“E cala la notte a Mogadiscio. Non c'è elettricità. Alla luce di candele e lampade a gas degli uomini, resi ancora più simili a fantasmi nella luce fioca, prendono il fresco, giocano, bevono tè e caffè. La città è irreale. Un semaforo impazzito, l'unico funzionante, segna il rosso. Per la ripresa del paese, il segnale verde non sembra cosa di domani.”
Ilaria Alpi, Somalia
“Tre lampade a gas a delineare una zona d'atterraggio dai contorni incerti e l'elicottero, un MI8 russo che deve aver conosciuto giorni migliori, si posa a terra nel crepuscolo di questo fazzoletto di Afghanistan del nord, ostaggio dell'intricato groviglio di affluenti dell'Amu Darya, a mezz'ora di volo dalla capitale tajika di Dushanbe.”
Raffaele Ciriello, Afghanistan, intervista al Comandante Massud
“Prima che la guerra riaccendesse i fervori integralisti del'Islam, le donne andavano vestite all'europea, in minigonna addirittura. Mentre ora sfilano senza volto, la maggior parte coperte dalla burka, il velo integrale che nasconde persino gli occhi, dietro una rete a maglie fitte. Le poche che si limitano a portare il velo sui capelli, non sfuggono nemmeno loro ai rigori coranici. L'Islam le vuole silenziose e sottomesse alle decisioni di genitori e mariti, più lontane possibili dai contatti con il mondo esterno.”
Maria Grazia Cutuli, Afghanistan
“E' molto importante fornire documenti, fatti, per costringere la comunità internazionale a lavorare tutti assieme, per fermare la guerra in Cecenia. Questo è il mio problema. Quando capiremo questo sarà il primo grande risultato. Dopo c'è anche l'obiettivo dei problemi ecologici del dopo guerra e della ricostruzione. E' per questo che sono qui, per informare e documentare a livello internazionale quanto succede in Cecenia da circa sei mesi, in Georgia e nell'area del Caucaso, per raccogliere informazioni, trovare prove...”
Antonio Russo, Cecenia
“Bene, ci siamo. Ora vediamo cosa sai fare, vecchio mio. Dietro quest'angolo c'è un carro armato americano. Forse l'equipaggio è nervoso. Forse hanno l'ordine di sparare o forse no, ma noi non lo sappiamo. Non posso togliermi dalla testa quel che è successo all'amico e collega di penna Raffaele Ciriello, ucciso in mezzo alla strada dalla raffica di un mitragliere nervoso quando era di fronte - armato solo di una macchina fotografica - a un Merkava israeliano. Palle fredde. Vediamo che succede.”
Enzo Baldoni, Iraq
Gang - Chi ha ucciso Ilaria Alpi?
La Somalia resta in perenne conflitto.
Opposte fazioni si combattono per il controllo dei traffici illegali e del territorio.
Gli scontri non finiscono.
I gruppi armati attaccano e poi svaniscono nell'ombra.
Il contingente italiano sta ormai abbandonando Mogadiscio e la missione Onu.
In questo scenario, l'inviata del Tg3 Ilaria Alpi organizza la sua settima missione in Somalia.
Con lei c'è Miran Hrovatin, cameraman freelance.
19 marzo 1994.
Ilaria e Miran partono da Bosaso in aereo verso Mogadiscio.
Hanno raccolto interviste, testimonianze e immagini.
Hanno intercettato navi regalate dalla Cooperazione Internazionale alla Somalia che con ogni probabilità trasportano armi e rifiuti tossico nocivi provenienti da alcune aziende italiane.
Ilaria ha intervistato il sultano di Bosaso.
Di sera vuole realizzare un servizio, vuole raccontare tutto agli italiani.
Del resto è una giornalista.
Vede, consuma le suole delle scarpe, racconta, narra e non fa sconti a nessuno, non nasconde ciò che sa.
Alle 15,10, a Mogadiscio scatta l'agguato.
L'auto con a bordo Ilaria Alpi e Miran Hrovatin viene bloccata da una jeep.
L'autista tenta la retromarcia.
Gli assalitori scendono a terra.
Non c'è un vero e proprio scontro a fuoco.
Un proiettile sparato a distanza ravvicinata da un killer sfonda il parabrezza e colpisce Miran alla testa.
Un altro proiettile raggiunge la parte superiore della nuca di Ilaria.
Tutto si svolge in pochi minuti.
Nessun agguato a scopo di sequestro o rapina.
Non c'è dubbio.
E' un'esecuzione.
Invece scattano i depistaggi.
Nessun carabiniere è presente sul posto, nessun militare trasporta i corpi di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin nel Porto vecchio di Mogadiscio.
Nessun investigatore sequestra le armi dell'autista di Ilaria, neppure quelle dell'uomo di scorta.
Per Ilaria Alpi, non viene disposta un'autopsia, soltanto un esame esterno del corpo.
La salma di Miran Hrovatin viene trasferita subito a Trieste.
Non ci sarà mai un accertamento contestuale a quello sul cadavere di Ilaria Alpi.
Ai genitori della reporter viene consegnato con estremo ritardo l'elenco degli effetti personali compilato sulla nave Garibaldi.
Alcune videocassette girate in Somalia spariscono nel nulla: solo sei, riguardanti la guerra civile in Somalia, giungono in Italia con i corpi dei due giornalisti.
Svaniscono nell'ombra anche tre dei cinque taccuini trovati nella stanza di albergo della giornalista.
Cosa c'era scritto nei bloc notes scomparsi di Ilaria Alpi?
Importanti tracce restano negli appunti trovati sulla sua scrivania nella redazione del Tg3, alla Rai di Saxa Rubra:
“1400 miliardi di lire: dove è finita questa impressionante mole di denaro?
Alcune opere come la conceria e il nuovo mattatoio di Mogadiscio sono semplicemente inattivi.
E i coinvolgimenti con la Somalia di Barre prima e poi il privilegiare Aly Mahdi. Accuse di Aideed.
Adesso le accuse non sono finite: la regione centrale di nuovo fuori degli aiuti
Cosa mi può dire del Cefa, di una nave che da quasi un anno doveva partire x la Somalia, che è stata bloccata e alla quale è stato chiesto di scrivere che era coop. una sconfitta. E a Mogadiscio la lotta x il potere è ancora aperta. Una massa di diseredati fa comodo a tutti: sia Ali Mahdi che Aidid hanno i loro buoni motivi x non vedere risolvere il problema. E gli aiuti internazionali seguono le indicazioni dei potenti.”
Tutto chiaro?
Non proprio.
In un paese normale si sarebbero dovute fare indagini accurate, assicurare alla giustizia gli assassini, i loro mandanti.
In Italia no.
In Italia, Carlo Taormina, presidente della commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, ha potuto scrivere queste cose nella sua relazione finale:
“La gente deve sapere che Ilaria Alpi e Miran Hrovatin non erano depositari di alcun segreto nelle materie che un giornalismo d'accatto per dodici anni ha invece tentato di propinare. E' falso che i due giornalisti fossero a conoscenza di cose inenarrabili nei campi della cooperazione, del traffico di armi, del trasporto di rifiuti. I due giornalisti nulla mai hanno saputo e in Somalia, dove si recarono per seguire la partenza del contingente italiano, passarono invece una settimana di vacanze conclusa tragicamente senza ragioni che non fossero quelle di un atto delinquenziale comune.”
Gang - Aprile
Raffaele Ascanio Ciriello, 42 anni, è un fotoreporter.
Gentile, generoso, schivo, riservato quanto basta, Ciriello è un professionista tra i più conosciuti e stimati nel nostro paese, specializzato in reportage di attualità.
Ciriello è un battitore libero e come ogni freelance rischia più di altri colleghi.
Per offrire il suo lavoro a prestigiose testate internazionali, deve ottenere immagini esclusive, spingersi oltre il confine della sua sicurezza personale.
E' una linea sottile: la si può attraversare senza neppure accorgersi, in una frazione di un secondo ci si trova subito dall'altra parte, verso la morte.
27 febbraio 2002, Raffaele Ciriello raggiunge il Medio Oriente.
E' accreditato dal Corriere della Sera.
E' in corso la seconda Intifada, la rivolta dei palestinesi contro l'occupazione israeliana.
Migliaia di morti tra milizie palestinesi, militari israeliani, soprattutto tra civili, donne, vecchi, bambini.
13 marzo 2002, Raffaele Ciriello si trova con un gruppo di giornalisti e fotografi stranieri in piazza Dawar al Manara, nel centro di Ramallah.
La città è avvolta da un silenzio irreale.
Niente macchine, nessun passante, porte e finestre sprangate.
Da lontano, si sente soltanto l'eco della battaglia e il latrato dei cani.
Ciriello non indossa il giubbotto anti proiettile, neppure un elmetto, nemmeno il cartellino con la scritta press.
Porta con se due professionali con obiettivi, una macchina per istantanee, una telecamera palmare.
E con quel minuscolo apparecchio tecnologico digitale, realizza il suo ultimo reportage, la sua morte in diretta.
Il video di Raffaele Ciriello si apre con le immagini di alcuni palestinesi armati di kalasnikov.
Sono dislocati in una via secondaria.
Parlano ad alta voce, si chiamano uno con l'altro.
La telecamera del fotoreporter descrive in modo minuzioso i particolari delle persone: le mani, gli occhi, i volti, i vestiti, le armi.
In sottofondo si sente il rumore dei cingolati dei carri armati israeliani.
Sono piazzati a pochi metri, in una via vicina.
Raffaele Ciriello e l'operatore Norberto Sanna si posizionano sul lato sinistro della strada guardando verso l'incrocio, mentre Amedeo Ricucci è sul lato destro vicino al crocicchio.
Si sentono quattro spari.
Sono i colpi dell'AK47, un kalashnikov di un palestinese.
Passa un minuto e mezzo circa.
In Italia sono le 9,30, le 10,30 nei territori palestinesi.
Il rumore dei tank israeliani diventa ancora più assordante.
Ciriello si sposta leggermente, si sporge pochi centimetri in avanti, l'occhio elettronico si muove di poco.
Ora si trova scoperto, all'angolo di un anonimo edificio irregolare.
Un cecchino israeliano lo inquadra in un mirino dall'alto della torretta di un carro armato. La mitragliatrice coassiale montata sul blindato di fabbricazione americana modello M60A3 spara cinque proiettili calibro 7,62 Nato.
Ciriello cade in terra.
Crolla sulla polvere dell'asfalto.
Sulla sua retina, restano le ultime immagini riprese nel display della sua piccola telecamera digitale.
Solo l'angolo di un muro bianco, scritte in arabo leggermente sfuocate, una balaustra in ferro battuto, ormai arrugginita dal tempo e dall'incuria.
Immagini racchiuse in una inquadratura sbilenca, dal basso, a terra.
Come è andata a finire?
Scrive Israely Defence Forces in risposta alle richieste delle autorità italiane di identificare i responsabili dell'uccisione di Raffaele Ciriello:
“Nonostante l'avvertimento e il divieto, il sig. Raffaelle Ciriello entrava nella zona di combattimento e deliberatamente accompagnava un gruppo di palestinesi armati. Quando questi palestinesi aprivano il fuoco contro un carro armato israeliano, il sig. Ciriello non indossando alcuna insegna che lo identificasse come giornalista si posizionò vicino alla sparatoria al fine di fotografare.”
Nessun errore, nessuna giustizia.
Gang - Vigliacca!
Afghanistan. 19 novembre 2001, le 5,30 del mattino.
Venti giornalisti e fotoreporter sono a bordo di otto veicoli.
Sono taxi, furgoni, fuoristrada, autobus.
Il convoglio parte da Jalalabad e si dirige verso la capitale afghana Kabul.
Nella prima macchina, una Toyota Corolla, alla guida della colonna, ci sono Maria Grazia Cutuli del Corriere della Sera, lo spagnolo Julio Fuentes di El Mundo, l'autista afghano Turyali e il traduttore Muhammad Farooq.
Il secondo mezzo trasporta l'australiano Harry Burton e l'afghano Azizullah Haidari, entrambi corrispondenti dell'agenzia Reuters, l'autista Ashiquallah e il loro interprete Houmayun.
Sulla vettura più vicina viaggiano Wouter Kurpershoev della televisione olandese Nos e Pamela Constable del quotidiano americano Washington Post.
In un' altra sono presenti Jonah Hull e Khaled Kazziha dell'agenzia Associated Press.
Poco più indietro seguono Eduard Sanjuan, Roser Oliver, Cristina Rivas ed Esther Llauradò della TV3 catalana di Barcellona.
Sono giornalisti e operatori di ripresa esperti, inviati di guerra, registi e produttori televisivi, grandi conoscitori della situazione politica e militare afghana.
Nel territorio, si muovono con prudenza e discrezione.
Non sono degli sprovveduti.
Poi si sentono abbastanza sicuri perché lavorano con autisti e interpreti afghani, gente che conosce quei luoghi alla perfezione.
Ma il convoglio non prosegue il cammino in fila indiana, come suggeriscono le regole della sicurezza in vigore nelle zone di guerra, in particolare quelle adottate lungo il cammino da Jalalabad a Kabul.
I reporter a bordo delle sei vetture che precedono quelle di Cutuli, Fuentes, Burton e Haidari, si fermano per riprendere immagini del panorama, fotografare i residuati bellici sovietici sparsi lungo tutta la pista, effettuare i puntamenti dei telefoni satellitari.
Il convoglio si frammenta, poi si spezza.
E questa divisione favorisce i piani degli assassini.
Siamo sul passo di Tang i-Abreshum.
Mancano tre ore di macchina da Kabul.
La pista è tutta gobbe, sassi e polvere.
Il fiume corre 20 metri a strapiombo sotto la strada.
La roccia è chiara con venature rosse.
Non lontano c'è un angolo della montagna.
Due blindati sovietici sfondati e arrugginiti sono ai lati dello sterrato.
Poco prima di un piccolo ponte in pietra e cemento, otto uomini armati bloccano le due vetture che trasportano Fuentes, Cutuli, Burton e Haidari.
I giornalisti vengono fatti scendere dai loro fuoristrada.
Gli assalitori li obbligano ad allontanarsi dal cammino e li spingono verso un' anfratto, proprio nell'angolo della montagna
Maria Grazia Cutuli cade a terra, probabilmente colpita da una pietra lanciata da un bandito.
Poi il commando uccide i quattro inviati con raffiche di mitra AK 47, il micidiale kalashnikov.
Maria Grazia Cutuli del Corriere della Sera, l'australiano Harry Burton e l'afghano Azizullah Haidari dell'agenzia Reuters e lo spagnolo Julio Fuentes del quotidiano El Mundo.
Perché si trovano a bordo di due fuoristrada, lungo la strada che collega Jalalabad alla capitale dell'Afghanistan Kabul?
Perché i quattro giornalisti vengono assassinati?
Perché i killer uccidono quelli che potrebbero essere degli utilissimi ostaggi, con i quali coprirsi la fuga o per i quali contrattare un riscatto miliardario?
Nella loro missione in Afghanistan, quali segreti militari possono aver intercettato?
Compiamo un piccolo passo indietro.
19 novembre 2001.
Lo stesso giorno, sul Corriere della Sera e su El Mundo vengono pubblicati due articoli di Maria Grazia Cutuli e Julio Fuentes.
Nel suo reportage, Maria Grazia Cutuli parla del ritrovamento di un liquido giallo e pastoso, contenuto in venti fiale di vetro, così simili a piccoli termometri.
Per lei si tratta di gas sarin, non vi sono dubbi.
“È una delle sostanze più velenose e letali prodotte in laboratorio. Un gas nervino, un'arma chimica capace di uccidere al solo contatto con la pelle. È stata trovata dal Corriere della Sera e dal quotidiano spagnolo El Mundo dentro uno dei più grandi campi di Osama Bin Laden in Afghanistan, una base abbandonata dopo la frettolosa ritirata dei talebani da Jalalabad. Una scatola intera, forse dimenticata durante la fuga. Oppure lasciata apposta, come segno di avvertimento ai futuri profanatori. L'abbiamo scoperta a Farm Hada. Un posto sperduto in mezzo a una landa rocciosa, a un 'ora di macchina dalla città.“
Gang - Dove vola l'avvoltoio
Nessuno ad oggi ha mai indagato su questa strana coincidenza.
Antonio Russo, freelance di Radio radicale, lavora in regioni di crisi, spesso di guerra.
Sarajevo, Kosovo, Zaire, Algeria.
Le sue inchieste richiedono margini di rischio maggiori di quelli accettati da gran parte dei suoi colleghi.
Ma lui non vuole costruirsi etichette.
Non si iscrive all'albo dei giornalisti, perché intende sentirsi libero da ogni condizionamento.
Non si vuole confondere con “quelli con il culo al caldo”, come ama ripetere.
E sceglie di stare dalla parte dei più bisognosi.
Nel 2000, Antonio Russo si trova in Georgia.
A pochi chilometri, in Cecenia, è in corso la guerra che contrappone la Russia ai guerriglieri secessionisti islamici ceceni che chiedono da tempo autonomia e indipendenza dal Governo centrale di Mosca.
Migliaia di morti tra civili, soldati russi e ribelli.
Mosca è isolata sul piano politico.
In Occidente, arrivano le prime notizie sui massacri di civili e sulle attività repressive organizzate dai russi.
L'operazione si chiama in gergo zaciska, retata.
I soldati russi circondano un quartiere di una città o un villaggio.
Dispongono l'evacuazione degli abitanti, selezionano i potenziali nemici, saccheggiano le case e gli appartamenti.
Alla fine, i miliziani vengono trucidati davanti alle loro abitazioni.
I sospettati sono tradotti nei campi di prigionia, di filtraggio.
In molti non vedranno l'alba.
In silenzio, Antonio Russo raccoglie indizi. A Radio Radicale, racconta l'uso di armi non convenzionali nel conflitto russo-ceceno.
Le cosiddette bombe Vacum:
“I russi hanno bombardato aree e intere regioni. Villaggi rasi al suolo e colpiti con ordigni ad alto potenziale esplosivo. Come abbiamo più volte denunciato da questi microfoni, le bombe si chiamano Vacum perché dopo l'esplosione creano un vuoto. L'area del corridoio di Argun, da dove si può entrare ed uscire in Cecenia, è stata bombardata. A farne le spese sono civili e molti bambini.”
Antonio Russo interviene sul palco improvvisato del convegno sui danni ambientali provocati dalla guerra in Cecenia.
Russo parla del possibile uso dei proiettili all’uranio impoverito.
“Sono stato in molti paesi in guerra: Rwanda, Algeria, Bosnia, Kossovo, così ho acquisto molta esperienza sulla guerra e specialmente sui suoi effetti: che tipo di armi sono solitamente usate e quali sono gli effetti durante e dopo la guerra. Questi studi solo ora stanno partendo a livello di internazionale, analisi degli effetti di guerra: sindromi e problemi ecologici. In situazioni di guerra è molto difficile monitorare quali tipi di armi e gli effetti inquinanti e tutti i sistemi di fare una guerra. Non sappiamo esattamente se vengono usate pallottole con uranio impoverito, usate anche in Kossovo, dove ne sono state utilizzate circa 40.000. Ma noi abbiamo anche notizie che i russi usano queste armi in Cecenia. Sfortunatamente non abbiamo prove, perché è veramente difficile andare in Cecenia e farla monitorare dalla comunità internazionale. Dovremo ritrovarci a lavorare sulle questioni ecologiche in Cecenia e produrre una documentazione che costringa la comunità internazionale a fermare i crimini, non solo genocidi, ma anche problemi ecologici.“
15 ottobre 2000. Antonio Russo viene prelevato dalla sua casa di Tbilisi, imbavagliato, incappucciato con una coperta e legato, portato chissà dove, con ogni probabilità torturato, minacciato con le armi, reso all'impotenza.
16 ottobre 2000. Il corpo senza vita del giornalista viene ritrovato sul ciglio di una strada, lunga meno di 45 Km, che dalla capitale Tbilisi porta al confine con l'Armenia.
A pochi chilometri c'è la base aerea russa di Vasiani: una parte è stata dismessa, ma rimangono 5000 militari.
Dunque, se si proviene da Tbilisi si incontra un posto di controllo della polizia georgiana, il luogo dove viene ritrovato il cadavere di Antonio, infine la base russa, in prossimità della frontiera.
E in ogni base, compresa quella di Vasiani, sono presenti unità militari del FSB, Servizio Federale per la Sicurezza.
Gli agenti del FSB sono in particolare gli eredi del famigerato KGB sovietico.
E la struttura piramidale e verticistica si riproduce sempre dentro e fuori il territorio della Federazione Russa.
I loro funzionari sono di nomina politica e in Russia rispondono direttamente al Presidente Vladimir Putin.
In Cecenia, in quella che Vladimir Putin definisce come operazione antiterrorismo, tutte le strutture sono impegnate nella caccia ai guerriglieri e ai cosiddetti fiancheggiatori.
Solo che ormai i fiancheggiatori sono per l'esercito russo tutto il popolo ceceno.
Nella Repubblica Cecena sono disseminati centinaia di campi di concentramento, dove la gente viene sostanzialmente sterminata.
In questi luoghi di orrore sono passate almeno 40mila persone.
20mila assassinate, 20mila risparmiate dai carnefici dopo lunghi mesi di detenzione, in seguito al pagamento di tangenti agli ufficiali.
Sono fatti documentati dall'Onu, da numerose associazioni internazionali non governative come Human Right Watch e Amnesty International, la russa Memorial. le agenzie di stampa italiane Peace reporter e Peacelink, la francese Federazione Internazionale dei Diritti Umani, FIDH.
Sono indizi trovati dal giornalista Antonio Russo.
Sono prove mostrate ai russi, anni dopo, da Anna Politkovskaja, cronista del quotidiano Novaya Gazeta, uccisa a Mosca il 7 ottobre 2006, dopo essere stata arrestata, torturata, picchiata e minacciata più volte da funzionari dei servizi segreti.
Sono crimini organizzati per conto degli apparati politici del Cremlino.
Gang - Prendere e partire
Quella di Enzo Baldoni è una storia che va raccontata.
Perché è la storia di un grande italiano.
All'attività di pubblicitario ci arriva dopo essere stato muratore in Belgio, scaricatore alle Halles, fotografo di cronaca nera a Sesto San Giovanni, professore di ginnastica, interprete e tecnico di laboratorio chimico.
E' un copy writer straordinario.
Soprattutto ama viaggiare e raccontare.
E' un grande narratore Enzo Baldoni, una penna fluida e dinamica.
Negli anni, Enzo Baldoni è in Messico, Chiapas, nella selva Lacandona, sulle tracce degli zapatisti e del subcomandante Marcos.
Si sposta nelle fogne di Bucarest con il clown Miloud e insegna a bambini già tossicodipendenti a fare i giocolieri.
E' in Birmania durante lo sterminio della minoranza etnica Karen, tra i massacri di Timor Est e le sofferenze degli uomini nel lebbrosario di Kalaupapa, nelle isole Hawai.
Baldoni mangia riso e ranocchi con la portavoce dei ribelli birmani Aye Aye Khing, si perde nella giungla tailandese alla ricerca dei Fratelli Htoo, i gemelli di dodici anni che guidano il cosiddetto Esercito di Dio.
In Colombia raggiunge uno dei principali campi dei guerriglieri delle Farc.
Baldoni intervista una comandante sul cui capo pende una taglia di un milione di dollari.
Poi viene sequestrato da due ragazzini col mitra e si fa liberare dallo stesso capo militare che ordina la sua cattura.
Nell'estate 2004, Baldoni si reca in Iraq per il settimanale “Diario”.
Vuole vedere, documentare, narrare il dramma della popolazione civile, tutto il dramma di una sporca guerra.
Ma Baldoni è anche un volontario della Croce Rossa.
Insieme all'amico autista e interprete Ghareeb, organizza una missione umanitaria a Najaf, la città santa degli sciiti ormai nelle mani di marines e soldati della guardia nazionale irachena.
20 agosto 2004.
Dopo aver consegnato medicinali e generi alimentari, il convoglio umanitario riparte verso Baghdad.
All'altezza di Latifiyah, un attacco armato colpisce alcuni mezzi della Croce Rossa.
La macchina con a bordo Ghareeb e Baldoni ruota su se stessa, passa sulla corsia opposta e si ferma in uno sterrato.
Le altre vetture proseguono la marcia senza fermarsi.
Nessuno soccorre Baldoni e Ghareeb.
E, nella solitudine, vengono bloccati da un gruppo terroristico.
Ghareeb trucidato, Baldoni rapito.
26 agosto 2004.
L'emittente tv Al Jazeera annuncia la morte di Enzo Baldoni.
In quelle ore, la moglie e i figli di Baldoni, insegnano a tutti una grande lezione di vita e di dignità.
Proprio secondo le regole e lo stile di Enzo:
“Enzo non c’è più e nessuno potrà mai più ridarcelo, però è anche qui in mezzo a noi. Enzo andava incontro alla vita con un sorriso, continueremo a farlo per lui. Enzo era innamorato della vita, era un inguaribile ottimista. L’insieme di queste cose germoglierà per il mondo e quelle che ci sono dentro di noi stanno già germogliando. Ora abbiamo bisogno di vivere il nostro dolore. Per questo non faremo altre dichiarazioni, pertanto vi chiediamo di lasciarci soli e di non tornare.”
Ad oggi nessuno ha riconsegnato il corpo senza vita di Enzo Baldoni.
La storia di Zonker termina in Iraq, lungo la strada da Kufa a Baghdad.
Enzo Baldoni Il mio funerale
Stamattina sono stato a un funerale. La cerimonia è andata via liscia e incolore finché alla fine il prete ha detto: "Ora il figlio vuole dire qualche parola".
Il figlio, in dieci minuti, ha tratteggiato un ritratto vivo, affettuoso e vivace del padre. Un ritratto senza sbavature né esagerazioni né cedimenti al sentimentalismo. Ma quei dieci minuti hanno avuto più calore, colore e spessore di tutto il resto della cerimonia. Il papà era ancora lì tra noi, vivo, e questo sarà il ricordo che ne manterremo.
Ordunque, trascurando il fatto che io sono certamente immortale, se per qualche errore del Creatore prima o poi dovesse succedere anche a me di morire - evento verso cui serbo la più tranquilla e sorridente delle disposizioni - ecco le mie istruzioni per l'uso.
La mia bara posata a terra, in un ambiente possibilmente laico, ma va bene anche una chiesa, chi se ne frega. Potrebbe anche essere la Casa delle Balene, se ci sarà già o ci sarà ancora. L'ora? Tardo pomeriggio, verso l'ora dell'aperitivo.
Se non sarà stato possibile recuperare il cadavere perché magari sono sparito in mare (non è una cattiva morte, ci sono stato vicino: ti prende una gran serenità), in uno dei miei viaggi, andrà bene la sedia dove lavoro col mio ritratto sopra.
Verrà data comunicazione, naturalmente per posta elettronica, alla lista EnzoB e a tutte le altre mailing list che avrò all'epoca. Si farà anche un annuncio sui miei blog e su qualsiasi altra diavoleria elettronica verrà inventata nei prossimi cent'anni.
Vorrei che tutti fossero vestiti con abiti allegri e colorati.
Vorrei che, per non più di trenta minuti complessivi, mia moglie, i miei figli, i miei fratelli e miei amici più stretti tracciassero un breve ritratto del caro estinto, coi mezzi che credono: lettera, ricordo, audiovisivo, canzone, poesia, satira, epigramma, haiku. Ci saranno alcune parole tabù che *assolutamente* non dovranno essere pronunciate: dolore, perdita, vuoto incolmabile, padre affettuoso, sposo esemplare, valle di lacrime, non lo dimenticheremo mai, inconsolabile, il mondo è un po' più freddo, sono sempre i migliori che se ne vanno e poi tutti gli eufemismi come si è spento, è scomparso, ci ha lasciati.
Il ritratto migliore sarà quello che strapperà più risate fra il pubblico. Quindi dateci dentro e non risparmiatemi. Tanto non avrete mai veramente idea di tutto quello che ho combinato.
Poi una tenda si scosterà e apparirà un buffet con vino, panini e paninetti, tartine, dolci, pasta al forno, risotti, birra, salsicce e tutto quel che volete. Vorrei l'orchestra degli UNZA, gli zingari di Milano, che cominci a suonare musiche allegre, violini e sax e fisarmoniche. Non mi dispiacerebbe se la gente si mettesse a ballare. Voglio che ognuno versi una goccia di vino sulla bara, che cazzo, mica tutto a voi, in fondo sono io che pago, datene un po' anche a me.
Voglio che si rida - avete notato? Ai funerali si finisce sempre per ridere: è naturale, la vita prende il sopravvento sulla morte - . E si fumi tranquillamente tutto ciò che si vuole. Non mi dispiacerebbe se nascessero nuovi amori. Una sveltina su un soppalco defilato non la considererei un'offesa alla morte, bensì un'offerta alla vita.
Verso le otto o le nove, senza tante cerimonie, la mia bara venga portata via in punta di piedi e avviata al crematorio, mentre la musica e la festa continueranno fino a notte inoltrata.
Le mie ceneri in mare, direi. Ma fate voi, cazzo mi frega."
Gang - Fermiamoli
Ilaria Alpi, Somalia
“Tre lampade a gas a delineare una zona d'atterraggio dai contorni incerti e l'elicottero, un MI8 russo che deve aver conosciuto giorni migliori, si posa a terra nel crepuscolo di questo fazzoletto di Afghanistan del nord, ostaggio dell'intricato groviglio di affluenti dell'Amu Darya, a mezz'ora di volo dalla capitale tajika di Dushanbe.”
Raffaele Ciriello, Afghanistan, intervista al Comandante Massud
“Prima che la guerra riaccendesse i fervori integralisti del'Islam, le donne andavano vestite all'europea, in minigonna addirittura. Mentre ora sfilano senza volto, la maggior parte coperte dalla burka, il velo integrale che nasconde persino gli occhi, dietro una rete a maglie fitte. Le poche che si limitano a portare il velo sui capelli, non sfuggono nemmeno loro ai rigori coranici. L'Islam le vuole silenziose e sottomesse alle decisioni di genitori e mariti, più lontane possibili dai contatti con il mondo esterno.”
Maria Grazia Cutuli, Afghanistan
“E' molto importante fornire documenti, fatti, per costringere la comunità internazionale a lavorare tutti assieme, per fermare la guerra in Cecenia. Questo è il mio problema. Quando capiremo questo sarà il primo grande risultato. Dopo c'è anche l'obiettivo dei problemi ecologici del dopo guerra e della ricostruzione. E' per questo che sono qui, per informare e documentare a livello internazionale quanto succede in Cecenia da circa sei mesi, in Georgia e nell'area del Caucaso, per raccogliere informazioni, trovare prove...”
Antonio Russo, Cecenia
“Bene, ci siamo. Ora vediamo cosa sai fare, vecchio mio. Dietro quest'angolo c'è un carro armato americano. Forse l'equipaggio è nervoso. Forse hanno l'ordine di sparare o forse no, ma noi non lo sappiamo. Non posso togliermi dalla testa quel che è successo all'amico e collega di penna Raffaele Ciriello, ucciso in mezzo alla strada dalla raffica di un mitragliere nervoso quando era di fronte - armato solo di una macchina fotografica - a un Merkava israeliano. Palle fredde. Vediamo che succede.”
Enzo Baldoni, Iraq
Gang - Chi ha ucciso Ilaria Alpi?
La Somalia resta in perenne conflitto.
Opposte fazioni si combattono per il controllo dei traffici illegali e del territorio.
Gli scontri non finiscono.
I gruppi armati attaccano e poi svaniscono nell'ombra.
Il contingente italiano sta ormai abbandonando Mogadiscio e la missione Onu.
In questo scenario, l'inviata del Tg3 Ilaria Alpi organizza la sua settima missione in Somalia.
Con lei c'è Miran Hrovatin, cameraman freelance.
19 marzo 1994.
Ilaria e Miran partono da Bosaso in aereo verso Mogadiscio.
Hanno raccolto interviste, testimonianze e immagini.
Hanno intercettato navi regalate dalla Cooperazione Internazionale alla Somalia che con ogni probabilità trasportano armi e rifiuti tossico nocivi provenienti da alcune aziende italiane.
Ilaria ha intervistato il sultano di Bosaso.
Di sera vuole realizzare un servizio, vuole raccontare tutto agli italiani.
Del resto è una giornalista.
Vede, consuma le suole delle scarpe, racconta, narra e non fa sconti a nessuno, non nasconde ciò che sa.
Alle 15,10, a Mogadiscio scatta l'agguato.
L'auto con a bordo Ilaria Alpi e Miran Hrovatin viene bloccata da una jeep.
L'autista tenta la retromarcia.
Gli assalitori scendono a terra.
Non c'è un vero e proprio scontro a fuoco.
Un proiettile sparato a distanza ravvicinata da un killer sfonda il parabrezza e colpisce Miran alla testa.
Un altro proiettile raggiunge la parte superiore della nuca di Ilaria.
Tutto si svolge in pochi minuti.
Nessun agguato a scopo di sequestro o rapina.
Non c'è dubbio.
E' un'esecuzione.
Invece scattano i depistaggi.
Nessun carabiniere è presente sul posto, nessun militare trasporta i corpi di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin nel Porto vecchio di Mogadiscio.
Nessun investigatore sequestra le armi dell'autista di Ilaria, neppure quelle dell'uomo di scorta.
Per Ilaria Alpi, non viene disposta un'autopsia, soltanto un esame esterno del corpo.
La salma di Miran Hrovatin viene trasferita subito a Trieste.
Non ci sarà mai un accertamento contestuale a quello sul cadavere di Ilaria Alpi.
Ai genitori della reporter viene consegnato con estremo ritardo l'elenco degli effetti personali compilato sulla nave Garibaldi.
Alcune videocassette girate in Somalia spariscono nel nulla: solo sei, riguardanti la guerra civile in Somalia, giungono in Italia con i corpi dei due giornalisti.
Svaniscono nell'ombra anche tre dei cinque taccuini trovati nella stanza di albergo della giornalista.
Cosa c'era scritto nei bloc notes scomparsi di Ilaria Alpi?
Importanti tracce restano negli appunti trovati sulla sua scrivania nella redazione del Tg3, alla Rai di Saxa Rubra:
“1400 miliardi di lire: dove è finita questa impressionante mole di denaro?
Alcune opere come la conceria e il nuovo mattatoio di Mogadiscio sono semplicemente inattivi.
E i coinvolgimenti con la Somalia di Barre prima e poi il privilegiare Aly Mahdi. Accuse di Aideed.
Adesso le accuse non sono finite: la regione centrale di nuovo fuori degli aiuti
Cosa mi può dire del Cefa, di una nave che da quasi un anno doveva partire x la Somalia, che è stata bloccata e alla quale è stato chiesto di scrivere che era coop. una sconfitta. E a Mogadiscio la lotta x il potere è ancora aperta. Una massa di diseredati fa comodo a tutti: sia Ali Mahdi che Aidid hanno i loro buoni motivi x non vedere risolvere il problema. E gli aiuti internazionali seguono le indicazioni dei potenti.”
Tutto chiaro?
Non proprio.
In un paese normale si sarebbero dovute fare indagini accurate, assicurare alla giustizia gli assassini, i loro mandanti.
In Italia no.
In Italia, Carlo Taormina, presidente della commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, ha potuto scrivere queste cose nella sua relazione finale:
“La gente deve sapere che Ilaria Alpi e Miran Hrovatin non erano depositari di alcun segreto nelle materie che un giornalismo d'accatto per dodici anni ha invece tentato di propinare. E' falso che i due giornalisti fossero a conoscenza di cose inenarrabili nei campi della cooperazione, del traffico di armi, del trasporto di rifiuti. I due giornalisti nulla mai hanno saputo e in Somalia, dove si recarono per seguire la partenza del contingente italiano, passarono invece una settimana di vacanze conclusa tragicamente senza ragioni che non fossero quelle di un atto delinquenziale comune.”
Gang - Aprile
Raffaele Ascanio Ciriello, 42 anni, è un fotoreporter.
Gentile, generoso, schivo, riservato quanto basta, Ciriello è un professionista tra i più conosciuti e stimati nel nostro paese, specializzato in reportage di attualità.
Ciriello è un battitore libero e come ogni freelance rischia più di altri colleghi.
Per offrire il suo lavoro a prestigiose testate internazionali, deve ottenere immagini esclusive, spingersi oltre il confine della sua sicurezza personale.
E' una linea sottile: la si può attraversare senza neppure accorgersi, in una frazione di un secondo ci si trova subito dall'altra parte, verso la morte.
27 febbraio 2002, Raffaele Ciriello raggiunge il Medio Oriente.
E' accreditato dal Corriere della Sera.
E' in corso la seconda Intifada, la rivolta dei palestinesi contro l'occupazione israeliana.
Migliaia di morti tra milizie palestinesi, militari israeliani, soprattutto tra civili, donne, vecchi, bambini.
13 marzo 2002, Raffaele Ciriello si trova con un gruppo di giornalisti e fotografi stranieri in piazza Dawar al Manara, nel centro di Ramallah.
La città è avvolta da un silenzio irreale.
Niente macchine, nessun passante, porte e finestre sprangate.
Da lontano, si sente soltanto l'eco della battaglia e il latrato dei cani.
Ciriello non indossa il giubbotto anti proiettile, neppure un elmetto, nemmeno il cartellino con la scritta press.
Porta con se due professionali con obiettivi, una macchina per istantanee, una telecamera palmare.
E con quel minuscolo apparecchio tecnologico digitale, realizza il suo ultimo reportage, la sua morte in diretta.
Il video di Raffaele Ciriello si apre con le immagini di alcuni palestinesi armati di kalasnikov.
Sono dislocati in una via secondaria.
Parlano ad alta voce, si chiamano uno con l'altro.
La telecamera del fotoreporter descrive in modo minuzioso i particolari delle persone: le mani, gli occhi, i volti, i vestiti, le armi.
In sottofondo si sente il rumore dei cingolati dei carri armati israeliani.
Sono piazzati a pochi metri, in una via vicina.
Raffaele Ciriello e l'operatore Norberto Sanna si posizionano sul lato sinistro della strada guardando verso l'incrocio, mentre Amedeo Ricucci è sul lato destro vicino al crocicchio.
Si sentono quattro spari.
Sono i colpi dell'AK47, un kalashnikov di un palestinese.
Passa un minuto e mezzo circa.
In Italia sono le 9,30, le 10,30 nei territori palestinesi.
Il rumore dei tank israeliani diventa ancora più assordante.
Ciriello si sposta leggermente, si sporge pochi centimetri in avanti, l'occhio elettronico si muove di poco.
Ora si trova scoperto, all'angolo di un anonimo edificio irregolare.
Un cecchino israeliano lo inquadra in un mirino dall'alto della torretta di un carro armato. La mitragliatrice coassiale montata sul blindato di fabbricazione americana modello M60A3 spara cinque proiettili calibro 7,62 Nato.
Ciriello cade in terra.
Crolla sulla polvere dell'asfalto.
Sulla sua retina, restano le ultime immagini riprese nel display della sua piccola telecamera digitale.
Solo l'angolo di un muro bianco, scritte in arabo leggermente sfuocate, una balaustra in ferro battuto, ormai arrugginita dal tempo e dall'incuria.
Immagini racchiuse in una inquadratura sbilenca, dal basso, a terra.
Come è andata a finire?
Scrive Israely Defence Forces in risposta alle richieste delle autorità italiane di identificare i responsabili dell'uccisione di Raffaele Ciriello:
“Nonostante l'avvertimento e il divieto, il sig. Raffaelle Ciriello entrava nella zona di combattimento e deliberatamente accompagnava un gruppo di palestinesi armati. Quando questi palestinesi aprivano il fuoco contro un carro armato israeliano, il sig. Ciriello non indossando alcuna insegna che lo identificasse come giornalista si posizionò vicino alla sparatoria al fine di fotografare.”
Nessun errore, nessuna giustizia.
Gang - Vigliacca!
Afghanistan. 19 novembre 2001, le 5,30 del mattino.
Venti giornalisti e fotoreporter sono a bordo di otto veicoli.
Sono taxi, furgoni, fuoristrada, autobus.
Il convoglio parte da Jalalabad e si dirige verso la capitale afghana Kabul.
Nella prima macchina, una Toyota Corolla, alla guida della colonna, ci sono Maria Grazia Cutuli del Corriere della Sera, lo spagnolo Julio Fuentes di El Mundo, l'autista afghano Turyali e il traduttore Muhammad Farooq.
Il secondo mezzo trasporta l'australiano Harry Burton e l'afghano Azizullah Haidari, entrambi corrispondenti dell'agenzia Reuters, l'autista Ashiquallah e il loro interprete Houmayun.
Sulla vettura più vicina viaggiano Wouter Kurpershoev della televisione olandese Nos e Pamela Constable del quotidiano americano Washington Post.
In un' altra sono presenti Jonah Hull e Khaled Kazziha dell'agenzia Associated Press.
Poco più indietro seguono Eduard Sanjuan, Roser Oliver, Cristina Rivas ed Esther Llauradò della TV3 catalana di Barcellona.
Sono giornalisti e operatori di ripresa esperti, inviati di guerra, registi e produttori televisivi, grandi conoscitori della situazione politica e militare afghana.
Nel territorio, si muovono con prudenza e discrezione.
Non sono degli sprovveduti.
Poi si sentono abbastanza sicuri perché lavorano con autisti e interpreti afghani, gente che conosce quei luoghi alla perfezione.
Ma il convoglio non prosegue il cammino in fila indiana, come suggeriscono le regole della sicurezza in vigore nelle zone di guerra, in particolare quelle adottate lungo il cammino da Jalalabad a Kabul.
I reporter a bordo delle sei vetture che precedono quelle di Cutuli, Fuentes, Burton e Haidari, si fermano per riprendere immagini del panorama, fotografare i residuati bellici sovietici sparsi lungo tutta la pista, effettuare i puntamenti dei telefoni satellitari.
Il convoglio si frammenta, poi si spezza.
E questa divisione favorisce i piani degli assassini.
Siamo sul passo di Tang i-Abreshum.
Mancano tre ore di macchina da Kabul.
La pista è tutta gobbe, sassi e polvere.
Il fiume corre 20 metri a strapiombo sotto la strada.
La roccia è chiara con venature rosse.
Non lontano c'è un angolo della montagna.
Due blindati sovietici sfondati e arrugginiti sono ai lati dello sterrato.
Poco prima di un piccolo ponte in pietra e cemento, otto uomini armati bloccano le due vetture che trasportano Fuentes, Cutuli, Burton e Haidari.
I giornalisti vengono fatti scendere dai loro fuoristrada.
Gli assalitori li obbligano ad allontanarsi dal cammino e li spingono verso un' anfratto, proprio nell'angolo della montagna
Maria Grazia Cutuli cade a terra, probabilmente colpita da una pietra lanciata da un bandito.
Poi il commando uccide i quattro inviati con raffiche di mitra AK 47, il micidiale kalashnikov.
Maria Grazia Cutuli del Corriere della Sera, l'australiano Harry Burton e l'afghano Azizullah Haidari dell'agenzia Reuters e lo spagnolo Julio Fuentes del quotidiano El Mundo.
Perché si trovano a bordo di due fuoristrada, lungo la strada che collega Jalalabad alla capitale dell'Afghanistan Kabul?
Perché i quattro giornalisti vengono assassinati?
Perché i killer uccidono quelli che potrebbero essere degli utilissimi ostaggi, con i quali coprirsi la fuga o per i quali contrattare un riscatto miliardario?
Nella loro missione in Afghanistan, quali segreti militari possono aver intercettato?
Compiamo un piccolo passo indietro.
19 novembre 2001.
Lo stesso giorno, sul Corriere della Sera e su El Mundo vengono pubblicati due articoli di Maria Grazia Cutuli e Julio Fuentes.
Nel suo reportage, Maria Grazia Cutuli parla del ritrovamento di un liquido giallo e pastoso, contenuto in venti fiale di vetro, così simili a piccoli termometri.
Per lei si tratta di gas sarin, non vi sono dubbi.
“È una delle sostanze più velenose e letali prodotte in laboratorio. Un gas nervino, un'arma chimica capace di uccidere al solo contatto con la pelle. È stata trovata dal Corriere della Sera e dal quotidiano spagnolo El Mundo dentro uno dei più grandi campi di Osama Bin Laden in Afghanistan, una base abbandonata dopo la frettolosa ritirata dei talebani da Jalalabad. Una scatola intera, forse dimenticata durante la fuga. Oppure lasciata apposta, come segno di avvertimento ai futuri profanatori. L'abbiamo scoperta a Farm Hada. Un posto sperduto in mezzo a una landa rocciosa, a un 'ora di macchina dalla città.“
Gang - Dove vola l'avvoltoio
Nessuno ad oggi ha mai indagato su questa strana coincidenza.
Antonio Russo, freelance di Radio radicale, lavora in regioni di crisi, spesso di guerra.
Sarajevo, Kosovo, Zaire, Algeria.
Le sue inchieste richiedono margini di rischio maggiori di quelli accettati da gran parte dei suoi colleghi.
Ma lui non vuole costruirsi etichette.
Non si iscrive all'albo dei giornalisti, perché intende sentirsi libero da ogni condizionamento.
Non si vuole confondere con “quelli con il culo al caldo”, come ama ripetere.
E sceglie di stare dalla parte dei più bisognosi.
Nel 2000, Antonio Russo si trova in Georgia.
A pochi chilometri, in Cecenia, è in corso la guerra che contrappone la Russia ai guerriglieri secessionisti islamici ceceni che chiedono da tempo autonomia e indipendenza dal Governo centrale di Mosca.
Migliaia di morti tra civili, soldati russi e ribelli.
Mosca è isolata sul piano politico.
In Occidente, arrivano le prime notizie sui massacri di civili e sulle attività repressive organizzate dai russi.
L'operazione si chiama in gergo zaciska, retata.
I soldati russi circondano un quartiere di una città o un villaggio.
Dispongono l'evacuazione degli abitanti, selezionano i potenziali nemici, saccheggiano le case e gli appartamenti.
Alla fine, i miliziani vengono trucidati davanti alle loro abitazioni.
I sospettati sono tradotti nei campi di prigionia, di filtraggio.
In molti non vedranno l'alba.
In silenzio, Antonio Russo raccoglie indizi. A Radio Radicale, racconta l'uso di armi non convenzionali nel conflitto russo-ceceno.
Le cosiddette bombe Vacum:
“I russi hanno bombardato aree e intere regioni. Villaggi rasi al suolo e colpiti con ordigni ad alto potenziale esplosivo. Come abbiamo più volte denunciato da questi microfoni, le bombe si chiamano Vacum perché dopo l'esplosione creano un vuoto. L'area del corridoio di Argun, da dove si può entrare ed uscire in Cecenia, è stata bombardata. A farne le spese sono civili e molti bambini.”
Antonio Russo interviene sul palco improvvisato del convegno sui danni ambientali provocati dalla guerra in Cecenia.
Russo parla del possibile uso dei proiettili all’uranio impoverito.
“Sono stato in molti paesi in guerra: Rwanda, Algeria, Bosnia, Kossovo, così ho acquisto molta esperienza sulla guerra e specialmente sui suoi effetti: che tipo di armi sono solitamente usate e quali sono gli effetti durante e dopo la guerra. Questi studi solo ora stanno partendo a livello di internazionale, analisi degli effetti di guerra: sindromi e problemi ecologici. In situazioni di guerra è molto difficile monitorare quali tipi di armi e gli effetti inquinanti e tutti i sistemi di fare una guerra. Non sappiamo esattamente se vengono usate pallottole con uranio impoverito, usate anche in Kossovo, dove ne sono state utilizzate circa 40.000. Ma noi abbiamo anche notizie che i russi usano queste armi in Cecenia. Sfortunatamente non abbiamo prove, perché è veramente difficile andare in Cecenia e farla monitorare dalla comunità internazionale. Dovremo ritrovarci a lavorare sulle questioni ecologiche in Cecenia e produrre una documentazione che costringa la comunità internazionale a fermare i crimini, non solo genocidi, ma anche problemi ecologici.“
15 ottobre 2000. Antonio Russo viene prelevato dalla sua casa di Tbilisi, imbavagliato, incappucciato con una coperta e legato, portato chissà dove, con ogni probabilità torturato, minacciato con le armi, reso all'impotenza.
16 ottobre 2000. Il corpo senza vita del giornalista viene ritrovato sul ciglio di una strada, lunga meno di 45 Km, che dalla capitale Tbilisi porta al confine con l'Armenia.
A pochi chilometri c'è la base aerea russa di Vasiani: una parte è stata dismessa, ma rimangono 5000 militari.
Dunque, se si proviene da Tbilisi si incontra un posto di controllo della polizia georgiana, il luogo dove viene ritrovato il cadavere di Antonio, infine la base russa, in prossimità della frontiera.
E in ogni base, compresa quella di Vasiani, sono presenti unità militari del FSB, Servizio Federale per la Sicurezza.
Gli agenti del FSB sono in particolare gli eredi del famigerato KGB sovietico.
E la struttura piramidale e verticistica si riproduce sempre dentro e fuori il territorio della Federazione Russa.
I loro funzionari sono di nomina politica e in Russia rispondono direttamente al Presidente Vladimir Putin.
In Cecenia, in quella che Vladimir Putin definisce come operazione antiterrorismo, tutte le strutture sono impegnate nella caccia ai guerriglieri e ai cosiddetti fiancheggiatori.
Solo che ormai i fiancheggiatori sono per l'esercito russo tutto il popolo ceceno.
Nella Repubblica Cecena sono disseminati centinaia di campi di concentramento, dove la gente viene sostanzialmente sterminata.
In questi luoghi di orrore sono passate almeno 40mila persone.
20mila assassinate, 20mila risparmiate dai carnefici dopo lunghi mesi di detenzione, in seguito al pagamento di tangenti agli ufficiali.
Sono fatti documentati dall'Onu, da numerose associazioni internazionali non governative come Human Right Watch e Amnesty International, la russa Memorial. le agenzie di stampa italiane Peace reporter e Peacelink, la francese Federazione Internazionale dei Diritti Umani, FIDH.
Sono indizi trovati dal giornalista Antonio Russo.
Sono prove mostrate ai russi, anni dopo, da Anna Politkovskaja, cronista del quotidiano Novaya Gazeta, uccisa a Mosca il 7 ottobre 2006, dopo essere stata arrestata, torturata, picchiata e minacciata più volte da funzionari dei servizi segreti.
Sono crimini organizzati per conto degli apparati politici del Cremlino.
Gang - Prendere e partire
Quella di Enzo Baldoni è una storia che va raccontata.
Perché è la storia di un grande italiano.
All'attività di pubblicitario ci arriva dopo essere stato muratore in Belgio, scaricatore alle Halles, fotografo di cronaca nera a Sesto San Giovanni, professore di ginnastica, interprete e tecnico di laboratorio chimico.
E' un copy writer straordinario.
Soprattutto ama viaggiare e raccontare.
E' un grande narratore Enzo Baldoni, una penna fluida e dinamica.
Negli anni, Enzo Baldoni è in Messico, Chiapas, nella selva Lacandona, sulle tracce degli zapatisti e del subcomandante Marcos.
Si sposta nelle fogne di Bucarest con il clown Miloud e insegna a bambini già tossicodipendenti a fare i giocolieri.
E' in Birmania durante lo sterminio della minoranza etnica Karen, tra i massacri di Timor Est e le sofferenze degli uomini nel lebbrosario di Kalaupapa, nelle isole Hawai.
Baldoni mangia riso e ranocchi con la portavoce dei ribelli birmani Aye Aye Khing, si perde nella giungla tailandese alla ricerca dei Fratelli Htoo, i gemelli di dodici anni che guidano il cosiddetto Esercito di Dio.
In Colombia raggiunge uno dei principali campi dei guerriglieri delle Farc.
Baldoni intervista una comandante sul cui capo pende una taglia di un milione di dollari.
Poi viene sequestrato da due ragazzini col mitra e si fa liberare dallo stesso capo militare che ordina la sua cattura.
Nell'estate 2004, Baldoni si reca in Iraq per il settimanale “Diario”.
Vuole vedere, documentare, narrare il dramma della popolazione civile, tutto il dramma di una sporca guerra.
Ma Baldoni è anche un volontario della Croce Rossa.
Insieme all'amico autista e interprete Ghareeb, organizza una missione umanitaria a Najaf, la città santa degli sciiti ormai nelle mani di marines e soldati della guardia nazionale irachena.
20 agosto 2004.
Dopo aver consegnato medicinali e generi alimentari, il convoglio umanitario riparte verso Baghdad.
All'altezza di Latifiyah, un attacco armato colpisce alcuni mezzi della Croce Rossa.
La macchina con a bordo Ghareeb e Baldoni ruota su se stessa, passa sulla corsia opposta e si ferma in uno sterrato.
Le altre vetture proseguono la marcia senza fermarsi.
Nessuno soccorre Baldoni e Ghareeb.
E, nella solitudine, vengono bloccati da un gruppo terroristico.
Ghareeb trucidato, Baldoni rapito.
26 agosto 2004.
L'emittente tv Al Jazeera annuncia la morte di Enzo Baldoni.
In quelle ore, la moglie e i figli di Baldoni, insegnano a tutti una grande lezione di vita e di dignità.
Proprio secondo le regole e lo stile di Enzo:
“Enzo non c’è più e nessuno potrà mai più ridarcelo, però è anche qui in mezzo a noi. Enzo andava incontro alla vita con un sorriso, continueremo a farlo per lui. Enzo era innamorato della vita, era un inguaribile ottimista. L’insieme di queste cose germoglierà per il mondo e quelle che ci sono dentro di noi stanno già germogliando. Ora abbiamo bisogno di vivere il nostro dolore. Per questo non faremo altre dichiarazioni, pertanto vi chiediamo di lasciarci soli e di non tornare.”
Ad oggi nessuno ha riconsegnato il corpo senza vita di Enzo Baldoni.
La storia di Zonker termina in Iraq, lungo la strada da Kufa a Baghdad.
Enzo Baldoni Il mio funerale
Stamattina sono stato a un funerale. La cerimonia è andata via liscia e incolore finché alla fine il prete ha detto: "Ora il figlio vuole dire qualche parola".
Il figlio, in dieci minuti, ha tratteggiato un ritratto vivo, affettuoso e vivace del padre. Un ritratto senza sbavature né esagerazioni né cedimenti al sentimentalismo. Ma quei dieci minuti hanno avuto più calore, colore e spessore di tutto il resto della cerimonia. Il papà era ancora lì tra noi, vivo, e questo sarà il ricordo che ne manterremo.
Ordunque, trascurando il fatto che io sono certamente immortale, se per qualche errore del Creatore prima o poi dovesse succedere anche a me di morire - evento verso cui serbo la più tranquilla e sorridente delle disposizioni - ecco le mie istruzioni per l'uso.
La mia bara posata a terra, in un ambiente possibilmente laico, ma va bene anche una chiesa, chi se ne frega. Potrebbe anche essere la Casa delle Balene, se ci sarà già o ci sarà ancora. L'ora? Tardo pomeriggio, verso l'ora dell'aperitivo.
Se non sarà stato possibile recuperare il cadavere perché magari sono sparito in mare (non è una cattiva morte, ci sono stato vicino: ti prende una gran serenità), in uno dei miei viaggi, andrà bene la sedia dove lavoro col mio ritratto sopra.
Verrà data comunicazione, naturalmente per posta elettronica, alla lista EnzoB e a tutte le altre mailing list che avrò all'epoca. Si farà anche un annuncio sui miei blog e su qualsiasi altra diavoleria elettronica verrà inventata nei prossimi cent'anni.
Vorrei che tutti fossero vestiti con abiti allegri e colorati.
Vorrei che, per non più di trenta minuti complessivi, mia moglie, i miei figli, i miei fratelli e miei amici più stretti tracciassero un breve ritratto del caro estinto, coi mezzi che credono: lettera, ricordo, audiovisivo, canzone, poesia, satira, epigramma, haiku. Ci saranno alcune parole tabù che *assolutamente* non dovranno essere pronunciate: dolore, perdita, vuoto incolmabile, padre affettuoso, sposo esemplare, valle di lacrime, non lo dimenticheremo mai, inconsolabile, il mondo è un po' più freddo, sono sempre i migliori che se ne vanno e poi tutti gli eufemismi come si è spento, è scomparso, ci ha lasciati.
Il ritratto migliore sarà quello che strapperà più risate fra il pubblico. Quindi dateci dentro e non risparmiatemi. Tanto non avrete mai veramente idea di tutto quello che ho combinato.
Poi una tenda si scosterà e apparirà un buffet con vino, panini e paninetti, tartine, dolci, pasta al forno, risotti, birra, salsicce e tutto quel che volete. Vorrei l'orchestra degli UNZA, gli zingari di Milano, che cominci a suonare musiche allegre, violini e sax e fisarmoniche. Non mi dispiacerebbe se la gente si mettesse a ballare. Voglio che ognuno versi una goccia di vino sulla bara, che cazzo, mica tutto a voi, in fondo sono io che pago, datene un po' anche a me.
Voglio che si rida - avete notato? Ai funerali si finisce sempre per ridere: è naturale, la vita prende il sopravvento sulla morte - . E si fumi tranquillamente tutto ciò che si vuole. Non mi dispiacerebbe se nascessero nuovi amori. Una sveltina su un soppalco defilato non la considererei un'offesa alla morte, bensì un'offerta alla vita.
Verso le otto o le nove, senza tante cerimonie, la mia bara venga portata via in punta di piedi e avviata al crematorio, mentre la musica e la festa continueranno fino a notte inoltrata.
Le mie ceneri in mare, direi. Ma fate voi, cazzo mi frega."
Gang - Fermiamoli
envoyé par DonQuijote82 - 28/9/2012 - 13:31
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Testo reperito in questa pagina del sito di Daniele Biacchessi