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Κατάσταση πολιορκίας [Τραγούδι ποταμός σε τρία μέρη]

Mikis Theodorakis / Mίκης Θεοδωράκης
Langue: grec moderne


Mikis Theodorakis / Mίκης Θεοδωράκης

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Katástasi poliorkías [Tragoúdi potamós se tría méri]
theodypografi
[1970]
Στίχοι: Μαρίνα (Ρένα Χατζηδάκη)
Μουσική: Μίκης Θεοδωράκης
Πρώτη εκτέλεση: Μαρία Φαραντούρη & Αντώνης Καλογιάννης
"Κατάσταση Πολιορκίας", 1970

Testi di Marina (Rena Hatzidaki)
Musica di Mikis Theodorakis
Prima esecuzione di Maria Farandouri e Andonis Kaloyannis, 1970
Disco: Κατάσταση πολιορκίας ("Stato d'Assedio")

Ρένα Χατζιδάκη (Μαρίνα). Rena Hatzidaki (Marina), 1943-2003.
Ρένα Χατζιδάκη (Μαρίνα). Rena Hatzidaki (Marina), 1943-2003.


L'angoscia della prigionia, declinata al femminile in una rara e intensa sequenza lirica, nata con il titolo "Carcere Femminile Averof", rivive nella "canzone fiume" del musicista, a sua volta assediato dalla persecuzione dei tiranni. Theodorakis racconta così, in un'edizione discografica di questo "Stato d'Assedio" (che sovente si accompagna alla quinta Arcadia, cioè alla "Marcia Spirituale" di A. Sikelianos) la singolare nascita delle tre canzoni di cui si compone.

«...Mi presero nell'agosto del 1967 e rimasi alla Sicurezza Generale [in via Bubulina NdT] fino a ottobre, quando mi trasferirono all'ospedale "San Paolo" delle Carceri Averof in cattivo stato di salute, per il fatto che facevo uno sciopero della fame. In quel lasso di tempo e prima di perdere i sensi mi ricordo che un mezzogiorno quando le misure di sorveglianza erano meno strette vidi confusamente sopra la mia testa una figura femminile. Di fronte alla mia cella c'erano le donne e, a quanto pare, qualcuna di loro, con la complicità di qualche guardiano, poteva entrare nella mia cella. Era Rena Hatzidaki che mi accarezzava la fronte e mi umettava le labbra secche. Mi disse il suo nome e aggiunse che tutti stavano al mio fianco, con ciò intendendo i detenuti presso la Sicurezza Generale. Ciò mi diede speranza e forza, perché avevo la sensazione di essere solo. Più tardi, quando mi trovai nelle Carceri Averof, mentre facevamo la passeggiata nel cortile, qualcuno mi indicò le finestre del settore femminile adiacente, dicendomi: " Ci sono delle tali che ti salutano...". Vidi due o tre facce dietro le sbarre. Avevano in mano dei fazzoletti bianchi e li sventolavano per salutarmi. Una di loro era Rena Hatzidaki.

Dal marzo fino all'agosto 1968 fui "libero" e vivevo tra Atene e Vrahati accompagnato dalla scorta dei poliziotti. Non potevo far visita a nessuno per paura di "bruciarlo". Così mi limitai agli ex detenuti come me, che non avevano nulla da temere. Una di loro era Silva Akrita che, appena seppi essere uscita di prigione, mi affrettai a visitare nella sua casa di Filothéi. La nostra emozione fu grande; ma una gioia più grande me la diede la sua bimbetta Elena che era cresciuta e che era stata molto ferita dalla mancanza della mamma. [Cfr "Il Sole e il Tempo" , 26:

Al quarto piano
tua mamma dorme
Elena
musica divina i suoi sogni
i sogni di Peppino di Capri
al di là del mare
non svegliarla.


Silva e Rena erano diventate amiche alla Sicurezza. In seguito si trovarono nella stessa cella della stessa prigione. Mi dice allora: " questa ragazza è una grande poetessa. Solo che, quando mi leggeva una poesia, subito dopo la strappava. Ecco, ieri ha scritto un testo eccezionale e ce l'ho nel cassetto, ma ho paura che appena ritorna lo distruggerà... Sai, siccome vive sola, abita provvisoriamente da noi...". La pregai di lasciarmelo leggere. "Fa' in fretta, mi dice Silva, perché può tornare in qualsiasi momento.." Sinceramente oggi non ricordo se in quel momento feci una copia della poesia o se me la presi di forza. Perché alla prima lettura rimasi così affascinato, che non mi sarei per nessuna ragione separato da un capolavoro come quello.
Poco più tardi guidavo l'auto sul percorso di Vrahati e a, quanto pare, dovevo avere ben chiare in testa le parole, perché misteriosamente agivano dentro di me. Diversamente non si spiegherebbe il fatto che, appena giunto a Vrahati, mi sedetti al pianoforte e, quando poco tempo dopo mi rialzai, avevo composto tutto d'un fiato lo Stato d'Assedio. Subito incominciai a cantarlo da solo dalla mattina alla sera, esclusivamente per ascoltarmelo da me.

Una di quelle innumerevoli volte lo registrai al magnetofono per mandarlo a Silva e a Rena. Ed esattamente quella copia era stata custodita dalla Hatzidaki , quando ella me la diede alcuni anni fa da mandare in Germania, dove infine entrò in questo disco. In Grecia fu presentato al pubblico solamente due volte: la prima all'Agosto Musicale del 1977 e la seconda al Portico del Libro nel 1999.

[ La più recente esecuzione di Stato d'Assedio risale al 29 agosto 2012 al teatro di Erodio Attico di Atene, in una nuova orchestrazione di Thanos Mikroutsikos per l'interpretazione di Maria Farandouri e di Kostas Thomaìdis. Mikis Theodorakis era presente, e alla fine ha un po' cantato per il pubblico foltissimo, ma soprattutto ha parlato esaltando la democrazia e denunciando il pericolo fascista attualmente rappresentato dai neonazisti di Alba d'Oro - NdT].

Nell'agosto del 1968 mi arrestarono di nuovo per spedirmi a Zatuna, dove non più tardi di un mese mi raggiunse Mirtò con Margarita e Yorgos. Non so se allora ci fosse un'altra famiglia tenuta in isolamento in un villaggio deserto con venti guardiani per non lasciare avvicinarsi anima viva nel raggio di molti chilometri. Mi permisero però di tenere un pianoforte, e così la piccola stanza nella quale vivevamo tutti insieme si riempì di nuove musiche, che spesso arrivavano in capo al mondo, siccome le spedivamo - in mille modi segreti - e le ricevevano a Londra, a Mosca a Parigi e alla Deutsche Welle. Una delle opere che scrissi nel 1969 fu Marcia Spirituale...A Londra l'opera [Marcia Spirituale NdT] fu eseguita alla Albert Hall nella primavera del 1970 con l'orchestrazione di un compositore inglese. Nel maggio dello stesso anno tutta la famiglia si trovò libera a Parigi. Lì i Greci di Londra mi chiesero di dirigerla all'Albert Hall e allora feci una nuova orchestrazione. Così, pochi mesi dopo la prigionia (perché, dopo Zatuna mi mandarono a Oropos e da lì alle carceri Sotirias), ormai libero, dirigo la Marcia Spirituale e dedico quella esecuzione ai miei compagni che erano ancora in ceppi e personalmente a Yannis Ritsos, che continuava lui pure ad essere detenuto». (gpt)

katastasi


NOTA SU RENA HATZIDAKI

Rena Hatzidaki (Creta, 18 luglio 1943 - Tzia, agosto 2003), una promettente poetessa che poco fece - o poco la aiutarono - per mettersi in luce, si definiva un autentico "παιδί της Κατοχής ", cioè una figlia dell'Occupazione e una "prigioniera politica" congenita. Sua madre, Lili Zografou (1922 -1998) , giornalista di idee liberali, scrittrice e studiosa di Kazantzakis, era infatti ostaggio dei Tedeschi nelle carceri di Aghia presso Hanià (Creta) quando la partorì, e suo padre Miron era deportato a Mauthausen. In che modo fu scoperta, lo abbiamo letto qui sopra nel ricordo di Mikis Theodorakis, il quale si impadroni del suo Stato d'Assedio, scritto in prigione, per musicarlo. La sua vera firma era tuttavia comparsa per la prima volta nel 1959, in una piccola raccolta pubblicata quasi a sua insaputa per iniziativa della madre. Poi, nonostante il talento, rimase ai margini sia della poesia "importante" sia degli ambienti resistenziali, preferendo il silenzio e guadagnandosi da vivere come valente psicoterapeuta e traduttrice. Pubblicò con il proprio nome il poemetto musicato da Theodorakis subito dopo la caduta della dittatura; ma esso non fu notato fino al 1991, quando ne fu fatta una più visibile edizione dalla casa Gavrielidis con otto illustrazioni di Yannis Valavanidis.
Rena confessò più tardi in una rara intervista che il poemetto fu scritto in prigione in forma di lettera d'amore, perché allora era innamorata. Si componeva di cinque parti, di cui due andarono perse, mentre le altre tre sono quelle musicate. Pretese che il disco uscisse con uno pseudonimo per evitare di raggiungere una qualche notorietà grazie all'esperienza delle carceri, nelle quali ancora pativano tanti antifascisti. Accettò di ripubblicare il poemetto come atto di personale liberazione, per riesaminarsi con gli occhi dell'età matura e chiudere con le esperienze che tanto la avevano segnata.

Era finita nelle carceri dei colonnelli il 10 ottobre del 1967 perché già dai tempi degli studi, e senza iscriversi ad alcun partito, collaborava con minori pubblicazioni della sinistra e perché aveva aderito al PAM alla sua fondazione, per quanto al momento dell'arresto ne fosse già uscita, per il suo dissenso con l'egemonia che vi stava esercitando il Partito Comunista Greco (KKE). Per quanto disponesse di un passaporto falso, procuratole dalla madre che si trovava a Parigi, e per quanto non avesse, a suo dire, un temperamento eroico, aveva preferito non espatriare, cosa che le costò 43 giorni di prigione nelle celle della Sicurezza di via Bubulina: quarantatré giorni e quarantatré assurde notti di incubo, di spersonalizziazione, di paura, anche se, personalmente non le toccarono trattamenti di tortura. A suo dire, "In questi ambienti di violenza, tu, l'innocente, hai la sensazione di perdere per sempre la tua innocenza, di essere sporcato dall'offesa al tuo corpo, dal sangue e dal sudore tuo o degli altri...". Seguirono altri quattro mesi in una prigione più "normale", il Carcere Femminile Averof, popolato non solo dai politici, ma anche dalla varia "manghià" di Atene. Fu lì che scrisse i testi di Stato d' Assedio.

Dopo la caduta della Giunta, tentò per un breve periodo di collaborare alla "degiuntificazione" di alcuni organismi pubblici, ma se ne ritrasse rapidamente, forse sentendosi mal vista per la sua ostinata indipendenza partitica. Poi, un po' alla volta, decise di accantonare l'impegno politico e di dedicarsi in silenzio alla professione e alla cultura.
Morì a sessant'anni nell'isola di Tzia (Kea) annegando nel mare durante una vacanza. (gpt)
Ι. (Καθώς το παιδί )


Καθώς το παιδί, που σημαδεύεται απ' την πρώτη γνώση της μοναξιάς,
ο καιρός κι η απαντοχή θα κάνουνε συντρίμμια την καρδιά μου
και θα 'χω χάσει για πάντα τους δρόμους, τους δρόμους μου,
σα θα μ' αφήσουνε να βγω από δω.
Θα γυρίζω γυρεύοντάς σε παντού,
στα ισοπεδωμένα τοπία,
στα κομματάκια εκείνου του καθρέφτη,
στις σπαταλημένες ματιές,
να βρω ξανά το πρόσωπό σου,την καρδιά μου γυρεύοντας

και θα μιλώ και θα μιλώ τη γλώσσα,
που ήταν κάποτε δική μας,
που ήταν κάποτε το μόνο δικό μας που μας είχε απομείνει
μέσα στους ίσκιους των νεκρών χρωμάτων
των νεκρών εικόνων
όταν οι νύχτες μας ήταν απλά επεισόδια
της μεγάλης νύχτας που άρχισε πριν -πόσον καιρό;

Πώς να μετρήσω τον καιρό εδώ μέσα,
τις σεληνιακές σου διαλείψεις,
τ' αστρικά σου πηδήματα.
Πώς να μετρήσω την πορεία μου τεθλασμένη,
την απρόβλεπτη τροχιά της απουσίας σου,
μέσα σε τούτο το αμείλικτο διαστημόπλοιο,
μες στην καρδιά της πόλης που ήταν κάποτε δική μου
και τώρα την διαγουμίζουνε τα τανκς;

Εφτάπυλο το χάος,
στεγανό πολιορκημένο μέσα κι έξω από το φόβο με τα χίλια πρόσωπα.
Οι φωνέςτων ανιάτων κοπάζουν κάθε αράδυ στις πεντέμισι.
Οι σειρήνες λεηλατούν κάθε βράδυ τη σιωπή.
Οι κοιμισμένοι κάθε βράδυ ανεξιχνίαστοι νεκροί.
Και πάλι, πάντα πού είναι τα χέρια σου;
Η φωνή σου πού;
Θ' αντέξουν και απόψε τα τοιχώματα; Ή θα χιμήξει το σκοτάδι;
Πώς να μετρήσω;

Καθώς η πρώτη γνώση της μοναξιάς
που σημαδεύει -έφηβο κιόλας το παιδί
η απουσία σου καρφώθηκε μαχαίρι κατακόρυφο στο χωροχρόνο μου
άνοιξε από παντού ξετρελαμένα στόματα
η ασχήμια, που ενεδρεύει να με κατααροχθίσει,
ο πληγωμένος χρόνος σπαρταράει,
μ' αφύσικα τινάγματα
η μελλοθάνατη ειμ' εγώ
Και γύρω μου παντού,
καταμεσίς
κατάστηθα,
στο χάος, στην καρδιά μου,
αιμόσυρτες οι τροχιές
από την αθωότητα στο φόνο,
κι απ' το φόνο στην τύψη,
στο μοιρολόι κι από κει στον άλλο φόνο.

Να σου τραγουδήσω;

Μα κι η φωνή μου, π' αγαπούσες, μαχαιρωμένη.
Φύκια των ουρανών μες την αγρύπνια
τα μαλλιά μου, π' αγαπούσες,
τα χέρια μου πλοκάμια απελπισμένα
κι όπου κι αν ψάξω δε σε βρίσκω πια.
Τετράγωνα κομμάτια σκοταδιού πίσω απ' τα σίδερα.
Η ρωμιοσύνη προδομένη, προδοσιά μαχαίρι στην καρδιά.
Το πληγωμένο φως μετά τις δέκα,
οι θόρυβοι ανεξήγητοι, οι ανάσες.
Η δίχως νόημα θυσία,
η πολιορκία,
η απουσία
το τσιγάρο του φρουρού.

Και θα μιλώ τούτη τη γλώσσα

«Πώς άλλαξε αυτό το παιδί, θα λένε οι άλλοι,
κοιτώντας με με το μοναδικό μάτι του τουρίστα Κύκλωπα
ζητώντας να τους μιλήσω για ήρωες
κοιμώντας, οι άλλοι, τις δαιδαλικές νύχτες,
που θα ουρλιάζει από παντού η προδοσία,
σκεπάζοντας τα τανκς, τα αεροπλάνα,
το φόβο,
το βήμα του φρουρού,
τις νύχτες χωρίς εσένα
που θα ουρλιάζει η προδοσία από παντού
που θα ουρλιάζουνε τα συντρίμμια της καρδιάς μου,
τα συντρίμμια σαν τα παιδιά της Ζηνοβίας,
απ' τα πέρατα της γης και της απόγνωσης.
Γιατί και σένα θα σ' έχω χάσει
στο κινούμενο σκοτάδι
όπως κι εμένα,
όπως και τον αγώνα,
που θα 'ταν δύσκολος, αλλά ωραίος
κι ήρθε να γίνει σαπισμένο σταφύλι,

Χωρίς εσένα, πώς;

Σαν την πρώτη μοναξιά,
που η γνώση της χαράζει για πάντα το παιδί
το σώμα μου θα διαλυθεί
τα κύτταρά μου ένα προς ένα θ' αποσυνδεθούν,
πάνω σε τούτο το κρεβάτι του Προκρούστη, τον καιρό,
το σώμα μου ηλιακή κηλίδα, θα εκραγεί,
γράφοντας τ' όνομά σου σ' όλους τους ουρανούς,
τα κύτταρά μου,ένα προς ένα θα κινήσουν να μπολιάσουν τους ανθρώπους
με την ηλικία της οδύνης,
με το μαβί καπνό του δειλινού πίσω από τα σίδερα.
Θα στείλω τα όνειρά μου να ταράξουν το νοικοκυρεμένο ύπνο τους.
Θα στείλω το φόβο να φωλιάσει στις ανύποπτες καρδιές τους,
κι όταν θα 'ρθει η υπάλληλος για καταμέτρηση
«δραπέτευσε», θα πουν οι άλλοι,
παρεξηγώντας τον θάνατό μου.
Και μόνο εσύ θα ξέρεις
μόνο εσύ θα θυμάσαι τα χέρια μου,
το θολό παράπονο του σκυλιού έξω από τη φυλακή,
τις κραυγές των παιδιών πάνω στην ταράτσα
την απόγνωση του κινέζικου πορτρέτου,
τα ελληνικά αινίγματα
-τι είν' αυτό που ανεσαίνει με τα πόδια, και το κατεβάζουνε με κουσέρτα -
και μόνο εσύ θα ξέρεις πώς,
πού χάθηκε το κορμί μου,
τι έγιν'η φωνή μου,
τι η αγρύπνια μου,
τι ήχους έχει ο φόβος
κι η απόγνωση τι πρόσωπα.
«Θεέ μου και τι να γίνηκαν του κόσμου οι αντρειωμένοι;»

Μονάχα εσύ θα ξέρεις
εγώ θα μιλώ τούτη τη γλώσσα.

ΙΙ. (Μακριά, πολύ μακριά)


Μακριά, πολύ μακριά,
ακούγεται η ζωή,

ψηλά πολύ ψηλά λάμπουν τα φώτα
-ίσως- τα φώτα, που μας έκλεψαν
της πολιτείας που μας έκλεψαν
κι η θύμηση απ' το τελευταίο λιόγερμα
και τα βουνά, γύρω δικά μας.

Μακριά πολύ μακριά υπάρχεις.
Πρέπει να υπάρχεις,

Σα να μπορώ ν' αφουγκραστώ το γέλιο σου,
ξανθό, πίσω απ' τους λεκιασμένους τοίχους.
Κάποτε όλα θα μαθευτούνε
που θ' αναλιώσει το παγωμένο κέντρο της μνήμης
-τώρα, παντού, «η κατάθεσή μου, να θυμάμαι τι είπα στην κατάθεσή μου» -
και θα ξανάρθουνε τα χρώματα
ίσως κάποτε που θ' ανοιχτούν οι πόρτες των τάφων,
των σπιτιών, των φυλακών, των νόμων,
να λογαριάσουμε τους νεκρούς μας,
να μοιραστούμε τα καινούργια μας τραγούδια.
Κάποτε θα μάθεις κι εσύ τα υπόλοιπα
θα θυμηθείς και εσύ

μακριά, πολύ μακριά, είσαι η ζωή,
θα είσαι μακριά
τότε εγώ δε θα υπάρχω.

III. (Χρόνος παραμορφώθηκε)


Χρόνος παραμορφώθηκε,
Τα χρόνια που έρχονται παραμορφώθηκαν.
Ξέρεις πού θα με βρεις,
Εγώ ο Φόβος.
Εγώ ο θάνατος.
Εγώ η μνήμη, ανήμερη.
Εγώ η θύμηση της τρυφεράδας του χεριού σου,
εγώ ο καημός της χαλασμένης μας ζωής.

Θα πολιορκώ το «κοίταζε τη δουλειά σου» με τη αγωνία μου.
Θα θρυμματίζω τον ύπνο τους μ' άσεμνα, φρικιαστικά βεγγελικά.
Σφαίρες αμέτρητες θα πέφτουν στους αδιάφορους διαβάτες,
ώσπου ν' αρχίσουν να σφαδάζουν
ώσπου ν' αρχίσουν ν' αναρωτιούνται.
Εμένα δε θα μπορούν να με σκοτώσουν.
Όμως θαρρώ, οι μόνοι που -ίσως -καταλάβουν θα ναι τα παιδιά,
πλούσια απ' την κληρονομιά μας
πρώτη φορά, τα παιδιά
σκληρά στη μνήμη, σκληρά σε μας,
θα διαβάσουν ίσως έγκαιρα
τ' αδέξια μηνύματα των προτελευταίων ναυαγών
διορθώνοντας τα λάθη,
σβήνοντας τα ψέματα,
ονοματίζοντας σωστά, χωρίς ρομαντισμούς τα παιδιά,
χωρίς αναγραμματισμούς ηλικίας
σημαδεμένα από την αστραπή
τη γνώση της μοναξιάς της δύναμης
που σε μας άργησε τόσο πολύ να 'ρθει.

Κι αν τώρα σε γυρεύω απελπισμένα
στα πελώρια κύματα της αγρύπνιας μου
κι αν τώρα κάθε που αναδαίνω
βγαίνει τ' όνομά σου
όταν θ' αρχίσω να γυρίζω στους σκοτεινούς δρόμους του κόσμου,
με μόνο μια χούφτα φεγγαρόπετρες να μ' οδηγούν
τυφλώνοντας τον κόσμο με τις λάμψεις του τρελού γέλιου σου,
της καλόγριας που κρατούσε τα κλειδιά,
κουφαίνοντας τον κόσμο με τους ήχους της ταράτσας,
με τις κραυγές αυτών που βασανίστηκαν κι αυτών που βασανίζουν
τραντάζοντας τον κόσμο με τη γλώσσα τούτη του θανάτου
ίσως τότε θα 'χεις βρει το δρόμο στο δικό σου το λαβύρινθο
ίσως εσύ τότε θα στέκεσαι περήφανο δεντρί,
στο σταυροδρόμι του κόσμου,
μ' όλους τους ποταμούς να φτάνουν μυστικά στις ρίζες σου,
ίσως τότε τα παιδιά σου,
μαζί μ' όλα τα παιδιά,
να προλάαουν τον καιρό και τη ζωή
μια στιγμή πριν απ' το χάος.

Και πια δε θα 'χει μείνει τίποτ' από μένα
ούτε η τύψη που έμελλε να γίνω
ούτε το άγγιγμά μου στο χέρι σου
ούτε το πιο δικό μου, η γλώσσα μου,
μα θα 'χω διαλυθεί σ' όλους τους ποταμούς του κόσμου
θα 'χω γράψει τ' όνομά σου, που φοβόμουνα,
ως την άλλη όχθη
και το κορμί μου -ίσως- νεκρό
μα πάλi ακέραιο θ' αναπαύεται
με γύρω του τη θύμησή σου
και τη λιόλουστη ζωή.

envoyé par Gian Piero Testa - 9/10/2012 - 15:09



Langue: italien

Gian Piero Testa.
Gian Piero Testa.

Versione integrale italiana di Gian Piero Testa

In due punti ho tradotto ad sensum, non aiutandomi nessuno dei miei dizionari né le ricerche nella rete: ho messo un (?) accanto alla traduzione della parola ignota. Si vedano anche le Note. (gpt)
I. Come il ragazzo


Come il ragazzo, che viene segnato dalla scoperta della solitudine,
il tempo e il sopportare manderanno il mio cuore in frantumi
e avrò per sempre smarrito le strade, le mie strade,
quando mi lasceranno uscire da qui.
Ritornerò, cercandoti ovunque,
nei paesaggi monotoni,
nei frammenti di quello specchio,
negli sguardi sprecati
per ritrovare il tuo volto, cercando il mio cuore

e parlerò, parlerò nella lingua
che una volta era la nostra,
che una volta era l'unica cosa che fosse rimasta nostra
nell'ombra dei colori morti,
quando le nostre notti erano semplici episodi
della grande notte che prima - da quanto tempo? - era incominciata.

Come posso contare il tempo qui dentro,
le tue eclissi lunari,
i tuoi slanci siderali.
Come posso misurare il mio andar per vie traverse,
l'imprevedibile rotta della tua assenza,
dentro questa inesorabile astronave,
nel cuore della città che una volta era mia
ed ora la devastano i carri armati ?

Ha sette porte il caos,
sigillato, assediato dentro e fuori da una paura dai mille volti.
I lamenti degli inguaribili si calmano ogni sera alle cinque e mezza.
Le sirene rapinano il silenzio ogni sera.
I dormienti ogni sera sono imperscrutabili morti.
E ancora, sempre, dove sono le tue mani ?
Dove la tua voce ?
Resisteranno le pareti anche stasera ? O ci verrà addosso il buio?
Come posso misurare ?

Come la scoperta della solitudine
che segna il ragazzo - già adolescente,
la tua assenza si è conficcata come un coltello nella mia sfera spazio-temporale.
la bruttezza ha aperto ovunque bocche impazzite
e si accomoda per ingoiarmi,
il tempo ferito si contorce
in sussulti innaturali,
sono io la condannata a morte.
E intorno a me dappertutto,
dentro di me,
sopra il mio petto,
nel caos, nel mio cuore,
reti insanguinate sono le orbite
dall'innocenza all'omicidio,
e dall'omicidio al rimorso,
al lamento funebre e da lì a un altro omicidio.

Devo cantare per te?

Ma anche la mia voce, che amavi, è pugnalata.
Alghe di cieli nell'insonnia
i miei capelli, che amavi,
tentacoli disperati le mie mani
e ovunque ti cerchi, più non ti trovo.
Riquadri di tenebra dietro le inferriate.

Tradita l'anima greca, coltello in cuore il tradimento.
La luce ferita dopo le dieci,
i rumori inspiegabili, i respiri.
Il sacrificio insensato,
l'assedio,
l'assenza,
la sigaretta del secondino.

E parlerò in questa lingua.

«Come è cambiata questa ragazza» - diranno gli altri
guardandomi con l'unico occhio del turista Ciclope
chiedendomi di parlargli di eroi
assopendo - gli altri - le notti labirintiche
quando da ogni angolo urlerà il tradimento,
coprendo i carri armati, gli aeroplani,
la paura,
il passo del secondino,
le notti senza te,
quando urlerà il tradimento da ogni angolo,
quando urleranno i frantumi del mio cuore,
i frantumi come i figli di Zenobia
da ogni estremità della terra e della disperazione.
Poiché è per te che ti avrò perduto
nell'ombra oscillante
come me
come la lotta
che sarebbe stata difficile, ma bella
e arrivò per diventare un grappolo marcito.

Senza di te, come ?

Come la prima solitudine
la cui scoperta segna il ragazzo per sempre
il mio corpo si dissolverà
le mie cellule si separeranno a una a una
su questo letto di Procuste, il tempo,
il mio corpo esploderà come una macchia solare,
scrivendo il tuo nome su tutti i cieli,
le mie cellule a una a una andranno a vaccinare gli uomini
con l'età del dolore,
con il fumo azzurrino della sera dietro le sbarre.
Spedirò i miei sogni a turbare il loro sonno composto.
Spedirò la paura a annidarsi nel loro cuore di cui non sospettano,
e quando arriverà l'impiegata a leggere il contatore,
«scappa», mi diranno gli altri,
mal interpretando la mia morte.
E solo tu saprai
solo tu ricorderai le mie mani,
il cupo dolore del cane fuori della prigione,
le urla dei ragazzi sopra la terrazza,
la disperazione della stampa cinese,
gli indovinelli greci
- cos'è quella cosa che sale con i piedi e la calano in una coperta (?) -
e solo tu saprai come,
saprai che il mio corpo è perduto,
che fine ha fatto la mia voce,
che fine la mia insonnia,
che suoni ha la paura
e che volti ha la disperazione.
«Dio mio, che fine hanno fatto i coraggiosi del mondo?»

Solo tu saprai
io parlerò in questa lingua.

II. Lontano, molto lontano


Lontano molto lontano,
si ode la vita,

ln alto molto in alto brillano le luci
- forse - le luci che ci hanno rubato
della città che ci hanno rubato
e il ricordo dell'ultimo tramonto
e la cerchia dei nostri monti.
Lontano molto lontano tu esisti.
Bisogna che tu esista,

come potessi ricordare il tuo riso,
biondo, dietro i muri macchiati di unto.
Un giorno quando tutto sarà conosciuto
quando tornerà a sciogliersi il centro della memoria raggelato
ora in ogni sua parte, «la mia deposizione, voglio ricordare cosa ho detto nella mia deposizione» -
e ritorneranno i colori,
forse un giorno quando si apriranno le porte delle tombe,
delle case, delle prigioni, delle leggi,
conteremo i nostri morti,
distribuiremo le nostre canzoni nuove.
Un giorno anche tu saprai il resto
anche tu ricorderai

lontano molto lontano, sei la vita
sarai lontano,
allora non esisterò più.

III. Il tempo si è deformato


Il tempo si è deformato. Gli anni in arrivo sono deformati.
Sai dove mi troverai.
Io sono la paura. Io la morte.
Io la memoria ostinata.
Io la memoria della tenerezza della tua mano.
Io il dolore della nostra vita guastata.
Assedierò il «bada ai fatti tuoi» con la mia angoscia.
Ferirò il sonno con fuochi d'artificio disgustosi e esagerati.
Pallottole cadranno sui passanti indifferenti
finché comincino a dibattersi,
finché comincino a domandarsi.

Quanto a me, non riusciranno a uccidermi.

Eppure, immagino, gli unici a capire saranno i ragazzi,
ricchi della nostra eredità
per la prima volta i ragazzi
duri con la memoria, duri con noi,
leggeranno forse in tempo
i rozzi messaggi dei penultimi naufraghi
correggendo gli errori,
cancellando le bugie,

chiamando con il suo esatto nome, senza romanticismi i ragazzi,
senza le sgrammaticature dell'età,
segnati dalla folgore
la consapevolezza della solitudine della forza
che a noi tanto tardò a venire.

E anche se ora ti cerco disperatamente
nelle gigantesche ondate della mia insonnia
e anche se ora ogni volta che respiro (?)
esce il tuo nome,
quando incomincerò a tornare nelle oscure strade del mondo
con solo una manciata di pietre lunari a guidarmi
abbagliando il mondo con i lampi del tuo folle riso,
della monaca che teneva le chiavi,
assordando il mondo con i suoni della terrazza
e le grida di quelli che furono torturati e di quelli che torturano,
scuotendo il mondo con questa lingua di morte,
forse allora avrai trovato la strada nel tuo labirinto,
forse allora tu starai come un albero superbo
nel crocevia del mondo,
con tutti i fiumi che misteriosamente arrivano alle tue radici,
forse allora i tuoi ragazzi
insieme con tutti i ragazzi
potranno raggiungere il tempo e la vita
un istante prima del caos.

E null'altro più sarà rimasto di me
né il rimorso in cui stavo per trasformarmi
né il mio sfiorare la tua mano
né la cosa più mia, la mia lingua,
ma mi sarò dissolta in tutti i fiumi del mondo
avrò scritto il tuo nome, che mi faceva paura,
fin sull'opposta sponda
e il mio corpo - forse - morto
ma ancora integro si riposerà
con intorno il tuo ricordo
e la vita splendente di sole.

envoyé par Gian Piero Testa - 9/10/2012 - 15:19


NOTE

Nel primo brano è citata una Zenobia. Quasi certamente - ma mi posso sbagliare - si tratta della regina di Palmira, che diede tanto filo da torcere ai Romani. Quando finalmente fu sconfitta, riuscì a salvare la vita grazie alla sua gran bellezza. Ma nel corso delle precedenti peripezie del suo regno, alcuni suoi figli fecero una brutta fine.

Sempre nel primo brano, azzardo un'ipotesi sull' "indovinello greco" «cos'è quella cosa che sale con i piedi e la calano in una coperta». Più che un scherzo tradizionale, credo si tratti di indovinello coniato beffardamente ad hoc dagli aguzzini dei Colonnelli per terrorizzare i detenuti. In tal caso, la soluzione non può che essere: il prigioniero politico, che entra in prigione con le sue gambe e, dopo il trattamento, ne esce con i piedi in avanti.

Nel terzo brano si cita la "terrazza". Vi accenna anche Theodorakis in "Sole e il Tempo". Era la terrazza sul tetto della Sicurezza Generale, dove su un'apposita tavola si praticava la tortura. La parola che usa l'autrice, "suoni", che io ho rispettato, non rende bene l'idea: sarebbe meglio dire "urla".

Gian Piero Testa - 11/10/2012 - 18:10




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