le voci dei bagnanti né i motori delle grandi navi, e neanche i misteriosi sottomarini arrivano qui. Ma si avverte sempre un soffio d'esistenza nella percezione di ogni organismo unicellulare, di ogni alga informe.
Talvolta, dal fondo sabbioso, un improvviso flutto d'aria calda ribadisce che ovunque, anche nei luoghi più remoti di questo pianeta, le leggi della vita sono sempre più forti di ogni digressione nichilista.
Da anni mi trovo quaggiù, ma l'attesa non mi ferisce perché io sento che qualcosa o qualcuno verrà a tirarmi fuori. Mi trovo a circa 3800 metri di profondità, in un punto in cui la mia cecità è totale. Un luogo geografico ove i fondali del mare Tirreno digradano in picchiata come a cercare il centro della terra.
Che ironia della sorte.
Che gioco beffardo, per me, essere qui.
Abituato com'ero a guardare tutto dall'alto, a dominare il silenzio da quote e atmosfere immense, osservo ciò che posso, con queste membra dimesse, dal fondo di ogni fondale, dal suolo di ogni suolo, dal selciato esemplare e basico su cui tutto si regge.
Ora so cos'è il silenzio.
Non quello pieno d'aria e di luci in lontananza, né quello delle vette inarrivabili. Quel silenzio pieno di vento che taglia il crepuscolo e richiama la somma di ogni armonia, di ogni lamento geometrico, di ogni suono riverberato appena.
No. Qui il silenzio è assoluto. È un'iperbole impazzita che ritorce il vuoto del suo inutile replicarsi. Qui il silenzio è opaco e sordo come in una cella asettica dove niente sembra potevi accadere.
Ed è proprio questo che, più di ogni altra solitudine, mi angoscia.
L'annullamento dei ritmi del giorno e della notte, del loro raccontarsi con i suoni e con i colori della vita. Ma io esisto.
Io esisto perché devo...perché attendo in questa oscurità che arrivi un baluginio. Un fendente di luce amica che possa destarmi dal sonno in cui mi hanno costretto. E da questo silenzio che è un frastuono di voci e di grida per il mio grembo offeso e gravido.
CANZONE SECONDA
È presto per sapere se ti rincontrerò
In questa, un'altra vita
O in un'altra realtà
In un altro quartiere
Oppure un altro corpo
Di questa misteriosa immensità.
È presto per sapere
Se un giorno avrò due occhi
Due mani per accarezzarti un po'
Due braccia per tenerti
E fingere di averti
Per sempre come allora...
È presto per sapere
Se un giorno ci sarà
Un'altra dimensione o un'altra città
Un'altra melodia, un battito, un sorriso,
Una ruga del viso
A dire la beltà
Di questo nostro amore
Che valica confini
Che non conosce limiti
Che ha fatto della luce e della verità
La sua canzone,
La sua nobiltà
Amore amore amore amore
Misterioso sei tu...
Amore amore amore amore
Generoso sei tu...
Amore amore amore amore
Valoroso sei tu...
Amore amore amore amore
Generoso sei tu...
In questa, un'altra vita
O in un'altra realtà
In un altro quartiere
Oppure un altro corpo
Di questa misteriosa immensità.
È presto per sapere
Se un giorno avrò due occhi
Due mani per accarezzarti un po'
Due braccia per tenerti
E fingere di averti
Per sempre come allora...
È presto per sapere
Se un giorno ci sarà
Un'altra dimensione o un'altra città
Un'altra melodia, un battito, un sorriso,
Una ruga del viso
A dire la beltà
Di questo nostro amore
Che valica confini
Che non conosce limiti
Che ha fatto della luce e della verità
La sua canzone,
La sua nobiltà
Amore amore amore amore
Misterioso sei tu...
Amore amore amore amore
Generoso sei tu...
Amore amore amore amore
Valoroso sei tu...
Amore amore amore amore
Generoso sei tu...
MONOLOGO TERZO
Pratica Di Mare
Qualcuno mi ha portato qui.
Se alzo lo sguardo vedo un rettangolo di cielo pieno di alluminio e di plastiche verdastri. E attorno un involucro di metallo a sostenere ciò che di me è rimasto -le mie ali, la mia prua come un becco di rapace ormai démodé-, il mio corpo bianco e rosso ricomposto con una pazienza certosina e ogni frammento sfigurato è stato catalogato, numerato, esaminato, analizzato e montato in un allucinante puzzle.
Ogni tanto la gigantesca saracinesca di questo luogo polveroso si apre, si odono voci che parlano lingue diverse: l'italiano, l'inglese, il francese...Ma soprattutto si sente il mare. L'aria salmastra entra come un sotterfugio nei rari momenti di apertura di questo hangar, e mi fa capire quanto vicini siamo alla costa.
Mi hanno posto con la pancia a terra, ma dalla mia prospettiva vedo esattamente ogni cosa recuperata a più riprese dal fondo del mare: i bagagli dei miei passeggeri, i loro libri, le poltrone, i salvagente... Ci sono borse e scatole piene di oggetti, ci sono bambole e altri giocattoli, giornali, pezzi di legno e di lamiera di incerta provenienza, non ancora identificati nel quadro generale del mosaico che rappresento. Su ogni frammento un numero. Sopra ogni cifra un codice da interpretare.
Col passare degli anni, negli anfratti più remoti del mio corpo si sono annidati animali di ogni tipo: centinaia di insetti, di aracnidi, topi e ratti di ogni specie, ma anche serpenti, piccole e velenose vipere che si nascondono fra i miei tubi metallici ed escono a caccia quando i morsi della fame si fanno sentire.
Ma io, io non sono solo qui. Davanti a me c'è qualcun altro.
E talvolta mi chiedo se sia un caso che ci abbiano messi di fronte. Come a ribadire, nel gioco simbolico dei contrari, la nostra fatale e comune appartenenza, l'assurdità della vita, che nella somma algebrica dei suoi momenti ne evidenzia uno dichiarandolo mera essenza del suo significato. Il sommo sunto della sua ragion d'essere.
Noi ci siamo già incontrati una volta, fra le note di ben altra sinfonia, sotto un altro pezzo di cielo. Sotto gli occhi della tigre della quale presto avremmo sentito gli artigli.
CANZONE TERZA
Tempo che va tempo che viene
Che illude e illumina queste sere
Tempo che sfiora tempo che sfugge
Tempo che rimane tempo che strugge
Tempo da ricordare e da dimenticare
Da stringere al petto da portare all'altare
Tempo da perdere e da guadagnare
Tempo prezioso da recuperare
Tempo per intenderci e tempo per scoprire
Tempo per amare e tempo da dedicare
Tempo per conoscersi e tempo da carpire
Al tempo che ci è dato, al tempo risparmiato.
Tempo che piove e tempo che fa sole
Tempo che passa che a fermarci fa male
Tempo per fare e tempo per pensare
Tempo che arriva pronto per ripartire
Tempo da lupi coi fulmini sul mare
C'è sempre tempo per cambiare
Tempo da vivere e tempo da rischiare
Un'intera vita per un tempo migliore
Tempo per intenderci e tempo per scoprire
Tempo per amare e tempo da dedicare
Tempo per conoscersi e tempo da carpire
Al tempo che ci è dato, al tempo risparmiato.
MONOLOGO QUARTO
A tu per tu con il Mig
Che illude e illumina queste sere
Tempo che sfiora tempo che sfugge
Tempo che rimane tempo che strugge
Tempo da ricordare e da dimenticare
Da stringere al petto da portare all'altare
Tempo da perdere e da guadagnare
Tempo prezioso da recuperare
Tempo per intenderci e tempo per scoprire
Tempo per amare e tempo da dedicare
Tempo per conoscersi e tempo da carpire
Al tempo che ci è dato, al tempo risparmiato.
Tempo che piove e tempo che fa sole
Tempo che passa che a fermarci fa male
Tempo per fare e tempo per pensare
Tempo che arriva pronto per ripartire
Tempo da lupi coi fulmini sul mare
C'è sempre tempo per cambiare
Tempo da vivere e tempo da rischiare
Un'intera vita per un tempo migliore
Tempo per intenderci e tempo per scoprire
Tempo per amare e tempo da dedicare
Tempo per conoscersi e tempo da carpire
Al tempo che ci è dato, al tempo risparmiato.
MONOLOGO QUARTO
A tu per tu con il Mig
Fratello...
Io non nutro alcun rancore nei tuoi confronti.
Chiunque tu sia, per qualunque compito sia stato creato, qualsiasi intento nascondessi fra le tue rapide giravolte nei cieli, io semplicemente, non ti odio.
Lo so che non puoi parlare, che non puoi ascoltare.
Lo so che non hai coscienza alcuna.
Ma so che il destino ha voluto farci incontrare nell'attimo fatale che disegna il solco fra la vita e il suo contrario.
E se la tua sagoma ha sfiorato la mia, se il tuo profilo breve si è celato nel cono d'ombra del mio mantice di cavalli impazzito dal dolore e dalle ferite che solo un vigliacco poteva infliggermi. Ebbene, ironia della sorte, ora noi ci troviamo qui. Di nuovo. L'uno di fronte all'altro. Uniti per sempre da una storia che non è più soltanto la mia o la tua. E nemmeno delle ottantuno anime che da quel giorno io rappresento. No. Questa, oggi, è la storia di tutti.
È la storia di chi lavora, di chi viaggia, di chi studia, di chi si impegna e di chi si diverte; di chi opera alla luce del sole e di chi trama nel segreto di quattro mura. È storia che appartiene a tutti coloro che hanno inteso il mio e anche il tuo sacrificio. Ed è storia che si ripete idealmente ogni qualvolta un nostro fratello alato si leva al cielo, ogni volta che la sua rotta si profila nel quadrante luminoso del pannello di comando. Ogni volta che un viaggiatore si reca ignaro sulla soglia che lo separa dal vuoto.
Sarà così fino a quando coloro che sanno non decideranno di raccontare ciò che noi -io e te- abbiamo avuto le ventura di vivere sulla nostra pelle di metallo.
Fin quando la dignità di queste 81 anime -nonché quella del tuo pilota- sarà calpestata dalla menzogna e dal raggiro, noi sventoleremo le bandiere della memoria.
E se a te, fratello, non sarà dato modo, allora vorrà dire che sarò io a farlo per entrambi.
Ché per questo siamo stati chiamati a testimoniare. E, nell'oscurità dei vizi incomprensibili degli umani, a resistere.
CANZONE QUARTA
Na stizza di munnu ti vulissi dari
Rintra li negghi ri stu celu anticu
Nu ciavuru tunnu di sti mani ranni
Rintra li vogghi ri stu viddìcu
E chianciu sinza sapiri nenti
E nenti io vogghiu sapiri
Sulu li to occhi mi ponnu taliari
Sulu li to pinseri mi ponnu tuccari.
Na stizza di munnu ti vulissi dari
Rintra li negghi ri stu celu anticu
Nu ciavuru tunnu di sti mani ranni
Rintra li vogghi ri stu viddìcu
E chianciu sinza sapiri nenti
E nenti io vogghiu sapiri
Sulu li to occhi mi ponnu taliari
Sulu li to pinseri mi ponnu tuccari.
E chianciu sinza sapiri nenti
E nenti io vogghiu sapiri
Sulu li to occhi mi ponnu taliari
Sulu li to pinseri mi ponnu tuccari.
Na stizza di ventu mi catamia lu cori
Che è nivura di petra ri lava
N'anticchia di suli m'arruspigghia la peddi
Che mi quaria li brazza li manu lu coddu
Amuri lu sai ca lu tempu è un cavaddu
Biancu di ciuri e di razza patruna
Amuri lu sai ca lu tempu pirdutu
È russu di sangu e nun pirduna.
Amuri lu sai ca lu tempu è na stidda
C'è cu lu chianci, c'è cu l'addisìa
e c'è cu lu perdi jucannu e s'annaca,
Ma io lu me tempu lu dugnu a tia.
[Traduzione italiana di RV]
Una goccia di mondo ti vorrei dare
dentro alle nebbie di questo cielo antico
un profumo rotondo di queste mani grandi
dentro alle voglie di questo ombelico
e piango senza sapere niente
e niente voglio sapere
solo i tuoi occhi mi possono guardare
solo i tuoi pensieri mi possono toccare.
Una goccia di mondo ti vorrei dare
dentro alle nebbie di questo cielo antico
un profumo rotondo di queste mani grandi
dentro alle voglie di questo ombelico
e piango senza sapere niente
e niente voglio sapere
solo i tuoi occhi mi possono guardare
solo i tuoi pensieri mi possono toccare.
E piango senza sapere niente
e niente voglio sapere
solo i tuoi occhi mi possono guardare
solo i tuoi pensieri mi possono toccare.
Una goccia di vento mi muove il cuore
che nera di pietra di lava
un po' di sole mi risveglia la pelle
che mi scalda le braccia le mani il collo
amore lo sai che il tempo è un cavallo
biancofiore e di razza padrona
amore lo sai che il tempo perduto
è rosso di sangue e non perdona.
Amore lo sai che il tempo è una stella
c'è chi lo piange, c'è chi lo brama
e c'è chi lo perde al gioco e si trastulla,
io il mio tempo lo dono a te.
Rintra li negghi ri stu celu anticu
Nu ciavuru tunnu di sti mani ranni
Rintra li vogghi ri stu viddìcu
E chianciu sinza sapiri nenti
E nenti io vogghiu sapiri
Sulu li to occhi mi ponnu taliari
Sulu li to pinseri mi ponnu tuccari.
Na stizza di munnu ti vulissi dari
Rintra li negghi ri stu celu anticu
Nu ciavuru tunnu di sti mani ranni
Rintra li vogghi ri stu viddìcu
E chianciu sinza sapiri nenti
E nenti io vogghiu sapiri
Sulu li to occhi mi ponnu taliari
Sulu li to pinseri mi ponnu tuccari.
E chianciu sinza sapiri nenti
E nenti io vogghiu sapiri
Sulu li to occhi mi ponnu taliari
Sulu li to pinseri mi ponnu tuccari.
Na stizza di ventu mi catamia lu cori
Che è nivura di petra ri lava
N'anticchia di suli m'arruspigghia la peddi
Che mi quaria li brazza li manu lu coddu
Amuri lu sai ca lu tempu è un cavaddu
Biancu di ciuri e di razza patruna
Amuri lu sai ca lu tempu pirdutu
È russu di sangu e nun pirduna.
Amuri lu sai ca lu tempu è na stidda
C'è cu lu chianci, c'è cu l'addisìa
e c'è cu lu perdi jucannu e s'annaca,
Ma io lu me tempu lu dugnu a tia.
[Traduzione italiana di RV]
Una goccia di mondo ti vorrei dare
dentro alle nebbie di questo cielo antico
un profumo rotondo di queste mani grandi
dentro alle voglie di questo ombelico
e piango senza sapere niente
e niente voglio sapere
solo i tuoi occhi mi possono guardare
solo i tuoi pensieri mi possono toccare.
Una goccia di mondo ti vorrei dare
dentro alle nebbie di questo cielo antico
un profumo rotondo di queste mani grandi
dentro alle voglie di questo ombelico
e piango senza sapere niente
e niente voglio sapere
solo i tuoi occhi mi possono guardare
solo i tuoi pensieri mi possono toccare.
E piango senza sapere niente
e niente voglio sapere
solo i tuoi occhi mi possono guardare
solo i tuoi pensieri mi possono toccare.
Una goccia di vento mi muove il cuore
che nera di pietra di lava
un po' di sole mi risveglia la pelle
che mi scalda le braccia le mani il collo
amore lo sai che il tempo è un cavallo
biancofiore e di razza padrona
amore lo sai che il tempo perduto
è rosso di sangue e non perdona.
Amore lo sai che il tempo è una stella
c'è chi lo piange, c'è chi lo brama
e c'è chi lo perde al gioco e si trastulla,
io il mio tempo lo dono a te.
MONOLOGO QUINTO
Verso Bologna
La conosco questa strada. Quante volte l'ho dominata dall'alto delle mie rotte in aerovia?
Certo, è bizzarro percorrerla così...sul solco di questa striscia di nero asfalto, scortati da scatole di lamiere azzurre lampeggianti, senza una torre di controllo a autorizzarci il volo.
E anche se non vi sono radar a sorvegliare la nostra rotta, c'è tutto un mondo che sembra scrutarci sornione, con l'aria di chi sbircia da un buco della serratura.
Ecco, in questo momento mi sento come un ciclista in apnea, con le caviglie e i polpacci tesi in procinto di una fuga in salita... col pubblico ai lati che trattiene il fiato in gola certo che qualcosa di importante stia per accadere.
Ma è solo il mio ultimo viaggio.
Lasciato definitivamente il freddo container di una zona militare nei pressi del mare Tirreno, ove ho soggiornato a lungo, mi aspetta la mia nuova e ultima casa.
In quella città, Bologna, dove tutto ha avuto inizio.
Ma ora sono stanco, molto stanco. Sento il peso delle intemperie, della salsedine che mi ha trapassato le ossa per tanti anni.
Sento, a ogni sobbalzo del TIR sul selciato imperfetto di questa autostrada, ogni artrosi, ogni microfrattura, ogni lesione mal sanata.
Spero sarà accogliente la mia nuova dimora.
Che possa ospitarmi con grazia, magari elevato su un palco a soddisfare quel po' di ridicola vanità che ogni velivolo, anche vecchio e malandato come me, possiede.
Per mostrare a tutti quale gioiello di aerodinamica e di tecnologia fui un tempo.
Il mio viaggio, intanto, continua e dall'alto Lazio passo le dolci colline che, attraverso l'Umbria, portano dritte alla bassa Toscana.
Come sono belle queste vallate e com'è strano vederle da così vicino...
Ho l'impressione che se allungassi le ali potrei persino toccarle.
Datemi il tempo per fissarle a mente. Ora. Prima che la pianura diradi i promontori a ogni curva e apra le sue porte all'orizzonte sull'Adriatico. Prima che la notte arrivi a nascondere i sogni fantasticati durante il giorno, quelli di cui mi nutro per assaporare un briciolo della perduta libertà.
CANZONE QUINTA
Ingannano i primi ascolti
Come quegli amori di quartiere
O quelli nati nelle spiagge dell'Adriatico
Così fragili e sottili
Che al primo vento d'autunno
Si vestono di carta e volano via
Ingannano i primi fuochi
Che il cavallo è in piedi e scalpita
Ma solo il fiato ci dirà
Del suo passato
Del suo lento camminare
Della sua biada al mattino
Delle sue corse oltre il giardino...
Dammi allora
E non chiedere mai chi sono
Né da dove vengo
Né dove me ne andrò.
Prendi allora
Che questa cena è pronta
Che questo vino è dolce
Che questa luna è irripetibile e lo sai...
Ingannano i primi tremori
Che a tutto siamo pronti
Che il peggio è men che male
E il male è poco e poco offende
E come l'aria ci rigenera la fronte...
Ingannano i primi ascolti
Come promesse vane
Come certe canzoni
Che non fan battere il cuore
Come la vita intera
A rincorrere il senso
Il richiamo amico della sera.
Dammi allora
E non chiedere mai chi sono
Né da dove vengo
Né dove me ne andrò.
Prendi allora
Che questa cena è pronta
Che questo vino è dolce
Che questa luna è irripetibile e lo sai...
Come quegli amori di quartiere
O quelli nati nelle spiagge dell'Adriatico
Così fragili e sottili
Che al primo vento d'autunno
Si vestono di carta e volano via
Ingannano i primi fuochi
Che il cavallo è in piedi e scalpita
Ma solo il fiato ci dirà
Del suo passato
Del suo lento camminare
Della sua biada al mattino
Delle sue corse oltre il giardino...
Dammi allora
E non chiedere mai chi sono
Né da dove vengo
Né dove me ne andrò.
Prendi allora
Che questa cena è pronta
Che questo vino è dolce
Che questa luna è irripetibile e lo sai...
Ingannano i primi tremori
Che a tutto siamo pronti
Che il peggio è men che male
E il male è poco e poco offende
E come l'aria ci rigenera la fronte...
Ingannano i primi ascolti
Come promesse vane
Come certe canzoni
Che non fan battere il cuore
Come la vita intera
A rincorrere il senso
Il richiamo amico della sera.
Dammi allora
E non chiedere mai chi sono
Né da dove vengo
Né dove me ne andrò.
Prendi allora
Che questa cena è pronta
Che questo vino è dolce
Che questa luna è irripetibile e lo sai...
MONOLOGO SESTO
Simulacro
Col tempo si diventa fatalisti e l'età della ragione si riduce ad un afflato obliquo, accennato sopra i residui segmenti della memoria.
Oggi ho soprattutto bisogno di sentirmi felice, di guardare avanti senza quel sorriso stranito da clown qualunque di un circo di periferia che si appresta all'ultimo numero, al termine di una lunga ma incerta carriera.
È così che mi penso: Un minareto a forma di velivolo assurto a scomodo portavoce di un popolo mai assentatosi veramente. Perché nelle mie lamiere v'è il concentrato materiale di ogni molecola, di ogni citoplasma, di ogni acido desossiribonucleico rubato alla vita.
Sono passate quindi 27 primavere da quell'infausto 27 giugno del 1980. E oggi contiamo l'anno 2007. Forse per fatalità o per un'oscura convergenza astrologica, ma in esso si cela l'essenza numerologica della cifra tre volte ripetuta.
Tre volte 27 -appunto-, che sommati ci danno 81. Come il numero delle anime che ho adottato a partire da quel giorno.
E se la cabala è un sunto di superiore conoscenza, il ricettacolo aritmetico del nostro essere qui, adesso, allora io, sì, mi sento felice.
Felice di ricordarvi ciò che mai più, in questo o in un qualunque altro paese della terra, dovrà accadere. Ma è giusto che sia io a parlare?
A puntare, con il mio verbo silente, l'indice contro la mano assassina?
È giusto che sia io a dare una risposta alle migliaia e migliaia di persone che da anni, sempre, chiedono solo un po' di giustizia per amore della verità? E un po' di verità per amore della giustizia?
Potrò mai sostituirmi alla voce forte e integra dell'uomo?
Dell'Uomo con la U maiuscola?
Di quell'essere al quale ho sempre donato i miei servigi, dal quale e per il quale sono stato creato?
No. Questo non rientra nel compito che mi è stato assegnato.
Io sono qua per amore.
Perché è per amore, e solo per quello, che mi hanno ricomposto in un mosaico di dolore e di passione.
Perché è per amore, e solo per quello, che mi hanno insegnato a parlare e a guardarvi negli occhi.
Perché è per amore, e solo per quello, che ho accettato l'idea di impersonare il simulacro che ora divento.
Oggi è uno di quei giorni in cui ascolto le parole del cielo
Come quegli animali infelici fuori aspettando le piogge
Come gli indiani con le orecchie sulla terra e i cavalli al galoppo
Come i torrenti in odore delle rapide sfiorando le sabbie.
E se il mio tempo è un granello di polvere un pulviscolo di stelle
Che non si trova più nel calendario né nelle pagine gialle
Se il mio destino l'avete scritto su un muro di carta e catrame
La mia memoria me la gioco a dadi e sulla sponda di un fiume.
Oggi ho bisogno di un cenno di un segnale particolare
Una luce che mi colga nel mio ventre nel mio peregrinare
Fra le vostre coscienze o fra quello che ne rimane
Non più in fondo al mare
Ma sulla mia pelle e le mie ali.
C'è una brezza crudele che spinge le mie ossa d'airone
Che son forti e portano in grembo migliaia di cuori,
Ciascuno con una promessa da raccontare,
Un passato, un futuro, un dolore da ricordare
Oggi è uno di quei giorni in cui credo alle parole del cielo
Cupo e minaccioso, un sentiero di nuvole scure,
Un cattivo presagio, una minaccia da dimenticare,
Un tremore di terra che scuote perfino le viscere del mare.
Attraverso le rotte del mondo io di bellezza ne vedo,
Mentre lascio una firma di fiamma che spettina il cielo,
Fioriranno i ciliegi, sorrideranno al mio passaggio
I viandanti, gli gnomi, le spose candide di maggio
E se qualcuno si è illuso di mischiare bene le carte
Di nascondere la sua vergogna fra i giochi della malasorte
Di regalare al futuro e ai fratelli un mattino normale
Ma non c'è più niente di normale e non c'è futuro che non faccia male.
Chi ha rubato il sonno alle madri e sparso gemme nel vento?
Chi ha sottratto il sorriso ai bambini e di colpo l'ha spento?
Chi ha spezzato i polmoni d'acciaio del colosso volante?
Chi ha giocato da baro sapendo che c'era un perdente?
E ora nella vertigine, mentre sprofondo nel vuoto,
Avverto nei sensi la pace di un luogo remoto,
Le vette inaccessibili e i ghiacci che ho già trasvolato
Dove regna il silenzio, dove l'uomo non è mai stato
E mi sembra di vederle le iene nella stanza dei bottoni
Con uniformi di cartapesta a decidere i cattivi e i buoni
Stravaccati in poltrone di pelle, ché non si rischia niente
Con l'arroganza del potere e l'indifferenza di certa gente
Eppure la storia va avanti non conosce padroni,
Anche a quelli che muovono i fili un giorno tremeranno le mani,
Perché esiste un passaggio comune, un comune destino
Che fa più vita la vita e non fa sconti a nessuno
Torneranno le stagioni di sempre per chi ha vinto e perduto.
Per chi ha avuto una sorte beffarda e anche per chi ha taciuto
E a ciascuno toccherà fare i conti senza un ma senza un se
Alla fine del giorno resteranno gli avanzi di qualche perché. 1
Come quegli animali infelici fuori aspettando le piogge
Come gli indiani con le orecchie sulla terra e i cavalli al galoppo
Come i torrenti in odore delle rapide sfiorando le sabbie.
E se il mio tempo è un granello di polvere un pulviscolo di stelle
Che non si trova più nel calendario né nelle pagine gialle
Se il mio destino l'avete scritto su un muro di carta e catrame
La mia memoria me la gioco a dadi e sulla sponda di un fiume.
Oggi ho bisogno di un cenno di un segnale particolare
Una luce che mi colga nel mio ventre nel mio peregrinare
Fra le vostre coscienze o fra quello che ne rimane
Non più in fondo al mare
Ma sulla mia pelle e le mie ali.
C'è una brezza crudele che spinge le mie ossa d'airone
Che son forti e portano in grembo migliaia di cuori,
Ciascuno con una promessa da raccontare,
Un passato, un futuro, un dolore da ricordare
Oggi è uno di quei giorni in cui credo alle parole del cielo
Cupo e minaccioso, un sentiero di nuvole scure,
Un cattivo presagio, una minaccia da dimenticare,
Un tremore di terra che scuote perfino le viscere del mare.
Attraverso le rotte del mondo io di bellezza ne vedo,
Mentre lascio una firma di fiamma che spettina il cielo,
Fioriranno i ciliegi, sorrideranno al mio passaggio
I viandanti, gli gnomi, le spose candide di maggio
E se qualcuno si è illuso di mischiare bene le carte
Di nascondere la sua vergogna fra i giochi della malasorte
Di regalare al futuro e ai fratelli un mattino normale
Ma non c'è più niente di normale e non c'è futuro che non faccia male.
Chi ha rubato il sonno alle madri e sparso gemme nel vento?
Chi ha sottratto il sorriso ai bambini e di colpo l'ha spento?
Chi ha spezzato i polmoni d'acciaio del colosso volante?
Chi ha giocato da baro sapendo che c'era un perdente?
E ora nella vertigine, mentre sprofondo nel vuoto,
Avverto nei sensi la pace di un luogo remoto,
Le vette inaccessibili e i ghiacci che ho già trasvolato
Dove regna il silenzio, dove l'uomo non è mai stato
E mi sembra di vederle le iene nella stanza dei bottoni
Con uniformi di cartapesta a decidere i cattivi e i buoni
Stravaccati in poltrone di pelle, ché non si rischia niente
Con l'arroganza del potere e l'indifferenza di certa gente
Eppure la storia va avanti non conosce padroni,
Anche a quelli che muovono i fili un giorno tremeranno le mani,
Perché esiste un passaggio comune, un comune destino
Che fa più vita la vita e non fa sconti a nessuno
Torneranno le stagioni di sempre per chi ha vinto e perduto.
Per chi ha avuto una sorte beffarda e anche per chi ha taciuto
E a ciascuno toccherà fare i conti senza un ma senza un se
Alla fine del giorno resteranno gli avanzi di qualche perché. 1
Contributed by Riccardo Venturi - 2012/11/9 - 16:35
NOTA
La "Canzone sesta" era già presente nel sito come canzone autonoma e, fino ad oggi, unica "rappresentante" di Ultimo volo. Lasciamo la pagina come doppione storico.
La "Canzone sesta" era già presente nel sito come canzone autonoma e, fino ad oggi, unica "rappresentante" di Ultimo volo. Lasciamo la pagina come doppione storico.
CCG/AWS Staff - 2012/11/9 - 23:47
Una pesante lacuna viene a colmarsi oggi in questo sito: la mancata presenza di Ultimo volo - Orazione civile per Ustica di Pippo Pollina. A dire il vero, una delle sue sei canzoni era presente; l'unica reperibile in rete. Nessuna traccia delle altre cinque e dei sei monologhi recitati da Manlio Sgalambro; questa pagina colma dunque una lacuna anche nell'intera Rete.
E di lacuna si deve parlare, perché Ultimo volo è qualcosa di più che una semplice serie di canzoni e monologhi teatrali. E qualcosa di diverso anche da un'orazione civile "classica", così come ne conosciamo ad esempio da Marco Paolini. Ultimo volo, composta da Pippo Pollina per il trasferimento del relitto del DC9 Itavia al Museo per la Memoria di Bologna, è qualcosa di assolutamente indefinibile, ed è l'epopea di un'ingiustizia criminale perpetrata da uno stato.
Abbiamo reperito il libretto dell'album in maniera assai fortunosa, dato che il CD è diventato introvabile; abbiamo quindi provveduto a ricopiarlo interamente, corredando la pagina con immagini e video. Particolarmente importante ci sembra quello inserito nell'introduzione, con la riproduzione integrale del film Ustica - Tragedia nei cieli trasmesso da History Channel. La pagina contiene la novità dei video dei singoli brani cantati direttamente inseriti nel corpo del testo (ma ripetuti anche nell'apposito box).
Speriamo con questo di avere contribuito alla diffusione di Ultimo volo, con la coscienza che di anni, adesso, non ne sono passati più ventisette come al momento della composizione e della rappresentazione dell'orazione civile (o comunque la si voglia chiamare). Di anni, adesso, ne sono passati trentadue e mezzo. E il risultato è sempre lo stesso: nulla. Vale a dire il marchio indelebile della strage di stato, dell'intrigo indicibile, del segreto assassino.
E di lacuna si deve parlare, perché Ultimo volo è qualcosa di più che una semplice serie di canzoni e monologhi teatrali. E qualcosa di diverso anche da un'orazione civile "classica", così come ne conosciamo ad esempio da Marco Paolini. Ultimo volo, composta da Pippo Pollina per il trasferimento del relitto del DC9 Itavia al Museo per la Memoria di Bologna, è qualcosa di assolutamente indefinibile, ed è l'epopea di un'ingiustizia criminale perpetrata da uno stato.
Abbiamo reperito il libretto dell'album in maniera assai fortunosa, dato che il CD è diventato introvabile; abbiamo quindi provveduto a ricopiarlo interamente, corredando la pagina con immagini e video. Particolarmente importante ci sembra quello inserito nell'introduzione, con la riproduzione integrale del film Ustica - Tragedia nei cieli trasmesso da History Channel. La pagina contiene la novità dei video dei singoli brani cantati direttamente inseriti nel corpo del testo (ma ripetuti anche nell'apposito box).
Speriamo con questo di avere contribuito alla diffusione di Ultimo volo, con la coscienza che di anni, adesso, non ne sono passati più ventisette come al momento della composizione e della rappresentazione dell'orazione civile (o comunque la si voglia chiamare). Di anni, adesso, ne sono passati trentadue e mezzo. E il risultato è sempre lo stesso: nulla. Vale a dire il marchio indelebile della strage di stato, dell'intrigo indicibile, del segreto assassino.
CCG/AWS Staff - 2012/11/10 - 00:03
Bella paginona, veramente "commilfò". Grazie, Riccardo, per aver riesumato anche questo magnifico album, inspiegabilmente irreperibile e, di conseguenza, un po "dimenticato". Un doverosissimo contributo che in effetti ancora mancava alla collezione.
Complimenti anche per la tua traduzione della "Canzone quarta".
Completato il post di tutti e 14 brani !
Complimenti anche per la tua traduzione della "Canzone quarta".
Completato il post di tutti e 14 brani !
giorgio - 2012/11/11 - 09:47
Grazie, Giorgio. Un tempo una traduzione dal siciliano non l'avrei mai potuta fare, anche se so come "funzia" dalla vecchia grammatica di Giuseppe Pitré (ad esempio, che in siciliano il congiuntivo imperfetto equivale al condizionale, tratto che il siciliano condivide col friulano [!]); però, ora, in rete si trovano persino dizionari interi dal siciliano al tedesco e viceversa. Insomma, la Rete ha tolto parecchie castagne dal fuoco. Mi son parecchio dato da fare per trovare i testi di questo album finché, come sempre, non è intervenuto il caso; sia egli benedetto, perché davvero era un dispiacere non averlo qui dentro nella sua interezza. Saluti cari!
Riccardo Venturi - 2012/11/11 - 13:54
Secondo me, cogliendo il tuo momento, tu tradurresti qualsiasi lingua. Ma siccomu sacciu ca si lagnusu :)… (per gli altri, nel sicil. corr., non più "lagnoso", ma "pigro") questa "fatica" avrei volentieri potuto risparmiartela. Mi conforta comunque che usi quei dizionari che non pesano come i nostri vecchi ancora cartacei.. O fortunata generazione! Mica sventurata come quella nostra che ha dovuto carriàrisi, anche a spasso, certi duri mattoni per poter costruire un ponte ideale verso gli altri popoli e paesi..
Buona giornata!
Buona giornata!
giorgio - 2012/11/12 - 08:42
Non mi parlare di vecchi dizionari, cartacei e di tutte le dimensioni; distribuiti fra casa mia (che è un buco), casa di mia madre e casa di una mia conoscente a Roma che ne ospita gentilmente alcuni, credo di averne (fra dizionari, grammatiche, corsi e libri linguistici di ogni genere) circa un duemilacinquecento che "coprono" circa 600 lingue; anni fa tirai fuori a un tizio che mi chiedeva il più assurdo, un dizionario mongolo-ceco/ceco-mongolo edito dalle Edizioni Pedagogiche di Stato di Praga nel 1985. Fortunata generazione sì, ma vuoi mettere tirare fuori il vecchio caro librone dove ogni pagina ha una storia...ti farei vedere certi dizionari tra quelli che più uso (come quelli di greco moderno ovviamente) in che condizioni sono ridotti, e il problema è che -come tutti coloro che davvero li usano- ho verso di loro il più totale irrispetto (piaccicotti di scotch, annotazioni a penna, "orecchi" e quant'altro...). Ed è quasi niente in confronto a certe biblioteche di amici "glottomani" di cui una volta ho raccontato la storia. Che dici, Giorgio, la metto qua sotto? Ma sì, va. Tanto stamani ci ho poco da fare.
Riccardo Venturi - 2012/11/12 - 09:29
LE TRAIETTORIE DEI GATTI
Così tanto per fare, uno strano raccontino che introduce nel misterioso mondo dei "glottomani". Scritto quando abitavo ancora a Friburgo, in Svizzera.
Ci si trova, a volte, a confrontarsi con i meccanismi dei ricordi. Sono meccanismi bizzarri, sovente impenetrabili; i loro strumenti sono i gatti. Certo, di strumenti ce ne possono essere d’infiniti altri, infiniti quanto lo sono i ricordi; ma, per me, i gatti lo sono stati più d’una volta. Così mi è presa la voglia di raccontare quel che m’è successo due sere fa.
E’ stato, da queste parti, un mese d’agosto climaticamente orrendo. Una specie di brutto novembre in anticipo. Inutile razionalizzare e dirsi che, oltre le Alpi, le perturbazioni atlantiche hanno campo libero e che, di conseguenza, è del tutto normale che un sedici d’agosto piova a scrosci tutto il giorno e ci sia una temperatura massima diurna di undici gradi. Così è. Ma, ogni tanto, c’è stata qualche piccola pausa; una mattinata o un pomeriggio di bel tempo. Due sere fa era una di queste piccole pause, era una serata magnifica e io e la Manuela abbiamo deciso seduta stante di uscire e andare a farci una passeggiata. Bisognava tesaurizzare, insomma.
E ce ne siamo andati subito qua fuori, verso il parco del Guintzet, un posto da dove si gode un panorama mozzafiato sulle non lontane montagne dell’Oberland bernese. Siamo stati un po’ al parco a chiacchierare e a guardare; poi ce ne siamo tornati verso casa. C’è, poco prima di arrivare, una stradina che già nel nome ricorda il miagolio d’un gatto; si chiama Chemin de Meuwly. E sembra che lo sappiano, perché è sempre piena di gatti intenti alle loro occupazioni così bene analizzate, tempo e tempo fa, da Thomas Stearns Eliot. Mesi addietro, sempre durante una passeggiata, io e la Manuela avevamo assistito a una scenetta singolare: dalla finestra di una villetta si era affacciata una signora anziana, e aveva calato un cesto legato a una cordicella. Il cesto era pieno di roba da mangiare; dopo un po’ era arrivato un gatto, col suo fare naturalmente circospetto; aveva annusato un po’, e poi s’era messo a mangiare la roba che stava nel cesto. Finito il suo pasto, la signora, piano piano, aveva ritirato su il cesto, e la finestra s’era richiusa; ed è successo che, ripassandoci davanti, ci siamo ricordati di quell’episodio e ci siamo messi a ridacchiare.
E così m’è venuto di dire alla Manuela: “Ma lo sai che io questa cosa l’ho vista già fare a Firenze, una volta, anche se non c’erano di mezzo i gatti?”; al che, mi sono messo a raccontare. E’ la storia di un mio amico. Si chiamava Pier Francesco Poli. Dico “si chiamava”, perché è morto da qualche anno. Non m’era mai venuto a mente di parlarne; ma una sera arrivano un gatto e un cesto, e te lo fanno ricordare.
Pier Francesco Poli abitava in una vecchissima casa in via dei Cerchi, a cinquanta metri da piazza della Signoria. A un quarto piano terrificante. Ogni volta che andavo a trovarlo, sempre la sera dopo cena, prima di salire quelle rampe di scalini dovevo prendere fiato come Jacques Mayol prima di un’immersione; e quando arrivavo in cima ero sfinito. Entravo, e c’erano il mio amico e sua moglie, un donnone gioviale; era slovacca, la signora, di Bratislava; si chiamava Eva. Ora dovete sapere che, per non essere costretta proprio a farsi quella massacrante scalinata, la signora si serviva, per la spesa, dell’antico sistema del cesto calato dalla finestra; una sera di giugno che m’avevano invitato a cena, mentre arrivavo vidi la signora Eva affacciarsi alla finestra, calare giù il cesto legato a una cordicella, e il garzone di un negozio infilarci dentro la roba acquistata. Piano piano il cesto fu ritirato su, per poi ridiscendere con dentro i soldi del conto. Mi ricordo di essermi fermato lì a gustarmi tutta la scenetta, pensando che prima era una cosa molto comune, ma che ora non la si vedeva quasi più. Mi piace sempre poter assistere a cose pressoché scomparse, credo d’avere una parte non indifferente di me rivolta al passato, vissuto o meno che sia. Poi, una volta che il garzone ebbe preso i soldi e il portone fu aperto, mi preparai alla scalata.
Ora, però, devo dire chi fosse Pier Francesco Poli, come lo avessi conosciuto e perché andassi spesso a trovarlo. Devo avvertire chi mi legga, che sta per entrare in una specie di mondo sconosciuto ai più, fatto di poche persone strampalate. L’universo dei glottòmani.
Pier Francesco Poli faceva, quando studiavo all’università, il lettore di ceco e slovacco alla facoltà di lettere. Non ho mai studiato, se non un po’ da solo, le lingue slave; quindi, normalmente, non ci avrei dovuto avere a che fare. Ma le aule, in via degli Alfani, erano scarse, e i lettorati di quelle cosiddette “minori” erano poche, e piccolissime. Io studiavo lo svedese e il danese; senonché, l’auletta dove si tenevano i miei lettorati, quattro volte la settimana a ore impossibili (tipo le una e venti del pomeriggio, o le sette la sera) era esattamente la stessa di quelli di ceco e slovacco. Un giorno, credo fosse verso il 1984 o giù di lì, con la mia usuale testa fra le nuvole, aggravata in quegli anni da un certo “tappo”, mi capitò di sbagliare ora. Il lettorato di svedese era alle sette, e chissà perché mi presentai alle cinque. Senza bussare piombai dentro l’auletta, a testa bassa, bofonchiando un “bonasera” in svedese (“god afton”) e andandomi a sedere al mio solito banco. Solo allora mi accorsi che i presenti non erano i miei soliti compagni di corso, e che al posto della dottoressa Berit Andersson, con la sua pelliccia sintetica leopardata (detta “pelliccia di spelacchiopardo”) e l’eterna Merit in bocca (da qui gli appellativi di “Merit Andersson” o “Berit Merit” –allora si fumava tutti come ciminiere anche nelle aule universitarie, e guai a chi rompeva i coglioni), c’era un tizio, brutto come la fame, tarchiato e con un paio di occhialoni stile anni ’60, di quelli con la montatura spessa e le lenti che sembravano culi di bottiglia. Tutti mi stavano guardando allibito, anche perché m’ero già accesa la sigaretta (allora fumavo ancora le Chesterfield). Il tizio alla cattedra mi disse un semplice “Scusi, ma lei…?”; credo d’avergli risposto che avevo sbagliato aula, facendo qualche gesto con la mano. Sulla lavagna c’erano parole ignote, senza manco una vocale, “strč prst skrz krk” o roba del genere (non ci credete? In ceco significa “spingi il dito attraverso la gola”, controllate pure).
Mi alzai, richiesi scusa, spensi la sigaretta sul muro e uscii fuori. Come fu, come non fu, da quel giorno io e il tizio brutto con gli occhiali cominciammo a salutarci; e poi a scambiare qualche parola; e poi a raccontarci delle cose che avevano a che fare con le lingue. Era Pier Francesco Poli. Io avevo ventidue o ventitré anni, e lui una quarantacinquina e passa. Io ero uno studente, lui un insegnante. Ma piano piano scoccò una scintilla che non ho la pretesa di far capire: la scintilla della glottomania. E la glottomania non conosce barriere di età, di posizione, di niente. Scoprimmo reciprocamente che eravamo due glottòmani, e fu l’inizio di un’amicizia.
Dapprima consumata in baretti attorno alla facoltà, mezz’ore, sigarette e caffé a parlare della struttura dell’islandese antico comparata con quella, più sintetica, delle lingue scandinave moderne; oppure di certi particolari fenomeni fonetici dell’antico slavo ecclesiastico, e dei loro esiti in russo, in ceco o in serbocroato. E s’andava avanti, sempre avanti. Le mezz’ore diventarono ore; alla fine, Pier Francesco Poli m’invitò a andare a casa sua, in via dei Cerchi, perché aveva saputo che anch’io avevo una baraccata di grammatiche, di dizionari e d’altra roba, e voleva farmi vedere i suoi. E raccontarmi le sue storie, che erano tante, ma tante. Perché noi glottòmani, ve lo garantisco, se n’ha di storie da raccontare, per giove se ce ne abbiamo.
Ci andai, facendo la conoscenza della sua strabordante consorte slovacca, la signora Eva appunto, e dell’unica figlia, che a far contraltare ai genitori era biondina, magrissima, eterea. E molto bella. Aveva qualche anno più di me, parlava solo quattro lingue alla perfezione (la madre ne parlava sette e il padre dieci, sempre alla perfezione), e sembrava essere sempre di passaggio. La casa era arredata come m’immaginavo esattamente fosse un’abitazione nei paesi del realismo socialista negli anni ’50; mobili raffazzonati, nessuna televisione, solo una vecchia radio e suppellettili, diciamo, fantasiose. Alle pareti, diplomi, articoli di giornale scritti in slovacco o in bulgaro, un ritratto di Lenin col berretto, e libri. Scaffali interi di libri. Centinaia di libri. Migliaia di libri, di dizionari, di grammatiche, di opere teoriche, di fotocopie. Ero a casa mia. E in quella casa c’era calore, c’era un calore vero. Ci stavo benissimo con quella gente. Qualche volta ci andavo a mangiare, ma il più delle volte ci andavo dopo cena. Ci stavo fino a mezzanotte passata, a volte; ci si metteva nel salottino, col vino o con la vodka, e giù quintali di sigarette, di strutture morfosintattiche dell’ungherese (lingua che la signora Eva conosceva perfettamente, assieme al materno slovacco, al tedesco letterario e al dialetto viennese), di antichi documenti anglosassoni, del fatto che il bulgaro sia l’unica lingua slava che ha perso le declinazioni. Questi sono gli argomenti dei glottòmani. Che ci volete fare.
Ma con il passar del tempo, dietro alle lingue trasparì la vita, e le sue storie. Pier Francesco Poli ci era nato, in quella casa; da piccolo, mi raccontava, aveva visto la battaglia per la liberazione di Firenze, aveva visto due tedeschi ammazzare a sangue freddo un passante in bicicletta. Si passò a raccontarci di come si sbarcava il lunario. Questa è la realtà. Sbarcare il lunario. Mi disse quanto gli dava al mese la facoltà di lettere per fare il lettore di ceco e slovacco a cinque studenti: quattrocentocinquantamila lire. Doveva arrangiarsi a fare traduzioni, e anche la guida turistica quando capitava. La moglie faceva lo stesso, e la figlia studiava ancora. Io, a quel tempo, pure sbarcavo il lunario (cosa che ho continuato imperterrito a fare, con alterne fortune); addirittura, per un modestissimo compenso, scrivevo una rubrica di curiosità linguistiche per la “Nuova Enigmistica Tascabile”, intitolata “Viaggio nelle lingue del mondo, a cura di Kareka” (qualcuno mi chiamava “Kareka”, dal nome di un famoso giocatore di calcio brasiliano, perché spesso e volentieri “attaccavo” le parole che cominciavano con la “c” dura, e per dire “cavallo” mi capitava di dire “ca-ca-ca-ca-ca-vallo”; è un difetto che poi mi è fortunatamente scomparso). Risate, sigarette e giù bicchierini corretti con considerazioni approfondite sull’estinzione, nel XVI secolo, del polabo (o polabico), antica lingua slava parlata sulle rive dell’Elba (il fiume, non l’isola; “polabo” deriva da “Po Labe”, “sull’Elba”) oramai talmente corrotta dal tedesco che in uno dei suoi rari documenti scritti prima della sua scomparsa, il passivo si forma con il verbo “wardôt”, chiaramente il tedesco “werden” slavizzato alla bell’e meglio.
Mi raccontò, Pier Francesco Poli, che sempre per sbarcare il lunario aveva dato lezioni private di turco senza conoscere il turco. Su non so quale giornale aveva letto un annuncio di un tizio che, per motivi di lavoro, cercava qualcuno che gli insegnasse il turco. Non ci pensò due volte e rispose. Si comprò una grammatica turca e un dizionario. Due giorni prima della lezione privata, si studiava un capitolo della grammatica a fondo e imparava le parole; poi ripeteva tutto a pappagallo all’ “allievo”, inventandosi la pronuncia a partire dalle note presenti sulla grammatica. Alla fine del corso di lezioni si beccò pure un compenso extra del cliente soddisfattissimo, e si ritrovò anche ad aver più o meno imparato il turco. Verso i primi anni ’60, da studente universitario, aveva deciso di darsi alle lingue slave, russo, polacco e ceco. Per imparare una lingua bene, da che mondo è mondo, bisogna andare nel paese dove la si parla, e starci anche un bel po’. Aveva chiesto il passaporto e i visti per andare in Russia e negli altri paesi socialisti, facilitato senz’altro dall’essere, anche di famiglia, un perfetto comunista ortodosso, fedele alla linea, iscritto al PCI, entusiasta dei “festival della gioventù” di Berlino Est o di Sofia, delle “Spartachiadi”, dello stadio ginnico Strahov di Praga (il più grande stadio del mondo: conteneva 250.000 spettatori. Ora sembra sia in rovina). Quando la moglie andava in cucina mi confessava sottovoce di aver trombato come un ossesso ai “festival della gioventù”; cacciava fuori degli album enormi pieni di vecchie foto e di ritagli di giornale, c’erano delle ragazze da mozzare il fiato, e c’era pure lui da giovane. Incredibilmente era un bel ragazzo. Mi chiesi più volte che cosa gli dovesse essere successo per esser diventato com’era, e mi veniva a mente il vecchio racconto del professor Rosario La Ciura, l’uomo che aveva conosciuto la Sirena parlando greco antico, da giovane bellissimo; e che era, in vecchiaia, diventato una specie di mostro. E’ un racconto di Tomasi di Lampedusa. Si chiama “Ligea”.
Mi raccontava di quando tornava dai suoi viaggi all’Est, sempre carico di libri acquistati per mezzo soldo bucato. Alla frontiera italiana lo fermavano sempre, sul treno. Prima di tutto veniva dai paesi dove c’era il barbaro comunismo, e quindi era una potenziale spia russa. Lo interrogavano a fondo per delle ore: come mai era andato da quelle parti, che cosa facesse, che cosa fossero quei libri, ogni cosa. La polizia lo teneva d’occhio. Era una persona, senza nessuna piaggeria o esagerazione, di un’intelligenza, di una cultura e di un’umanità straordinarie. Parlava un fiorentino d’altri tempi passando poi, con la massima indifferenza, a parlare slovacco con la moglie (in casa si parlavano solo in slovacco, anche se la signora sapeva anche lei parlare in fiorentino). La signora Eva, quella del cesto calato dalla finestra. Da Bratislava passata a Vienna, da piccolissima, con la famiglia. L’Anschluss del 1938 (aveva qualche anno in più del marito). Le fughe, i nascondigli, il governo fascista di monsignor Tiso (il prelato cattolico nazista che tenne il governo fantoccio della Slovacchia invasa, poi fucilato nel 1947 e adesso in corso di “riabilitazione” da parte della chiesa, assieme ad altri luridi personaggi come i cardinali Mindszenty o Stepinac). La Vienna disperata del dopoguerra, dove era andata a scuola imparando il dialetto Viennese. Poi il ritorno nella Cecoslovacchia prima della “Primavera”. Era stato durante un “festival della gioventù” a Praga che aveva conosciuto suo marito.
E passarono gli anni. Due o tre sere al mese andavo dal mio amico e ci mettevamo lì in quella saletta dove dopo un po’ c’era un’aria da fare a fette col coltello. Dopo un po’ cominciò a regalarmi dei libri, o a prestarmeli perché li fotocopiassi. Tra noi glottòmani l’oggetto libro non conta niente; conta quello che c’è dentro. Per questo abbiamo regolarmente quintali di fotocopie, rilegate o meno. Non importa averci quell’introvabile grammatica storica del ceco antico del Gebauer (“Historičké mluvnice staročeského jazyka”, Praga, 1925), importa averci le sue parole. Ci scambiavamo libri ogni volta, e lo stesso accadeva col terzo glottòmane fiorentino, che poi era di Bari vecchia, un altro singolare personaggio a nome di Alfonso Màrgani, del quale forse avrò a parlare un’altra volta. Di Pier Francesco Poli ho due sole foto in cui siamo assieme; una è del giorno del mio matrimonio, al quale lo invitai (un matrimonio che è stato decisamente disgraziato, ma quella fu una giornata molto bella), e l’altra siamo insieme in via dei Cerchi. Chissà come, una sera avevo portato la macchina fotografica, la mia decrepita Asahi Pentax che ancora funziona. Ce l’eravamo fatta fare da un passante. Dovreste vedere che coppiettina che s’era. Lui in maniche di camicia, con gli occhialoni e due libri in mano (eravamo usciti, indovinate un po’, a fare delle fotocopie), io spettinato, barbaccia lunga, jeans sdruciti. Ma non importano le foto, non importano le immagini. Pier Francesco Poli, per me, è in tutti quei libri che mi ha regalato o che ho fotocopiato. E nelle firme che aveva messo al momento del loro acquisto, e dietro ognuna di quelle firme, come in ogni libro, ci deve essere una storia. “Praga, 21 ottobre 1965”. Come sarà stata Praga, il 21 ottobre 1965? “Berlino Est, 14 marzo 1967”. “Budapest, 8 luglio 1958”. Budapest, 1958. Due anni dopo il 1956.
Il 16 novembre 1997 è morto mio padre. Allora stavo, con la mia ex moglie, a Livorno. Penso che quel giorno, e per un bel po’, non sia morto soltanto mio padre; ma mi fermo qui. Queste sono cose soltanto mie. Smisi di voler vedere la gente. E’ stato in quel periodo che mi sono “buttato” su Internet. Smisi di telefonare anche a Pier Francesco Poli; l’ultima volta devo averlo visto nel settembre del ’97, ma le nostre visite si erano già da tempo fatte un po’ più rade. Nel maggio del ’98, un pomeriggio, mi prese la voglia di risentirlo, e volevo anche scusarmi per non essermi fatto più vivo. Sapeva che mio padre era morto, e da amico doveva avere immaginato quel che mi passava per la testa. Mi rispose la figlia.
Le chiesi allegro di passarmi il padre. Ci fu un attimo di silenzio, seguito da un “Ma come…non lo sai?” No, non lo sapevo. Non lo sapevo che, sbarcando il lunario, e approfittando delle ondate di primi turisti degli ex paesi socialisti, s’era rimesso a fare la guida per le comitive di polacchi, di cechi e di slovacchi in visita turistica a Firenze. La mattina del 4 marzo 1998 era andato davanti alla Biblioteca Nazionale, in piazza dei Cavalleggeri, per ricevere un pullman di turisti cechi. Si erano presentati e poi, in attesa che l’autista parcheggiasse l’automezzo sul lungarno della Zecca Vecchia, era andato a un bar in corso dei Tintori a prendere un caffé. Non lo bevve mai. Crollò in terra davanti al bancone, fulminato da un infarto. Mi misi a piangere al telefono, con la figlia. Mi stava dicendo che la madre aveva preferito tornare a Bratislava, e che lei ora viveva da sola nella casa di via dei Cerchi. Mi disse anche che ci saremmo magari rivisti. Ma non lo abbiamo fatto.
Ecco, insomma, quel che mi sono ricordato due sere fa per tramite di un gatto e del suo cesto di roba da mangiare calatogli da una vecchietta di Friburgo, in Svizzera. I gatti sono bestie che ci hanno dentro quella cosa che io chiamo antimateria. Si muovono e vedi la perfezione dell’armonia. Saltano e non esiste più la legge di gravità. Sembrano guardarti, e invece fissano un punto imprecisato. Lo fissano, e se ne vanno per la loro traiettoria che a noialtri umani non sarà mai dato di conoscere. In questa loro traiettoria, a volte, portano voci dal passato, e volti, e parole, e infinitezze.
Così tanto per fare, uno strano raccontino che introduce nel misterioso mondo dei "glottomani". Scritto quando abitavo ancora a Friburgo, in Svizzera.
Ci si trova, a volte, a confrontarsi con i meccanismi dei ricordi. Sono meccanismi bizzarri, sovente impenetrabili; i loro strumenti sono i gatti. Certo, di strumenti ce ne possono essere d’infiniti altri, infiniti quanto lo sono i ricordi; ma, per me, i gatti lo sono stati più d’una volta. Così mi è presa la voglia di raccontare quel che m’è successo due sere fa.
E’ stato, da queste parti, un mese d’agosto climaticamente orrendo. Una specie di brutto novembre in anticipo. Inutile razionalizzare e dirsi che, oltre le Alpi, le perturbazioni atlantiche hanno campo libero e che, di conseguenza, è del tutto normale che un sedici d’agosto piova a scrosci tutto il giorno e ci sia una temperatura massima diurna di undici gradi. Così è. Ma, ogni tanto, c’è stata qualche piccola pausa; una mattinata o un pomeriggio di bel tempo. Due sere fa era una di queste piccole pause, era una serata magnifica e io e la Manuela abbiamo deciso seduta stante di uscire e andare a farci una passeggiata. Bisognava tesaurizzare, insomma.
E ce ne siamo andati subito qua fuori, verso il parco del Guintzet, un posto da dove si gode un panorama mozzafiato sulle non lontane montagne dell’Oberland bernese. Siamo stati un po’ al parco a chiacchierare e a guardare; poi ce ne siamo tornati verso casa. C’è, poco prima di arrivare, una stradina che già nel nome ricorda il miagolio d’un gatto; si chiama Chemin de Meuwly. E sembra che lo sappiano, perché è sempre piena di gatti intenti alle loro occupazioni così bene analizzate, tempo e tempo fa, da Thomas Stearns Eliot. Mesi addietro, sempre durante una passeggiata, io e la Manuela avevamo assistito a una scenetta singolare: dalla finestra di una villetta si era affacciata una signora anziana, e aveva calato un cesto legato a una cordicella. Il cesto era pieno di roba da mangiare; dopo un po’ era arrivato un gatto, col suo fare naturalmente circospetto; aveva annusato un po’, e poi s’era messo a mangiare la roba che stava nel cesto. Finito il suo pasto, la signora, piano piano, aveva ritirato su il cesto, e la finestra s’era richiusa; ed è successo che, ripassandoci davanti, ci siamo ricordati di quell’episodio e ci siamo messi a ridacchiare.
E così m’è venuto di dire alla Manuela: “Ma lo sai che io questa cosa l’ho vista già fare a Firenze, una volta, anche se non c’erano di mezzo i gatti?”; al che, mi sono messo a raccontare. E’ la storia di un mio amico. Si chiamava Pier Francesco Poli. Dico “si chiamava”, perché è morto da qualche anno. Non m’era mai venuto a mente di parlarne; ma una sera arrivano un gatto e un cesto, e te lo fanno ricordare.
Pier Francesco Poli abitava in una vecchissima casa in via dei Cerchi, a cinquanta metri da piazza della Signoria. A un quarto piano terrificante. Ogni volta che andavo a trovarlo, sempre la sera dopo cena, prima di salire quelle rampe di scalini dovevo prendere fiato come Jacques Mayol prima di un’immersione; e quando arrivavo in cima ero sfinito. Entravo, e c’erano il mio amico e sua moglie, un donnone gioviale; era slovacca, la signora, di Bratislava; si chiamava Eva. Ora dovete sapere che, per non essere costretta proprio a farsi quella massacrante scalinata, la signora si serviva, per la spesa, dell’antico sistema del cesto calato dalla finestra; una sera di giugno che m’avevano invitato a cena, mentre arrivavo vidi la signora Eva affacciarsi alla finestra, calare giù il cesto legato a una cordicella, e il garzone di un negozio infilarci dentro la roba acquistata. Piano piano il cesto fu ritirato su, per poi ridiscendere con dentro i soldi del conto. Mi ricordo di essermi fermato lì a gustarmi tutta la scenetta, pensando che prima era una cosa molto comune, ma che ora non la si vedeva quasi più. Mi piace sempre poter assistere a cose pressoché scomparse, credo d’avere una parte non indifferente di me rivolta al passato, vissuto o meno che sia. Poi, una volta che il garzone ebbe preso i soldi e il portone fu aperto, mi preparai alla scalata.
Ora, però, devo dire chi fosse Pier Francesco Poli, come lo avessi conosciuto e perché andassi spesso a trovarlo. Devo avvertire chi mi legga, che sta per entrare in una specie di mondo sconosciuto ai più, fatto di poche persone strampalate. L’universo dei glottòmani.
Pier Francesco Poli faceva, quando studiavo all’università, il lettore di ceco e slovacco alla facoltà di lettere. Non ho mai studiato, se non un po’ da solo, le lingue slave; quindi, normalmente, non ci avrei dovuto avere a che fare. Ma le aule, in via degli Alfani, erano scarse, e i lettorati di quelle cosiddette “minori” erano poche, e piccolissime. Io studiavo lo svedese e il danese; senonché, l’auletta dove si tenevano i miei lettorati, quattro volte la settimana a ore impossibili (tipo le una e venti del pomeriggio, o le sette la sera) era esattamente la stessa di quelli di ceco e slovacco. Un giorno, credo fosse verso il 1984 o giù di lì, con la mia usuale testa fra le nuvole, aggravata in quegli anni da un certo “tappo”, mi capitò di sbagliare ora. Il lettorato di svedese era alle sette, e chissà perché mi presentai alle cinque. Senza bussare piombai dentro l’auletta, a testa bassa, bofonchiando un “bonasera” in svedese (“god afton”) e andandomi a sedere al mio solito banco. Solo allora mi accorsi che i presenti non erano i miei soliti compagni di corso, e che al posto della dottoressa Berit Andersson, con la sua pelliccia sintetica leopardata (detta “pelliccia di spelacchiopardo”) e l’eterna Merit in bocca (da qui gli appellativi di “Merit Andersson” o “Berit Merit” –allora si fumava tutti come ciminiere anche nelle aule universitarie, e guai a chi rompeva i coglioni), c’era un tizio, brutto come la fame, tarchiato e con un paio di occhialoni stile anni ’60, di quelli con la montatura spessa e le lenti che sembravano culi di bottiglia. Tutti mi stavano guardando allibito, anche perché m’ero già accesa la sigaretta (allora fumavo ancora le Chesterfield). Il tizio alla cattedra mi disse un semplice “Scusi, ma lei…?”; credo d’avergli risposto che avevo sbagliato aula, facendo qualche gesto con la mano. Sulla lavagna c’erano parole ignote, senza manco una vocale, “strč prst skrz krk” o roba del genere (non ci credete? In ceco significa “spingi il dito attraverso la gola”, controllate pure).
Mi alzai, richiesi scusa, spensi la sigaretta sul muro e uscii fuori. Come fu, come non fu, da quel giorno io e il tizio brutto con gli occhiali cominciammo a salutarci; e poi a scambiare qualche parola; e poi a raccontarci delle cose che avevano a che fare con le lingue. Era Pier Francesco Poli. Io avevo ventidue o ventitré anni, e lui una quarantacinquina e passa. Io ero uno studente, lui un insegnante. Ma piano piano scoccò una scintilla che non ho la pretesa di far capire: la scintilla della glottomania. E la glottomania non conosce barriere di età, di posizione, di niente. Scoprimmo reciprocamente che eravamo due glottòmani, e fu l’inizio di un’amicizia.
Dapprima consumata in baretti attorno alla facoltà, mezz’ore, sigarette e caffé a parlare della struttura dell’islandese antico comparata con quella, più sintetica, delle lingue scandinave moderne; oppure di certi particolari fenomeni fonetici dell’antico slavo ecclesiastico, e dei loro esiti in russo, in ceco o in serbocroato. E s’andava avanti, sempre avanti. Le mezz’ore diventarono ore; alla fine, Pier Francesco Poli m’invitò a andare a casa sua, in via dei Cerchi, perché aveva saputo che anch’io avevo una baraccata di grammatiche, di dizionari e d’altra roba, e voleva farmi vedere i suoi. E raccontarmi le sue storie, che erano tante, ma tante. Perché noi glottòmani, ve lo garantisco, se n’ha di storie da raccontare, per giove se ce ne abbiamo.
Ci andai, facendo la conoscenza della sua strabordante consorte slovacca, la signora Eva appunto, e dell’unica figlia, che a far contraltare ai genitori era biondina, magrissima, eterea. E molto bella. Aveva qualche anno più di me, parlava solo quattro lingue alla perfezione (la madre ne parlava sette e il padre dieci, sempre alla perfezione), e sembrava essere sempre di passaggio. La casa era arredata come m’immaginavo esattamente fosse un’abitazione nei paesi del realismo socialista negli anni ’50; mobili raffazzonati, nessuna televisione, solo una vecchia radio e suppellettili, diciamo, fantasiose. Alle pareti, diplomi, articoli di giornale scritti in slovacco o in bulgaro, un ritratto di Lenin col berretto, e libri. Scaffali interi di libri. Centinaia di libri. Migliaia di libri, di dizionari, di grammatiche, di opere teoriche, di fotocopie. Ero a casa mia. E in quella casa c’era calore, c’era un calore vero. Ci stavo benissimo con quella gente. Qualche volta ci andavo a mangiare, ma il più delle volte ci andavo dopo cena. Ci stavo fino a mezzanotte passata, a volte; ci si metteva nel salottino, col vino o con la vodka, e giù quintali di sigarette, di strutture morfosintattiche dell’ungherese (lingua che la signora Eva conosceva perfettamente, assieme al materno slovacco, al tedesco letterario e al dialetto viennese), di antichi documenti anglosassoni, del fatto che il bulgaro sia l’unica lingua slava che ha perso le declinazioni. Questi sono gli argomenti dei glottòmani. Che ci volete fare.
Ma con il passar del tempo, dietro alle lingue trasparì la vita, e le sue storie. Pier Francesco Poli ci era nato, in quella casa; da piccolo, mi raccontava, aveva visto la battaglia per la liberazione di Firenze, aveva visto due tedeschi ammazzare a sangue freddo un passante in bicicletta. Si passò a raccontarci di come si sbarcava il lunario. Questa è la realtà. Sbarcare il lunario. Mi disse quanto gli dava al mese la facoltà di lettere per fare il lettore di ceco e slovacco a cinque studenti: quattrocentocinquantamila lire. Doveva arrangiarsi a fare traduzioni, e anche la guida turistica quando capitava. La moglie faceva lo stesso, e la figlia studiava ancora. Io, a quel tempo, pure sbarcavo il lunario (cosa che ho continuato imperterrito a fare, con alterne fortune); addirittura, per un modestissimo compenso, scrivevo una rubrica di curiosità linguistiche per la “Nuova Enigmistica Tascabile”, intitolata “Viaggio nelle lingue del mondo, a cura di Kareka” (qualcuno mi chiamava “Kareka”, dal nome di un famoso giocatore di calcio brasiliano, perché spesso e volentieri “attaccavo” le parole che cominciavano con la “c” dura, e per dire “cavallo” mi capitava di dire “ca-ca-ca-ca-ca-vallo”; è un difetto che poi mi è fortunatamente scomparso). Risate, sigarette e giù bicchierini corretti con considerazioni approfondite sull’estinzione, nel XVI secolo, del polabo (o polabico), antica lingua slava parlata sulle rive dell’Elba (il fiume, non l’isola; “polabo” deriva da “Po Labe”, “sull’Elba”) oramai talmente corrotta dal tedesco che in uno dei suoi rari documenti scritti prima della sua scomparsa, il passivo si forma con il verbo “wardôt”, chiaramente il tedesco “werden” slavizzato alla bell’e meglio.
Mi raccontò, Pier Francesco Poli, che sempre per sbarcare il lunario aveva dato lezioni private di turco senza conoscere il turco. Su non so quale giornale aveva letto un annuncio di un tizio che, per motivi di lavoro, cercava qualcuno che gli insegnasse il turco. Non ci pensò due volte e rispose. Si comprò una grammatica turca e un dizionario. Due giorni prima della lezione privata, si studiava un capitolo della grammatica a fondo e imparava le parole; poi ripeteva tutto a pappagallo all’ “allievo”, inventandosi la pronuncia a partire dalle note presenti sulla grammatica. Alla fine del corso di lezioni si beccò pure un compenso extra del cliente soddisfattissimo, e si ritrovò anche ad aver più o meno imparato il turco. Verso i primi anni ’60, da studente universitario, aveva deciso di darsi alle lingue slave, russo, polacco e ceco. Per imparare una lingua bene, da che mondo è mondo, bisogna andare nel paese dove la si parla, e starci anche un bel po’. Aveva chiesto il passaporto e i visti per andare in Russia e negli altri paesi socialisti, facilitato senz’altro dall’essere, anche di famiglia, un perfetto comunista ortodosso, fedele alla linea, iscritto al PCI, entusiasta dei “festival della gioventù” di Berlino Est o di Sofia, delle “Spartachiadi”, dello stadio ginnico Strahov di Praga (il più grande stadio del mondo: conteneva 250.000 spettatori. Ora sembra sia in rovina). Quando la moglie andava in cucina mi confessava sottovoce di aver trombato come un ossesso ai “festival della gioventù”; cacciava fuori degli album enormi pieni di vecchie foto e di ritagli di giornale, c’erano delle ragazze da mozzare il fiato, e c’era pure lui da giovane. Incredibilmente era un bel ragazzo. Mi chiesi più volte che cosa gli dovesse essere successo per esser diventato com’era, e mi veniva a mente il vecchio racconto del professor Rosario La Ciura, l’uomo che aveva conosciuto la Sirena parlando greco antico, da giovane bellissimo; e che era, in vecchiaia, diventato una specie di mostro. E’ un racconto di Tomasi di Lampedusa. Si chiama “Ligea”.
Mi raccontava di quando tornava dai suoi viaggi all’Est, sempre carico di libri acquistati per mezzo soldo bucato. Alla frontiera italiana lo fermavano sempre, sul treno. Prima di tutto veniva dai paesi dove c’era il barbaro comunismo, e quindi era una potenziale spia russa. Lo interrogavano a fondo per delle ore: come mai era andato da quelle parti, che cosa facesse, che cosa fossero quei libri, ogni cosa. La polizia lo teneva d’occhio. Era una persona, senza nessuna piaggeria o esagerazione, di un’intelligenza, di una cultura e di un’umanità straordinarie. Parlava un fiorentino d’altri tempi passando poi, con la massima indifferenza, a parlare slovacco con la moglie (in casa si parlavano solo in slovacco, anche se la signora sapeva anche lei parlare in fiorentino). La signora Eva, quella del cesto calato dalla finestra. Da Bratislava passata a Vienna, da piccolissima, con la famiglia. L’Anschluss del 1938 (aveva qualche anno in più del marito). Le fughe, i nascondigli, il governo fascista di monsignor Tiso (il prelato cattolico nazista che tenne il governo fantoccio della Slovacchia invasa, poi fucilato nel 1947 e adesso in corso di “riabilitazione” da parte della chiesa, assieme ad altri luridi personaggi come i cardinali Mindszenty o Stepinac). La Vienna disperata del dopoguerra, dove era andata a scuola imparando il dialetto Viennese. Poi il ritorno nella Cecoslovacchia prima della “Primavera”. Era stato durante un “festival della gioventù” a Praga che aveva conosciuto suo marito.
E passarono gli anni. Due o tre sere al mese andavo dal mio amico e ci mettevamo lì in quella saletta dove dopo un po’ c’era un’aria da fare a fette col coltello. Dopo un po’ cominciò a regalarmi dei libri, o a prestarmeli perché li fotocopiassi. Tra noi glottòmani l’oggetto libro non conta niente; conta quello che c’è dentro. Per questo abbiamo regolarmente quintali di fotocopie, rilegate o meno. Non importa averci quell’introvabile grammatica storica del ceco antico del Gebauer (“Historičké mluvnice staročeského jazyka”, Praga, 1925), importa averci le sue parole. Ci scambiavamo libri ogni volta, e lo stesso accadeva col terzo glottòmane fiorentino, che poi era di Bari vecchia, un altro singolare personaggio a nome di Alfonso Màrgani, del quale forse avrò a parlare un’altra volta. Di Pier Francesco Poli ho due sole foto in cui siamo assieme; una è del giorno del mio matrimonio, al quale lo invitai (un matrimonio che è stato decisamente disgraziato, ma quella fu una giornata molto bella), e l’altra siamo insieme in via dei Cerchi. Chissà come, una sera avevo portato la macchina fotografica, la mia decrepita Asahi Pentax che ancora funziona. Ce l’eravamo fatta fare da un passante. Dovreste vedere che coppiettina che s’era. Lui in maniche di camicia, con gli occhialoni e due libri in mano (eravamo usciti, indovinate un po’, a fare delle fotocopie), io spettinato, barbaccia lunga, jeans sdruciti. Ma non importano le foto, non importano le immagini. Pier Francesco Poli, per me, è in tutti quei libri che mi ha regalato o che ho fotocopiato. E nelle firme che aveva messo al momento del loro acquisto, e dietro ognuna di quelle firme, come in ogni libro, ci deve essere una storia. “Praga, 21 ottobre 1965”. Come sarà stata Praga, il 21 ottobre 1965? “Berlino Est, 14 marzo 1967”. “Budapest, 8 luglio 1958”. Budapest, 1958. Due anni dopo il 1956.
Il 16 novembre 1997 è morto mio padre. Allora stavo, con la mia ex moglie, a Livorno. Penso che quel giorno, e per un bel po’, non sia morto soltanto mio padre; ma mi fermo qui. Queste sono cose soltanto mie. Smisi di voler vedere la gente. E’ stato in quel periodo che mi sono “buttato” su Internet. Smisi di telefonare anche a Pier Francesco Poli; l’ultima volta devo averlo visto nel settembre del ’97, ma le nostre visite si erano già da tempo fatte un po’ più rade. Nel maggio del ’98, un pomeriggio, mi prese la voglia di risentirlo, e volevo anche scusarmi per non essermi fatto più vivo. Sapeva che mio padre era morto, e da amico doveva avere immaginato quel che mi passava per la testa. Mi rispose la figlia.
Le chiesi allegro di passarmi il padre. Ci fu un attimo di silenzio, seguito da un “Ma come…non lo sai?” No, non lo sapevo. Non lo sapevo che, sbarcando il lunario, e approfittando delle ondate di primi turisti degli ex paesi socialisti, s’era rimesso a fare la guida per le comitive di polacchi, di cechi e di slovacchi in visita turistica a Firenze. La mattina del 4 marzo 1998 era andato davanti alla Biblioteca Nazionale, in piazza dei Cavalleggeri, per ricevere un pullman di turisti cechi. Si erano presentati e poi, in attesa che l’autista parcheggiasse l’automezzo sul lungarno della Zecca Vecchia, era andato a un bar in corso dei Tintori a prendere un caffé. Non lo bevve mai. Crollò in terra davanti al bancone, fulminato da un infarto. Mi misi a piangere al telefono, con la figlia. Mi stava dicendo che la madre aveva preferito tornare a Bratislava, e che lei ora viveva da sola nella casa di via dei Cerchi. Mi disse anche che ci saremmo magari rivisti. Ma non lo abbiamo fatto.
Ecco, insomma, quel che mi sono ricordato due sere fa per tramite di un gatto e del suo cesto di roba da mangiare calatogli da una vecchietta di Friburgo, in Svizzera. I gatti sono bestie che ci hanno dentro quella cosa che io chiamo antimateria. Si muovono e vedi la perfezione dell’armonia. Saltano e non esiste più la legge di gravità. Sembrano guardarti, e invece fissano un punto imprecisato. Lo fissano, e se ne vanno per la loro traiettoria che a noialtri umani non sarà mai dato di conoscere. In questa loro traiettoria, a volte, portano voci dal passato, e volti, e parole, e infinitezze.
Riccardo Venturi - 2012/11/12 - 09:36
Raccontino senz'altro molto interessante. Che sia un tantino autobiografico? :)
[Ma non spiegare a me cosa sono i gatti: ne ho qui fuori una comunità (io vivo in campagna) e provvedo al loro mantenimento (vitto, alloggio, cure, visite veterinarie, etc.). Spiegami semmai in che senso conterrebbero addirittura "l'antimateria", vediamo se ho capito giusto..]
PS: Quando ti deciderai a pubblicare le tue opere, Riccardo? Intendo, non qui, sulle CCG, ma farle stampare sul caro vecchio supporto cartaceo..
A proposito, a che punto sta la tua "Grammatica descrittiva del bretone moderno" ?
Ci hai più lavorato?
[Ma non spiegare a me cosa sono i gatti: ne ho qui fuori una comunità (io vivo in campagna) e provvedo al loro mantenimento (vitto, alloggio, cure, visite veterinarie, etc.). Spiegami semmai in che senso conterrebbero addirittura "l'antimateria", vediamo se ho capito giusto..]
PS: Quando ti deciderai a pubblicare le tue opere, Riccardo? Intendo, non qui, sulle CCG, ma farle stampare sul caro vecchio supporto cartaceo..
A proposito, a che punto sta la tua "Grammatica descrittiva del bretone moderno" ?
Ci hai più lavorato?
giorgio - 2012/11/15 - 09:42
Autobiografico lo è senz'altro perché racconta di cose e persone reali, con tanto di nome e cognome; è la mia personale forma di mandare...messaggi in bottiglia senza ricorrere a Facebook. In questo credo che si manifesti il mio carattere inguaribilmente romantico :-)
"Pubblicare", Giorgio? Io sono sempre rimasto fedele al mio amico Pessoa, in quanto convinto della bellezza (e, senza abusare di questo termine, anche della gloria) dell'essere sconosciuti. Come farei, poi, a rimanere lagnusu? Mi toccherebbe, orrore, lavorare. [Cade un gelo tombale nella mia stanza e il gatto mi guarda severo]. La grammatica descrittiva del bretone moderno è ferma da, direi, un cinque anni; prima o poi la riprenderò. Con calma. Del resto, per finire quella dell'islandese di anni mi ce ne sono voluti ventidue; che sarà mai. Saluti!
"Pubblicare", Giorgio? Io sono sempre rimasto fedele al mio amico Pessoa, in quanto convinto della bellezza (e, senza abusare di questo termine, anche della gloria) dell'essere sconosciuti. Come farei, poi, a rimanere lagnusu? Mi toccherebbe, orrore, lavorare. [Cade un gelo tombale nella mia stanza e il gatto mi guarda severo]. La grammatica descrittiva del bretone moderno è ferma da, direi, un cinque anni; prima o poi la riprenderò. Con calma. Del resto, per finire quella dell'islandese di anni mi ce ne sono voluti ventidue; che sarà mai. Saluti!
Riccardo Venturi - 2012/11/15 - 12:44
È incredibile.
Inimmaginabile.
Non lo sapeva nessuno!
Ma non ci dite!
C'era la guerra in corso?
Noooooo!
CCG/AWS Staff - 2013/1/28 - 23:50
Stamattina su radio tre,Leonardo Tricarico, socio fondatore della Fondazione Icsa (Intelligence culture and strategic analysis) che si occupa di sicurezza e già capo di Stato Maggiore dell’areonautica, sosteneva ancora che del missile non c'è traccia. per fortuna è stato sommerso da una valanga di messaggi indignati.
silva - 2013/1/29 - 11:00
E' stato bello aprire una porta sul mondo, tutto a parte e per me nuovo, dei "glottomani" e percorrere con malinconica leggiadria una delle "traiettorie dei Gatti", grazie Gabriella
Gabriella Monaco - 2013/2/9 - 14:19
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Note for non-Italian users: Sorry, though the interface of this website is translated into English, most commentaries and biographies are in Italian and/or in other languages like French, German, Spanish, Russian etc.
in occasione dell'inaugurazione del Museo per la Memoria della Strage di Ustica
Musica e testi di canzoni e monologhi di Pippo Pollina
Arrangiamenti e orchestrazioni di Peter George Rebeiz
Pippo Pollina: Voce, pianoforte e chitarra
Con la partecipazione straordinaria di Manlio Sgalambro – voce narrante
E con: Palermo Acoustic Quartet
Archi della Filarmonica Arturo Toscanini (Direttore: Dimitri Jurowski)
Dedico ancora “Ultimo volo” alla memoria di mio padre che avrebbe voluto essere a Bologna quel 27 giugno del 2007.
Via di Saliceto 5, Bologna. Qui ora riposa il DC9 di Ustica. I suoi colori si stagliano ancora sulla fusoliera, e le sue lamiere arrugginite testimoniano il suo status di sopravvissuto.
Il senso di questo “Ultimo volo” parte da qui. Dal relitto, incredibilmente integro nella forma, di quell'aereo che il 27 giugno 1980 cadde in volo in circostanze tuttora irrisolte, e che dopo anni di buio è tornato finalmente al luogo di partenza.
Sul suo passato pesano i misteri e le vergogne di ventisette [trentadue adesso, ndr] anni trascorsi negli abissi della memoria. Ripescato dal profondo del mare nel 1987, per tutto questo tempo un hangar di Pratica di Mare lo ha nascosto agli italiani, nella speranza che fosse dimenticato.
Il “Museo per la memoria della strage di Ustica”, inaugurato il 27 giugno 2007, è stato per anni un obiettivo per l'Associazione dei parenti delle vittime.
Poiché dopo tanto tempo già passato, la realtà ci sfugge ancora. E il museo è “per” la memoria: serve a costruire, non solo a conservare. Guardiamolo allora questo aereo, poiché ci è concesso. Guardiamolo finalmente ad occhio nudo: per miracolo vedremo, nella sua maestosa sacralità di oggetto volante, che il sangue ed il dolore che ancora tracimano dai suoi squarci non lasciano più scampo ai dubbi del tempo, né alle inesattezze istruttorie.
Prova, ricordo, memoria: il relitto che abbiamo davanti è Ustica. La sua verità di metallo, da sola piò fare la Storia. Da sola può dimostrare che, per quanto l'uomo le voglia intorbidare, le acque a largo di Ustica restano limpide per loro stessa natura.
La strage di Ustica
Articolo it.wikipedia
Cinzia Andres, 24 anni
Luigi Andres, 32 anni
Francesco Baiamonte, 55 anni
Paolo Bonati, 16 anni
Alberto Bonfietti, 37 anni
Alberto Bosco, 41 anni
Maria Vincenza Calderone, 58 anni
Giuseppe Cammarata, 19 anni
Arnaldo Campanini, 45 anni
Antonio Casdia, 32 anni
Antonella Cappellini, 57 anni
Giovanni Cerami, 34 anni
Maria Grazia Croce, 40 anni
Francesca D'Alfonso, 7 anni
Salvatore D'Alfonso, 39 anni
Sebastiano D'Alfonso, 4 anni
Michele Davì, 45 anni
Giuseppe Calogero De Cicco, 28 anni
Rosa De Dominicis Allieva assistente di volo Itavia, 21 anni
Elvira De Lisi, 37 anni
Francesco Di Natale, 2 anni
Antonella Diodato, 7 anni
Giuseppe Diodato, 1 anno
Vincenzo Diodato, 10 anni
Giacomo Filippi, 47 anni
Enzo Fontana Copilota Itavia, 32 anni
Vito Fontana, 25 anni
Carmela Fullone, 17 anni
Rosario Fullone, 49 anni
Vito Gallo, 25 anni
Domenico Gatti Comandante pilota Itavia, 44 anni
Guelfo Gherardi, 59 anni
Antonino Greco, 23 anni
Berta Gruber, 55 anni
Andrea Guarano, 37 anni
Vincenzo Guardi, 26 anni
Giacomo Guerino, 19 anni
Graziella Guerra, 27 anni
Rita Guzzo, 30 anni
Giuseppe Lachina, 58 anni
Gaetano La Rocca, 39 anni
Paolo Licata, 71 anni
Maria Rosaria Liotta, 24 anni
Francesca Lupo, 17 anni
Giovanna Lupo, 32 anni
Giuseppe Manitta, 54 anni
Claudio Marchese, 23 anni
Daniela Marfisi, 10 anni
Tiziana Marfisi, 5 anni
Rita Giovanna Mazzel, 37 anni
Erta Dora Erica Mazzel, 48 anni
Maria Assunta Mignani, 30 anni
Annino Molteni, 59 anni
Paolo Morici Assistente di volo Itavia, 39 anni
Guglielmo Norrito, 37 anni
Lorenzo Ongari, 23 anni
Paola Papi, 39 anni
Alessandra Parisi, 5 anni
Carlo Parrinello, 43 anni
Francesca Parrinello, 39 anni
Anna Paola Pelliccioni, 44 anni
Antonella Pinocchio, 23 anni
Giovanni Pinocchio, 13 anni
Gaetano Prestileo, 36 anni
Andrea Reina, 34 anni
Giulia Reina, 51 anni
Costanzo Ronchini, 34 anni
Marianna Siracusa, 61 anni
Maria Elena Speciale, 55 anni
Giuliana Superchi, 11 anni
Pierantonio Torres, 32 anni
Giulia Maria Concetta Tripiciano, 45 anni
Pierpaolo Ugolini, 33 anni
Daniela Valentini, 29 anni
Giuseppe Valenza, 33 anni
Massimo Venturi, 31 anni
Marco Volanti, 36 anni
Maria Volpe, 48 anni
Alessandro Zanetti, 18 anni
Emanuele Zanetti, 39 anni
Nicola Zanetti, 6 anni.