Tiziano Terzani: Lettera da Firenze - Lettera dall'Himalaya
LA CCG NUMERO 4000 / AWS NUMBER 4000Language: Italian
LETTERA DA FIRENZE
Il sultano e san Francesco
Firenze, 4 ottobre 2001
ORIANA,
dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa, quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri già grande e tu proponesti di scambiarci delle "Lettere da due mondi diversi": io dalla Cina dell'immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall'America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma è in nome di quella tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti. Davvero mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l'impressione di stare in un mondo assolutamente diverso dal tuo.
Ti scrivo anche - e pubblicamente per questo - per non far sentire troppo soli quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal crollo delle due Torri. Là morivano migliaia di persone, e con loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana, la ragione; il meglio del cuore, la compassione.
Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. "Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia", scrisse, disperato del fatto che, dinanzi all'indicibile orrore della prima guerra mondiale, alla gente non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui usò di quel consapevole silenzio per scrivere Gli ultimi giorni dell'umanità, un'opera che sembra essere ancora di un'inquietante attualità.
Pensare quel che pensi e scriverlo è un tuo diritto. Il problema è però che, grazie alla tua notorietà, la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani, e questo mi inquieta.
Il nostro di ora è un momento di straordinaria importanza. L'orrore indicibile è appena cominciato, ma è ancora possibile fermarlo facendo di questo momento una grande occasione di ripensamento. È un momento anche di enorme responsabilità perché certe concitate parole, pronunciate dalle lingue sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti più bassi, ad aizzare la bestia dell'odio che dorme in ognuno di noi e a provocare quella cecità delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e l'uccidere.
"Conquistare le passioni mi pare di gran lunga più diffìcile che conquistare il mondo con la forza delle armi. Ho ancora un diffìcile cammino dinanzi a me", scriveva nel 1925 quella bell'anima di Gandhi. E aggiungeva: "Finché l'uomo non si metterà di sua volontà all'ultimo posto fra le altre creature sulla terra, non ci sarà per lui alcuna salvezza".
E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di offrirci salvezza? La salvezza non è nella tua rabbia accalorata, ne nella calcolata campagna militare chiamata, tanto per rendercela più accettabile, "Libertà duratura". O tu pensi davvero che la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo è mondo non c'è stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sarà nemmeno questa.
Quel che ci sta succedendo è nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. È una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d'aver davanti prima dell'11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilità di nulla, tanto meno all'inevitabilità della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta.
Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rende sempre più tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, compresa quella atomica, come propone il segretario alla Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, quali che siano, saranno ancor più determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor più terribile violenza - prima in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguirà necessariamente una loro ancora più orribile e poi un'altra nostra e così via.
Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile e interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari "intelligente", di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui. Cambiamo illusione e, tanto per cominciare, chiediamo a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche e armi batteriologiche - Stati Uniti in testa - d'impegnarsi solennemente con tutta l'umanità a non usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la disponibilità. Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo questo darebbe a chi lo fa un vantaggio morale - di per sé un'arma importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l'orrore indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta.
In questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro, uscito due anni fa in Germania (peccato che non sia ancora tradotto in italiano), di un vecchio amico. Il libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werden: ethische Politik von Sokrates bis Mozart (L'arte di non essere governati: l'etica politica da Socrate a Mozart). L'autore è Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima di tornare all'università di Berlino. L'affascinante tesi di Krippendorff è che la politica, nella sua espressione più nobile, nasce dal superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici più profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a ricordare all'uomo la necessità di rompere il circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civiltà. Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino - un marchio che è anche una protezione -, lo condanna all'esilio dove quello fonda la prima città [Secondo una leggenda afghana, quella città è Kabul (N.d.A)]. La vendetta non è degli uomini, spetta a Dio.
Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella formazione dell'uomo occidentale perché col suo mettere sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti e le sue possibili scelte di azione, è servito a far riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilità della violenza che non raggiunge mai il suo fine.
Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo i soli protagonisti e i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni e i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore. Il mondo degli altri non viene mai rappresentato.
A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto, invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle Tigri Tamil, votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di Hamas che si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po' di pietà sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone, sull'isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero addestrati, e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l'imperatore.
I kamikaze mi interessano perché vorrei capire che cosa li rende così disposti a quell'innaturale atto che è il suicidio e che cosa potrebbe fermarli. Quelli di noi a cui i figli - fortunatamente - sono nati, per cui non dobbiamo scrivere loro lettere postume, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l'ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio. Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perché io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali.
Niente nella storia umana è semplice da spiegare e tra un fatto ed un altro c'è raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, è il risultato di migliaia di cause che producono, assieme a quell'evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di altre migliaia di effetti. L'attacco alle Torri Gemelle è uno di questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non è l'atto di "una guerra di religione" degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non è neppure "un attacco alla libertà ed alla democrazia occidentale", come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici.
Un vecchio accademico della Berkeley University, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse, dà di questa storia una interpretazione completamente diversa. "Gli assassini suicidi dell'11 settembre non hanno attaccato l'America: hanno attaccato la politica estera americana", scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation uscito in ottobre. Per lui, autore di vari libri - l'ultimo, Blowback (Contraccolpo), uscito l'anno scorso, ha del profetico -, si tratterebbe appunto di un ennesimo "contraccolpo" al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell'Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo.
Con un'analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della disinformazione del KGB, Chalmers Johnson fa l'elenco di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassini e degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi.
Il "contraccolpo" dell'attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla CIA contro Mossadeq nel 1953, seguito dall'installazione dello Shah in Iran, alla guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in particolare l'Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell'Islam. Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana "a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico". Così si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti e i loro alleati.
Esatta o meno che sia l'analisi di Chalmers Johnson, è evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c'è, a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi "amici", quali che siano, le riserve petrolifere della regione. Questa è una trappola. L'occasione per uscirne è ora. Perché non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perché non studiamo davvero, come avremmo potuto già fare da una ventina d'anni, tutte le possibili fonti alternative di energia?
Ci eviteremmo così d'essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi e odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre più disastrosi "contraccolpi" che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta. Magari salviamo così anche l'Alaska che proprio un paio di mesi fa è stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche - tutti lo sanno - sono fra i petrolieri.
A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull'Afghanistan in questi giorni, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo paese è legato al fatto d'essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura voglia portare le immense risorse di metano e petrolio dell'Asia centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l'India e da lì nei paesi del Sud-Est asiatico. Il tutto senza dover passare dall'Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli "orribili" talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente meno che di Henry Kissinger, si è impegnata col Turkmenistan a costruire quell'oleodotto attraverso l'Afghanistan. È dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessità di proteggere la libertà e la democrazia, l'imminente attacco contro l'Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti.
È per questo che nell'America stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell'industria petrolifera e quelli dell'industria bellica - combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington - finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare all'interno del paese, in ragione dell'emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie libertà che rendono l'America così particolare.
Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l'aggettivo "codardi", usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, così come la censura di certi programmi e l'allontanamento da alcuni giornali di collaboratori giudicati non ortodossi, ha ovviamente aumentato queste preoccupazioni.
L'aver diviso il mondo in maniera - mi pare - "talebana", fra "quelli che stanno con noi e quelli contro di noi", crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l'America ha già sofferto negli anni '50 col maccartismo, quando tanti intellettuali, funzionari di Stato e accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro.
Il tuo attacco, Oriana - anche a colpi di sputo -, alle "cicale" e agli intellettuali "del dubbio" va in quello stesso senso. Dubitare è una funzione essenziale del pensiero; il dubbio è il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste è come volere togliere l'aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d'aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande. In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace.
Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo "ufficiale" della politica e dell'establishment mediatico, c'è stata una disperante corsa alla ortodossia. È come se l'America ci mettesse già paura. Capita così di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito che il soldato Ryan è un importante simbolo di quell'America che per due volte ci ha salvato. Ma non c'era anche lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam?
Per i politici - me ne rendo conto - è un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor più l'angoscia di qualcuno come il nostro presidente del Consiglio che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni, si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civiltà combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici.
Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e, non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente. Ma questo ci impone anche grandi responsabilità come quella, non facile, di andare dietro alla verità e di dedicarci soprattutto "a creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia", come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli attentati in America.
Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che è complicato. Ma non si può esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del terrorismo e indicando le comunità di immigrati musulmani da noi come incubatrici di terroristi. Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore, ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori?
Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che cosa è l'Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprezzato Omar Khayyam? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l'arabo, oltre ai tanti che già studiano l'inglese e magari il giapponese? Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente è, come capita da noi, console ad Adelaide, in Australia.
Mi frulla in testa una frase di Toynbee: "Le opere di artisti e letterati hanno vita più lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti e i filosofi vanno più in là degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di più di tutti gli altri messi assieme".
Dove sono oggi i santi e i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un san Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo interesse era per "gli altri", per quelli contro i quali combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provò una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufragò e lui si salvò a malapena. Ci provò una seconda volta, ma si ammalò prima di arrivare e torno indietro. Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l'assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal comportamento dei crociati ("vide il male ed il peccato"), sconvolto dalla vista dei morti sul campo di battaglia, san Francesco attraversò le linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del sultano. Peccato che non ci fosse ancora la CNN - era il 1219 -, perché sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell'incontro. Certo fu particolarissimo perché, dopo una chiacchierata che probabilmente andò avanti nella notte, al mattino il sultano lasciò che san Francesco tornasse, incolume, all'accampamento dei crociati.
Mi diverte pensare che l'uno disse all'altro le sue ragioni, che san Francesco parlò di Cristo, che il sultano lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono d'accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque: "Ama il prossimo tuo come te stesso". Mi diverte anche immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressività e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la storia.
Ma oggi? Non fermarla può voler dire farla finire. Ti ricordi, Oriana, padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riferendosi all'orrore dell'olocausto atomico pose una bella domanda: "La sindrome da fine del mondo, l'alternativa fra essere e non essere hanno fatto diventare l'uomo più umano? "A guardarsi intorno la risposta mi pare debba essere "no". Ma non possiamo rinunciare alla speranza.
"Mi dica, che cosa spinge l'uomo alla guerra?" chiedeva Albert Einstein nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. "È possibile dirigere l'evoluzione psichica dell'uomo in modo che egli diventi più capace di resistere alla psicosi dell'odio e della distruzione?"
Freud si prese due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu che c'era da sperare: due fattori - un atteggiamento più civile e il giustificato timore degli effetti di una guerra futura - avrebbero influito a mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire.
La morte risparmiò a Freud giusto in tempo gli orrori della seconda guerra mondiale. Non li risparmiò invece ad Einstein, che divenne però sempre più convinto della necessità del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse all'umanità un ultimo appello per la sua sopravvivenza: "Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il resto".
Per difendersi, Oriana, non c'è bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi e ai tuoi calci). Per proteggersi non c'è bisogno d'ammazzare. Ed anche in questo possono esserci delle giuste eccezioni. M'è sempre piaciuta nei Jataka, le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome della non-violenza, in una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad altre 500 persone. Lui, che ha già i poteri della preveggenza, "vede" che uno dei passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli, e lui lo previene buttandolo nell'acqua. Il brigante affoga e gli altri sono salvi.
Essere contro la pena di morte non vuoi dire essere contro la pena in genere e in favore della libertà di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto dell'incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al tribunale di Norimberga; quelli giapponesi, responsabili di tutte le atrocità commesse in Asia, furono portati dinanzi al tribunale di Tokyo prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama bin Laden?
"Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate", scrive in questi giorni dall'India agli americani, ovviamente a mo' di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice di II Dio delle piccole cose: una come te, Oriana, famosa e contestata, amata e odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi a un tribunale indiano il presidente americano della Union Carbide, responsabile dell'esplosione che nel 1984, nella fabbrica chimica di Bhopal, in India, fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse sì.
Il terrorista che ora ci viene additato come il "nemico" da abbattere è il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell'Afghanistan, ordina l'attacco alle Torri Gemelle; è l'ingegnere-pilota, islamico fanatico, che in nome di Allah uccide sé stesso e migliaia di innocenti; è il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo a una folla.
Dobbiamo però accettare che per altri il "terrorista" possa essere l'uomo d'affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione e inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui è più conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci più i campi per far crescere il riso la gente muore di fame?
Questo non è relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, può esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sarà difficile arrivare a una definizione comune del nemico da debellare.
I governi occidentali oggi sono uniti nell'essere a fianco degli Stati Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi e come vanno combattuti. Molto meno convinti sembrano invece i cittadini dei vari paesi. Per il momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di massa per la pace; ma il senso del disagio è diffuso, così come è diffusa la confusione su quel che si debba volere al posto della guerra. "Dateci qualcosa di più carino del capitalismo", diceva il cartello di un dimostrante in Germania. " Un mondo giusto non è mai NATO", c'era scritto sullo striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Già. Un mondo "più giusto" è forse quel che noi tutti, ora più che mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto si preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto da princìpi di legalità e ispirato ad un po' più di moralità.
La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo perché ora tornano comodi, è solo l'ennesimo esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta il terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi.
Gli Stati Uniti, per avere la maggiore copertura possibile e per dare alla guerra contro il terrorismo un crisma di legalità internazionale, hanno coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il paese più reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese che non ha ancora ratificato né il trattato costitutivo della Corte Internazionale di Giustizia né il trattato per la messa al bando delle mine anti-uomo, e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche.
L'interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per questo ora Washington riscopre l'utilità del Pakistan, prima tenuto a distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la CIA sarà presto autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i "lavoretti sporchi" di liquidare qua e là nel mondo le persone che la CIA stessa metterà sulla sua lista nera.
Eppure un giorno la politica dovrà ricongiungersi con l'etica se vorremo vivere in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a Timbuktu come a Firenze.
A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo, questa città mi fa male e mi intristisce. Tutto è cambiato, tutto è involgarito. Ma la colpa non è dell'Islam o degli immigrati che vi si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una città bottegaia, prostituita al turismo! È successo dappertutto. Firenze era bella quando era più piccola e più povera. Ora è un obbrobrio, ma non perché i musulmani si attendano in piazza del Duomo, perché i filippini si riuniscono il giovedì in piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla stazione. È così perché anche Firenze s'è "globalizzata", perché non ha resistito all'assalto di quella forza che, fino a ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato.
Nel giro di due anni da una bella strada del centro, via Tornabuoni, in cui fin da ragazzo mi piaceva andare a spasso, sono scomparsi una libreria storica, un vecchio bar, una tradizionalissima farmacia e un negozio di musica. Per far posto a che? A tanti negozi di moda. Credimi, anch'io non mi ci ritrovo più.
Per questo sto, anch'io ritirato, in una sorta di baita nell'Himalaya indiana dinanzi alle più divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, lì maestose ed immobili, simbolo della più grande stabilità, eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto nell'universo. La natura è una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto più grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono più. Guarda un filo d'erba al vento e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia.
Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace. Perché se quella non è dentro di noi non sarà mai da nessuna parte.
*
LETTERA DALL'HIMALAYA
Che fare?
Nell'Himalaya indiana, 17 gennaio 2002
Mi piace essere in un corpo che ormai invecchia. Posso guardare le montagne senza il desiderio di scalarle. Quand'ero giovane le avrei volute conquistare. Ora posso lasciarmi conquistare da loro. Le montagne, come il mare, ricordano una misura di grandezza dalla quale l'uomo si sente ispirato, sollevato. Quella stessa grandezza è anche in ognuno di noi, ma lì ci è diffìcile riconoscerla. Per questo siamo attratti dalle montagne. Per questo, attraverso i secoli, tantissimi uomini e donne sono venuti quassù nell'Himalaya sperando di trovare in queste altezze le risposte che sfuggivano loro restando nelle pianure. Continuano a venire.
L'inverno scorso davanti al mio rifugio passò un vecchio sanyasin vestito d'arancione. Era accompagnato da un discepolo, anche lui un rinunciatario.
" Dove andate, Maharaj? " gli chiesi.
A cercare dio", rispose, come fosse stata la cosa più ovvia del mondo.
Io ci vengo, come questa volta, a cercare di mettere un po' d'ordine nella mia testa. Le impressioni degli ultimi mesi sono state tortissime e prima di ripartire, di " scendere in pianura" di nuovo, ho bisogno di silenzio. Solo così può capitare di sentire la voce che sa, la voce che parla dentro di noi. Forse è solo la voce del buon senso, ma è una voce vera.
Le montagne sono sempre generose. Mi regalano albe e tramonti irripetibili; il silenzio è rotto solo dai suoni della natura che lo rendono ancora più vivo.
L'esistenza qui è semplicissima. Scrivo seduto sul pavimento di legno, un pannello solare alimenta il mio piccolo computer; uso l'acqua di una sorgente a cui si abbeverano gli animali del bosco - a volte anche un leopardo -, faccio cuocere riso e verdure su una bombola a gas, attento a non buttar via il fiammifero usato. Qui tutto è all'osso, non ci sono sprechi e presto si impara a ridare valore ad ogni piccola cosa. La semplicità è un enorme aiuto nel fare ordine.
A volte mi chiedo se il senso di frustrazione, d'impotenza che molti, specie fra i giovani, hanno dinanzi al mondo moderno è dovuto al fatto che esso appare loro così complicato, così diffìcile da capire che la sola reazione possibile è crederlo il mondo di qualcun altro: un mondo in cui non si può mettere le mani, un mondo che non si può cambiare. Ma non è così: il mondo è di tutti.
Eppure, dinanzi alla complessità di meccanismi disumani - gestiti chi sa dove, chi sa da chi - l'individuo è sempre più disorientato, si sente al perso, e finisce così per fare semplicemente il suo piccolo dovere nel lavoro, nel compito che ha dinanzi, disinteressandosi del resto e aumentando così il suo isolamento, il suo senso di inutilità. Per questo è importante, secondo me, riportare ogni problema all'essenziale. Se si pongono le domande di fondo, le risposte saranno più facili.
Vogliamo eliminare le armi? Bene: non perdiamoci a discutere sul fatto che chiudere le fabbriche di fucili, di munizioni, di mine anti-uomo o di bombe atomiche creerà dei disoccupati. Prima risolviamo la questione morale. Quella economica l'affronteremo dopo. O vogliamo, prima ancora di provare, arrenderci al fatto che l'economia determina tutto, che ci interessa solo quel che ci è utile?
"In tutta la storia ci sono sempre state delle guerre. Per cui continueranno ad esserci", si dice. "Ma perché ripetere la vecchia storia? Perché non cercare di cominciarne una nuova?" rispose Gandhi a chi gli faceva questa solita, banale obbiezione. L'idea che l'uomo possa rompere col proprio passato e fare un salto evolutivo di qualità era ricorrente nel pensiero indiano del secolo scorso. L'argomento è semplice: se l'homo sapiens, quello che ora siamo, è il risultato della nostra evoluzione dalla scimmia, perché non immaginarsi che quest'uomo, con una nuova mutazione, diventi un essere più spirituale, meno attaccato alla materia, più impegnato nel suo rapporto col prossimo e meno rapace nei confronti del resto dell'universo?
E poi: siccome questa evoluzione ha a che fare con la coscienza, perché non provare noi, ora, coscientemente, a fare un primo passo in quella direzione? Il momento non potrebbe essere più appropriato visto che questo homo sapiens è arrivato ora al massimo del suo potere, compreso quello di distruggere sé stesso con quelle armi che, poco sapientemente, si è creato.
Guardiamoci allo specchio. Non ci sono dubbi che nel corso degli ultimi millenni abbiamo fatto enormi progressi. Siamo riusciti a volare come uccelli, a nuotare sott'acqua come pesci, andiamo sulla luna e mandiamo sonde fin su Marte. Ora siamo persino capaci di donare la vita. Eppure, con tutto questo progresso non siamo in pace né con noi stessi né col mondo attorno. Abbiamo appestato la terra, dissacrato fiumi e laghi, tagliato intere foreste e reso infernale la vita degli animali, tranne quella di quei pochi che chiamiamo "amici" e che coccoliamo finché soddisfano la nostra necessità di un surrogato di compagnia umana.
Aria, acqua, terra e fuoco, che tutte le antiche civiltà hanno visto come gli elementi base della vita - e per questo sacri - non sono più, com'erano, capaci di auto-rigenerarsi naturalmente da quando l'uomo è riuscito a dominarli e a manipolarne la forza ai propri fini. La loro sacra purezza è stata inquinata. L'equilibrio è stato rotto.
Il grande progresso materiale non è andato di pari passo col nostro progresso spirituale. Anzi: forse da questo punto di vista l'uomo non è mai stato tanto povero da quando è diventato così ricco. Da qui l'idea che l'uomo, coscientemente, inverta questa tendenza e riprenda il controllo di quello straordinario strumento che è la sua mente. Quella mente, finora impegnata prevalentemente a conoscere e ad impossessarsi del mondo esterno, come se quello fosse la sola fonte della nostra sfuggente felicità, dovrebbe rivolgersi anche all'esplorazione del mondo interno, alla conoscenza di sé.
Idee assurde di qualche fachiro seduto su un letto di chiodi? Per niente. Queste sono idee che, in una forma o in un'altra, con linguaggi diversi, circolano da qualche tempo nel mondo. Circolano nel mondo occidentale, dove il sistema contro cui queste idee teoricamente si rivolgono le ha già riassorbite, facendone i "prodotti" di un già vastissimo mercato "alternativo" che va dai corsi di yoga a quelli di meditazione, dall'aromaterapia alle "vacanze spirituali" per tutti i frustrati della corsa dietro ai conigli di plastica della felicità materiale. Queste idee circolano nel mondo islamico, dilaniato fra tradizione e modernità, dove si riscopre il significato originario di jihad, che non è solo la guerra santa contro il nemico esterno, ma innanzitutto la guerra santa interiore contro gli istinti e le passioni più basse dell'uomo.
Per cui non è detto che uno sviluppo umano verso l'alto sia impossibile. Si tratta di non continuare incoscientemente nella direzione in cui siamo al momento. Questa direzione è folle, come è folle la guerra di Osama bin Laden e quella di George W. Bush. Tutti e due citano Dio, ma con questo non rendono più divini i loro massacri.
Allora fermiamoci. Immaginiamoci il nostro momento di ora dalla prospettiva dei nostri pronipoti. Guardiamo all'oggi dal punto di vista del domani per non doverci rammaricare poi d'aver perso una buona occasione. L'occasione è di capire una volta per tutte che il mondo è uno, che ogni parte ha il suo senso, che è possibile rimpiazzare la logica della competitività con l'etica della coesistenza, che nessuno ha il monopolio di nulla, che l'idea di una civiltà superiore a un'altra è solo frutto di ignoranza, che l'armonia, come la bellezza, sta nell'equilibrio degli opposti e che l'idea di eliminare uno dei due è semplicemente sacrilega. Come sarebbe il giorno senza la notte? La vita senza la morte? O il Bene? Se Bush riuscisse, come ha promesso, a eliminare il Male dal mondo?
Questa mania di voler ridurre tutto ad una uniformità è molto occidentale. Vivekananda, il grande mistico indiano, viaggiava alla fine dell'Ottocento negli Stati Uniti per far conoscere l'induismo. A San Francisco, alla fine di una sua conferenza, una signora americana si alzò e gli chiese: "Non pensa che il mondo sarebbe più bello se ci fosse una sola religione per tutti gli uomini?" "No", rispose Vivekananda. "Forse sarebbe ancora più bello se ci fossero tante religioni quanti sono gli uomini. "
"Gli imperi crescono e gli imperi scompaiono", dice l'inizio di uno dei classici della letteratura cinese, il Romanzo dei Tre Regni. Succederà anche a quello americano, tanto più se cercherà d'imporsi con la forza bruta delle sue armi, ora sofisticatissime, invece che con la forza dei valori spirituali e degli ideali originali dei suoi stessi Padri Fondatori. I primi ad accorgersi del mio ritorno quassù sono stati due vecchi corvi che ogni mattina, all'ora di colazione, si piazzano sul deodar, l'albero di dio, un maestoso cedro davanti a casa e gracchiano a più non posso finché non hanno avuto i resti del mio yogurt - ho imparato a farmelo - e gli ultimi chicchi di riso nella ciotola. Anche se volessi, non potrei dimenticarmi della loro presenza e di una storia che gli indiani raccontano ai bambini a proposito dei corvi. Un signore che stava, come me, sotto un albero nel suo giardino, un giorno non ne poté più di quel petulante gracchiare dei corvi. Chiamò i suoi servi e quelli con sassi e bastoni li cacciarono via. Ma il Creatore, che in quel momento si svegliava da un pisolino, si accorse subito che dal grande concerto del suo universo mancava una voce e, arrabbiatissimo, mandò di corsa un suo assistente sulla terra a rimettere i corvi sull'albero.
Qui, dove si vive al ritmo della natura, il senso che la vita è una e che dalla sua totalità non si può impunemente aggiungere o togliere niente è grande. Ogni cosa è legata, ogni parte è l'insieme.
Thich Nhat Hanh, il monaco vietnamita, lo dice bene a proposito di un tavolo, un tavolino piccolo e basso come quello su cui scrivo. Il tavolo è qui grazie ad una infinita catena di fatti, cose e persone: la pioggia caduta sul bosco dove è cresciuto l'albero che un boscaiolo ha tagliato per darlo a un falegname che lo ha messo assieme coi chiodi fatti da un fabbro col ferro di una miniera... Se un solo elemento di questa catena, magari il bisnonno del falegname, non fosse esistito, questo tavolino non sarebbe qui.
I giapponesi, ancora quando io stavo nel loro paese, pensavano di proteggere il clima delle loro isole non tagliando le foreste giapponesi, ma andando a tagliare quelle dell'Indonesia e dell'Amazzonia. Presto si son resi conto che anche questo ricadeva su di loro: il clima della terra mutava per tutti, giapponesi compresi.
Allo stesso modo, oggi non si può pensare di continuare a tenere povera una grande parte del mondo per rendere la nostra sempre più ricca. Prima o poi, in una forma o nell'altra, il conto ci verrà presentato. O dagli uomini o dalla natura stessa.
Quassù, la sensazione che la natura ha una sua presenza psichica è tortissima. A volte, quando tutto imbacuccato contro il freddo mi fermo ad osservare, seduto su un grotto, il primo raggio di sole che accende le vette dei ghiacciai e lentamente solleva il velo di oscurità, facendo emergere catene e catene di altre montagne dal fondo lattiginoso delle valli, un'aria di immensa gioia pervade il mondo ed io stesso mi ci sento avvolto, assieme agli alberi, gli uccelli, le formiche: sempre la stessa vita in tante diverse, magnifiche forme.
È il sentirsi separati da questo che ci rende infelici. Come il sentirci divisi dai nostri simili. "La guerra non rompe solo le ossa della gente, rompe i rapporti umani", mi diceva a Kabul quel vulcanico personaggio che è Gino Strada. Per riparare quei rapporti, nell'ospedale di Emergency, dove ripara ogni altro squarcio del corpo. Strada ha una corsia in cui dei giovani soldati talebani stanno a due passi dai loro "nemici", soldati dell'Alleanza del Nord. Gli uni sono prigionieri, gli altri no; ma Strada spera che le simili mutilazioni, le simili ferite li riavvicineranno.
Il dialogo aiuta enormemente a risolvere i conflitti. L'odio crea solo altro odio. Un cecchino palestinese uccide una donna israeliana in una macchina, gli israeliani reagiscono ammazzando due palestinesi, un palestinese si imbottisce di tritolo e va a farsi saltare in aria assieme a una decina di giovani israeliani in una pizzeria; gli israeliani mandano un elicottero a bombardare un pulmino carico di palestinesi, i palestinesi... e avanti di questo passo. Fin quando? Finché son finiti tutti i palestinesi? tutti gli israeliani? tutte le bombe?
Certo: ogni conflitto ha le sue cause, e queste vanno affrontate. Ma tutto sarà inutile finché gli uni non accetteranno l'esistenza degli altri ed il loro essere eguali, finché noi non accetteremo che la violenza conduce solo ad altra violenza.
"Bei discorsi. Ma che fare?" mi sento dire, anche qui nel silenzio.
Ognuno di noi può fare qualcosa. Tutti assieme possiamo fare migliaia di cose.
La guerra al terrorismo viene oggi usata per la militarizzazione delle nostre società, per produrre nuove armi, per spendere più soldi per la difesa. Opponiamoci, non votiamo per chi appoggia questa politica, controlliamo dove abbiamo messo i nostri risparmi e togliamoli da qualsiasi società che abbia anche lontanamente a che fare con l'industria bellica. Diciamo quello che pensiamo, quello che sentiamo essere vero: ammazzare è in ogni circostanza un assassinio.
Parliamo di pace, introduciamo una cultura di pace nell'educazione dei giovani. Perché la storia deve essere insegnata soltanto come un'infinita sequenza di guerre e di massacri?
Io, con tutti i miei studi occidentali, son dovuto venire in Asia per scoprire Ashoka, uno dei personaggi più straordinari dell'antichità; uno che tre secoli prima di Cristo, all'apice del suo potere, proprio dopo avere aggiunto un altro regno al suo già grande impero che si estendeva dall'India all'Asia centrale, si rende conto dell'assurdità della violenza, decide che la più grande conquista è quella del cuore dell'uomo, rinuncia alla guerra e, nelle tante lingue allora parlate nei suoi domini, fa scolpire nella pietra gli editti di questa sua etica. Una stele di Ashoka in greco ed aramaico è stata scoperta nel 1958 a Kandahar, la capitale spirituale del mullah Omar in Afghanistan, dove ora sono accampati i marines americani. Un'altra, in cui Ashoka annuncia l'apertura di un ospedale per uomini ed uno per animali, è oggi all'ingresso del Museo Nazionale di Delhi.
Ancor più che fuori, le cause della guerra sono dentro di noi. Sono in passioni come il desiderio, la paura, l'insicurezza, l'ingordigia, l'orgoglio, la vanità. Lentamente bisogna liberarcene. Dobbiamo cambiare atteggiamento. Cominciamo a prendere le decisioni che ci riguardano e che riguardano gli altri sulla base di più moralità e meno interesse. Facciamo più quello che è giusto, invece di quel che ci conviene. Educhiamo i figli ad essere onesti, non furbi.
Riprendiamo certe tradizioni di correttezza, reimpossessiamoci della lingua, in cui la parola " dio " è oggi diventata una sorta di oscenità, e torniamo a dire " fare l'amore " e non " fare sesso". Alla lunga, anche questo fa una grossa differenza.
È il momento di uscire allo scoperto, è il momento d'impegnarsi per i valori in cui si crede. Una civiltà si rafforza con la sua determinazione morale molto più che con nuove armi.
Soprattutto dobbiamo fermarci, prenderci tempo per riflettere, per stare in silenzio. Spesso ci sentiamo angosciati dalla vita che facciamo, come l'uomo che scappa impaurito dalla sua ombra e dal rimbombare dei suoi passi. Più corre, più vede la sua ombra stargli dietro; più corre, più il rumore dei suoi passi si fa forte e lo turba, finché non si ferma e si siede all'ombra di un albero. Facciamo lo stesso.
Visti dal punto di vista del futuro, questi sono ancora i giorni in cui è possibile fare qualcosa. Facciamolo. A volte ognuno per conto suo, a volte tutti assieme. Questa è una buona occasione.
Il cammino è lungo e spesso ancora tutto da inventare. Ma preferiamo quello dell'abbrutimento che ci sta dinanzi? O quello, più breve, della nostra estinzione?
Allora: Buon Viaggio! Sia fuori che dentro.
Il sultano e san Francesco
Firenze, 4 ottobre 2001
ORIANA,
dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa, quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri già grande e tu proponesti di scambiarci delle "Lettere da due mondi diversi": io dalla Cina dell'immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall'America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma è in nome di quella tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti. Davvero mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l'impressione di stare in un mondo assolutamente diverso dal tuo.
Ti scrivo anche - e pubblicamente per questo - per non far sentire troppo soli quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal crollo delle due Torri. Là morivano migliaia di persone, e con loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana, la ragione; il meglio del cuore, la compassione.
Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. "Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia", scrisse, disperato del fatto che, dinanzi all'indicibile orrore della prima guerra mondiale, alla gente non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui usò di quel consapevole silenzio per scrivere Gli ultimi giorni dell'umanità, un'opera che sembra essere ancora di un'inquietante attualità.
Pensare quel che pensi e scriverlo è un tuo diritto. Il problema è però che, grazie alla tua notorietà, la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani, e questo mi inquieta.
Il nostro di ora è un momento di straordinaria importanza. L'orrore indicibile è appena cominciato, ma è ancora possibile fermarlo facendo di questo momento una grande occasione di ripensamento. È un momento anche di enorme responsabilità perché certe concitate parole, pronunciate dalle lingue sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti più bassi, ad aizzare la bestia dell'odio che dorme in ognuno di noi e a provocare quella cecità delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e l'uccidere.
"Conquistare le passioni mi pare di gran lunga più diffìcile che conquistare il mondo con la forza delle armi. Ho ancora un diffìcile cammino dinanzi a me", scriveva nel 1925 quella bell'anima di Gandhi. E aggiungeva: "Finché l'uomo non si metterà di sua volontà all'ultimo posto fra le altre creature sulla terra, non ci sarà per lui alcuna salvezza".
E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di offrirci salvezza? La salvezza non è nella tua rabbia accalorata, ne nella calcolata campagna militare chiamata, tanto per rendercela più accettabile, "Libertà duratura". O tu pensi davvero che la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo è mondo non c'è stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sarà nemmeno questa.
Quel che ci sta succedendo è nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. È una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d'aver davanti prima dell'11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilità di nulla, tanto meno all'inevitabilità della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta.
Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rende sempre più tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, compresa quella atomica, come propone il segretario alla Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, quali che siano, saranno ancor più determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor più terribile violenza - prima in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguirà necessariamente una loro ancora più orribile e poi un'altra nostra e così via.
Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile e interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari "intelligente", di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui. Cambiamo illusione e, tanto per cominciare, chiediamo a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche e armi batteriologiche - Stati Uniti in testa - d'impegnarsi solennemente con tutta l'umanità a non usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la disponibilità. Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo questo darebbe a chi lo fa un vantaggio morale - di per sé un'arma importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l'orrore indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta.
In questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro, uscito due anni fa in Germania (peccato che non sia ancora tradotto in italiano), di un vecchio amico. Il libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werden: ethische Politik von Sokrates bis Mozart (L'arte di non essere governati: l'etica politica da Socrate a Mozart). L'autore è Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima di tornare all'università di Berlino. L'affascinante tesi di Krippendorff è che la politica, nella sua espressione più nobile, nasce dal superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici più profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a ricordare all'uomo la necessità di rompere il circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civiltà. Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino - un marchio che è anche una protezione -, lo condanna all'esilio dove quello fonda la prima città [Secondo una leggenda afghana, quella città è Kabul (N.d.A)]. La vendetta non è degli uomini, spetta a Dio.
Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella formazione dell'uomo occidentale perché col suo mettere sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti e le sue possibili scelte di azione, è servito a far riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilità della violenza che non raggiunge mai il suo fine.
Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo i soli protagonisti e i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni e i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore. Il mondo degli altri non viene mai rappresentato.
A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto, invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle Tigri Tamil, votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di Hamas che si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po' di pietà sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone, sull'isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero addestrati, e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l'imperatore.
I kamikaze mi interessano perché vorrei capire che cosa li rende così disposti a quell'innaturale atto che è il suicidio e che cosa potrebbe fermarli. Quelli di noi a cui i figli - fortunatamente - sono nati, per cui non dobbiamo scrivere loro lettere postume, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l'ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio. Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perché io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali.
Niente nella storia umana è semplice da spiegare e tra un fatto ed un altro c'è raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, è il risultato di migliaia di cause che producono, assieme a quell'evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di altre migliaia di effetti. L'attacco alle Torri Gemelle è uno di questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non è l'atto di "una guerra di religione" degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non è neppure "un attacco alla libertà ed alla democrazia occidentale", come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici.
Un vecchio accademico della Berkeley University, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse, dà di questa storia una interpretazione completamente diversa. "Gli assassini suicidi dell'11 settembre non hanno attaccato l'America: hanno attaccato la politica estera americana", scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation uscito in ottobre. Per lui, autore di vari libri - l'ultimo, Blowback (Contraccolpo), uscito l'anno scorso, ha del profetico -, si tratterebbe appunto di un ennesimo "contraccolpo" al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell'Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo.
Con un'analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della disinformazione del KGB, Chalmers Johnson fa l'elenco di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassini e degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi.
Il "contraccolpo" dell'attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla CIA contro Mossadeq nel 1953, seguito dall'installazione dello Shah in Iran, alla guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in particolare l'Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell'Islam. Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana "a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico". Così si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti e i loro alleati.
Esatta o meno che sia l'analisi di Chalmers Johnson, è evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c'è, a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi "amici", quali che siano, le riserve petrolifere della regione. Questa è una trappola. L'occasione per uscirne è ora. Perché non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perché non studiamo davvero, come avremmo potuto già fare da una ventina d'anni, tutte le possibili fonti alternative di energia?
Ci eviteremmo così d'essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi e odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre più disastrosi "contraccolpi" che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta. Magari salviamo così anche l'Alaska che proprio un paio di mesi fa è stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche - tutti lo sanno - sono fra i petrolieri.
A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull'Afghanistan in questi giorni, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo paese è legato al fatto d'essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura voglia portare le immense risorse di metano e petrolio dell'Asia centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l'India e da lì nei paesi del Sud-Est asiatico. Il tutto senza dover passare dall'Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli "orribili" talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente meno che di Henry Kissinger, si è impegnata col Turkmenistan a costruire quell'oleodotto attraverso l'Afghanistan. È dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessità di proteggere la libertà e la democrazia, l'imminente attacco contro l'Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti.
È per questo che nell'America stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell'industria petrolifera e quelli dell'industria bellica - combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington - finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare all'interno del paese, in ragione dell'emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie libertà che rendono l'America così particolare.
Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l'aggettivo "codardi", usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, così come la censura di certi programmi e l'allontanamento da alcuni giornali di collaboratori giudicati non ortodossi, ha ovviamente aumentato queste preoccupazioni.
L'aver diviso il mondo in maniera - mi pare - "talebana", fra "quelli che stanno con noi e quelli contro di noi", crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l'America ha già sofferto negli anni '50 col maccartismo, quando tanti intellettuali, funzionari di Stato e accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro.
Il tuo attacco, Oriana - anche a colpi di sputo -, alle "cicale" e agli intellettuali "del dubbio" va in quello stesso senso. Dubitare è una funzione essenziale del pensiero; il dubbio è il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste è come volere togliere l'aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d'aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande. In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace.
Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo "ufficiale" della politica e dell'establishment mediatico, c'è stata una disperante corsa alla ortodossia. È come se l'America ci mettesse già paura. Capita così di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito che il soldato Ryan è un importante simbolo di quell'America che per due volte ci ha salvato. Ma non c'era anche lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam?
Per i politici - me ne rendo conto - è un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor più l'angoscia di qualcuno come il nostro presidente del Consiglio che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni, si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civiltà combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici.
Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e, non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente. Ma questo ci impone anche grandi responsabilità come quella, non facile, di andare dietro alla verità e di dedicarci soprattutto "a creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia", come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli attentati in America.
Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che è complicato. Ma non si può esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del terrorismo e indicando le comunità di immigrati musulmani da noi come incubatrici di terroristi. Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore, ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori?
Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che cosa è l'Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprezzato Omar Khayyam? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l'arabo, oltre ai tanti che già studiano l'inglese e magari il giapponese? Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente è, come capita da noi, console ad Adelaide, in Australia.
Mi frulla in testa una frase di Toynbee: "Le opere di artisti e letterati hanno vita più lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti e i filosofi vanno più in là degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di più di tutti gli altri messi assieme".
Dove sono oggi i santi e i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un san Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo interesse era per "gli altri", per quelli contro i quali combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provò una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufragò e lui si salvò a malapena. Ci provò una seconda volta, ma si ammalò prima di arrivare e torno indietro. Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l'assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal comportamento dei crociati ("vide il male ed il peccato"), sconvolto dalla vista dei morti sul campo di battaglia, san Francesco attraversò le linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del sultano. Peccato che non ci fosse ancora la CNN - era il 1219 -, perché sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell'incontro. Certo fu particolarissimo perché, dopo una chiacchierata che probabilmente andò avanti nella notte, al mattino il sultano lasciò che san Francesco tornasse, incolume, all'accampamento dei crociati.
Mi diverte pensare che l'uno disse all'altro le sue ragioni, che san Francesco parlò di Cristo, che il sultano lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono d'accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque: "Ama il prossimo tuo come te stesso". Mi diverte anche immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressività e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la storia.
Ma oggi? Non fermarla può voler dire farla finire. Ti ricordi, Oriana, padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riferendosi all'orrore dell'olocausto atomico pose una bella domanda: "La sindrome da fine del mondo, l'alternativa fra essere e non essere hanno fatto diventare l'uomo più umano? "A guardarsi intorno la risposta mi pare debba essere "no". Ma non possiamo rinunciare alla speranza.
"Mi dica, che cosa spinge l'uomo alla guerra?" chiedeva Albert Einstein nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. "È possibile dirigere l'evoluzione psichica dell'uomo in modo che egli diventi più capace di resistere alla psicosi dell'odio e della distruzione?"
Freud si prese due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu che c'era da sperare: due fattori - un atteggiamento più civile e il giustificato timore degli effetti di una guerra futura - avrebbero influito a mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire.
La morte risparmiò a Freud giusto in tempo gli orrori della seconda guerra mondiale. Non li risparmiò invece ad Einstein, che divenne però sempre più convinto della necessità del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse all'umanità un ultimo appello per la sua sopravvivenza: "Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il resto".
Per difendersi, Oriana, non c'è bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi e ai tuoi calci). Per proteggersi non c'è bisogno d'ammazzare. Ed anche in questo possono esserci delle giuste eccezioni. M'è sempre piaciuta nei Jataka, le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome della non-violenza, in una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad altre 500 persone. Lui, che ha già i poteri della preveggenza, "vede" che uno dei passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli, e lui lo previene buttandolo nell'acqua. Il brigante affoga e gli altri sono salvi.
Essere contro la pena di morte non vuoi dire essere contro la pena in genere e in favore della libertà di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto dell'incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al tribunale di Norimberga; quelli giapponesi, responsabili di tutte le atrocità commesse in Asia, furono portati dinanzi al tribunale di Tokyo prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama bin Laden?
"Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate", scrive in questi giorni dall'India agli americani, ovviamente a mo' di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice di II Dio delle piccole cose: una come te, Oriana, famosa e contestata, amata e odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi a un tribunale indiano il presidente americano della Union Carbide, responsabile dell'esplosione che nel 1984, nella fabbrica chimica di Bhopal, in India, fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse sì.
Il terrorista che ora ci viene additato come il "nemico" da abbattere è il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell'Afghanistan, ordina l'attacco alle Torri Gemelle; è l'ingegnere-pilota, islamico fanatico, che in nome di Allah uccide sé stesso e migliaia di innocenti; è il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo a una folla.
Dobbiamo però accettare che per altri il "terrorista" possa essere l'uomo d'affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione e inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui è più conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci più i campi per far crescere il riso la gente muore di fame?
Questo non è relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, può esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sarà difficile arrivare a una definizione comune del nemico da debellare.
I governi occidentali oggi sono uniti nell'essere a fianco degli Stati Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi e come vanno combattuti. Molto meno convinti sembrano invece i cittadini dei vari paesi. Per il momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di massa per la pace; ma il senso del disagio è diffuso, così come è diffusa la confusione su quel che si debba volere al posto della guerra. "Dateci qualcosa di più carino del capitalismo", diceva il cartello di un dimostrante in Germania. " Un mondo giusto non è mai NATO", c'era scritto sullo striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Già. Un mondo "più giusto" è forse quel che noi tutti, ora più che mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto si preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto da princìpi di legalità e ispirato ad un po' più di moralità.
La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo perché ora tornano comodi, è solo l'ennesimo esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta il terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi.
Gli Stati Uniti, per avere la maggiore copertura possibile e per dare alla guerra contro il terrorismo un crisma di legalità internazionale, hanno coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il paese più reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese che non ha ancora ratificato né il trattato costitutivo della Corte Internazionale di Giustizia né il trattato per la messa al bando delle mine anti-uomo, e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche.
L'interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per questo ora Washington riscopre l'utilità del Pakistan, prima tenuto a distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la CIA sarà presto autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i "lavoretti sporchi" di liquidare qua e là nel mondo le persone che la CIA stessa metterà sulla sua lista nera.
Eppure un giorno la politica dovrà ricongiungersi con l'etica se vorremo vivere in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a Timbuktu come a Firenze.
A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo, questa città mi fa male e mi intristisce. Tutto è cambiato, tutto è involgarito. Ma la colpa non è dell'Islam o degli immigrati che vi si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una città bottegaia, prostituita al turismo! È successo dappertutto. Firenze era bella quando era più piccola e più povera. Ora è un obbrobrio, ma non perché i musulmani si attendano in piazza del Duomo, perché i filippini si riuniscono il giovedì in piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla stazione. È così perché anche Firenze s'è "globalizzata", perché non ha resistito all'assalto di quella forza che, fino a ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato.
Nel giro di due anni da una bella strada del centro, via Tornabuoni, in cui fin da ragazzo mi piaceva andare a spasso, sono scomparsi una libreria storica, un vecchio bar, una tradizionalissima farmacia e un negozio di musica. Per far posto a che? A tanti negozi di moda. Credimi, anch'io non mi ci ritrovo più.
Per questo sto, anch'io ritirato, in una sorta di baita nell'Himalaya indiana dinanzi alle più divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, lì maestose ed immobili, simbolo della più grande stabilità, eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto nell'universo. La natura è una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto più grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono più. Guarda un filo d'erba al vento e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia.
Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace. Perché se quella non è dentro di noi non sarà mai da nessuna parte.
*
LETTERA DALL'HIMALAYA
Che fare?
Nell'Himalaya indiana, 17 gennaio 2002
Mi piace essere in un corpo che ormai invecchia. Posso guardare le montagne senza il desiderio di scalarle. Quand'ero giovane le avrei volute conquistare. Ora posso lasciarmi conquistare da loro. Le montagne, come il mare, ricordano una misura di grandezza dalla quale l'uomo si sente ispirato, sollevato. Quella stessa grandezza è anche in ognuno di noi, ma lì ci è diffìcile riconoscerla. Per questo siamo attratti dalle montagne. Per questo, attraverso i secoli, tantissimi uomini e donne sono venuti quassù nell'Himalaya sperando di trovare in queste altezze le risposte che sfuggivano loro restando nelle pianure. Continuano a venire.
L'inverno scorso davanti al mio rifugio passò un vecchio sanyasin vestito d'arancione. Era accompagnato da un discepolo, anche lui un rinunciatario.
" Dove andate, Maharaj? " gli chiesi.
A cercare dio", rispose, come fosse stata la cosa più ovvia del mondo.
Io ci vengo, come questa volta, a cercare di mettere un po' d'ordine nella mia testa. Le impressioni degli ultimi mesi sono state tortissime e prima di ripartire, di " scendere in pianura" di nuovo, ho bisogno di silenzio. Solo così può capitare di sentire la voce che sa, la voce che parla dentro di noi. Forse è solo la voce del buon senso, ma è una voce vera.
Le montagne sono sempre generose. Mi regalano albe e tramonti irripetibili; il silenzio è rotto solo dai suoni della natura che lo rendono ancora più vivo.
L'esistenza qui è semplicissima. Scrivo seduto sul pavimento di legno, un pannello solare alimenta il mio piccolo computer; uso l'acqua di una sorgente a cui si abbeverano gli animali del bosco - a volte anche un leopardo -, faccio cuocere riso e verdure su una bombola a gas, attento a non buttar via il fiammifero usato. Qui tutto è all'osso, non ci sono sprechi e presto si impara a ridare valore ad ogni piccola cosa. La semplicità è un enorme aiuto nel fare ordine.
A volte mi chiedo se il senso di frustrazione, d'impotenza che molti, specie fra i giovani, hanno dinanzi al mondo moderno è dovuto al fatto che esso appare loro così complicato, così diffìcile da capire che la sola reazione possibile è crederlo il mondo di qualcun altro: un mondo in cui non si può mettere le mani, un mondo che non si può cambiare. Ma non è così: il mondo è di tutti.
Eppure, dinanzi alla complessità di meccanismi disumani - gestiti chi sa dove, chi sa da chi - l'individuo è sempre più disorientato, si sente al perso, e finisce così per fare semplicemente il suo piccolo dovere nel lavoro, nel compito che ha dinanzi, disinteressandosi del resto e aumentando così il suo isolamento, il suo senso di inutilità. Per questo è importante, secondo me, riportare ogni problema all'essenziale. Se si pongono le domande di fondo, le risposte saranno più facili.
Vogliamo eliminare le armi? Bene: non perdiamoci a discutere sul fatto che chiudere le fabbriche di fucili, di munizioni, di mine anti-uomo o di bombe atomiche creerà dei disoccupati. Prima risolviamo la questione morale. Quella economica l'affronteremo dopo. O vogliamo, prima ancora di provare, arrenderci al fatto che l'economia determina tutto, che ci interessa solo quel che ci è utile?
"In tutta la storia ci sono sempre state delle guerre. Per cui continueranno ad esserci", si dice. "Ma perché ripetere la vecchia storia? Perché non cercare di cominciarne una nuova?" rispose Gandhi a chi gli faceva questa solita, banale obbiezione. L'idea che l'uomo possa rompere col proprio passato e fare un salto evolutivo di qualità era ricorrente nel pensiero indiano del secolo scorso. L'argomento è semplice: se l'homo sapiens, quello che ora siamo, è il risultato della nostra evoluzione dalla scimmia, perché non immaginarsi che quest'uomo, con una nuova mutazione, diventi un essere più spirituale, meno attaccato alla materia, più impegnato nel suo rapporto col prossimo e meno rapace nei confronti del resto dell'universo?
E poi: siccome questa evoluzione ha a che fare con la coscienza, perché non provare noi, ora, coscientemente, a fare un primo passo in quella direzione? Il momento non potrebbe essere più appropriato visto che questo homo sapiens è arrivato ora al massimo del suo potere, compreso quello di distruggere sé stesso con quelle armi che, poco sapientemente, si è creato.
Guardiamoci allo specchio. Non ci sono dubbi che nel corso degli ultimi millenni abbiamo fatto enormi progressi. Siamo riusciti a volare come uccelli, a nuotare sott'acqua come pesci, andiamo sulla luna e mandiamo sonde fin su Marte. Ora siamo persino capaci di donare la vita. Eppure, con tutto questo progresso non siamo in pace né con noi stessi né col mondo attorno. Abbiamo appestato la terra, dissacrato fiumi e laghi, tagliato intere foreste e reso infernale la vita degli animali, tranne quella di quei pochi che chiamiamo "amici" e che coccoliamo finché soddisfano la nostra necessità di un surrogato di compagnia umana.
Aria, acqua, terra e fuoco, che tutte le antiche civiltà hanno visto come gli elementi base della vita - e per questo sacri - non sono più, com'erano, capaci di auto-rigenerarsi naturalmente da quando l'uomo è riuscito a dominarli e a manipolarne la forza ai propri fini. La loro sacra purezza è stata inquinata. L'equilibrio è stato rotto.
Il grande progresso materiale non è andato di pari passo col nostro progresso spirituale. Anzi: forse da questo punto di vista l'uomo non è mai stato tanto povero da quando è diventato così ricco. Da qui l'idea che l'uomo, coscientemente, inverta questa tendenza e riprenda il controllo di quello straordinario strumento che è la sua mente. Quella mente, finora impegnata prevalentemente a conoscere e ad impossessarsi del mondo esterno, come se quello fosse la sola fonte della nostra sfuggente felicità, dovrebbe rivolgersi anche all'esplorazione del mondo interno, alla conoscenza di sé.
Idee assurde di qualche fachiro seduto su un letto di chiodi? Per niente. Queste sono idee che, in una forma o in un'altra, con linguaggi diversi, circolano da qualche tempo nel mondo. Circolano nel mondo occidentale, dove il sistema contro cui queste idee teoricamente si rivolgono le ha già riassorbite, facendone i "prodotti" di un già vastissimo mercato "alternativo" che va dai corsi di yoga a quelli di meditazione, dall'aromaterapia alle "vacanze spirituali" per tutti i frustrati della corsa dietro ai conigli di plastica della felicità materiale. Queste idee circolano nel mondo islamico, dilaniato fra tradizione e modernità, dove si riscopre il significato originario di jihad, che non è solo la guerra santa contro il nemico esterno, ma innanzitutto la guerra santa interiore contro gli istinti e le passioni più basse dell'uomo.
Per cui non è detto che uno sviluppo umano verso l'alto sia impossibile. Si tratta di non continuare incoscientemente nella direzione in cui siamo al momento. Questa direzione è folle, come è folle la guerra di Osama bin Laden e quella di George W. Bush. Tutti e due citano Dio, ma con questo non rendono più divini i loro massacri.
Allora fermiamoci. Immaginiamoci il nostro momento di ora dalla prospettiva dei nostri pronipoti. Guardiamo all'oggi dal punto di vista del domani per non doverci rammaricare poi d'aver perso una buona occasione. L'occasione è di capire una volta per tutte che il mondo è uno, che ogni parte ha il suo senso, che è possibile rimpiazzare la logica della competitività con l'etica della coesistenza, che nessuno ha il monopolio di nulla, che l'idea di una civiltà superiore a un'altra è solo frutto di ignoranza, che l'armonia, come la bellezza, sta nell'equilibrio degli opposti e che l'idea di eliminare uno dei due è semplicemente sacrilega. Come sarebbe il giorno senza la notte? La vita senza la morte? O il Bene? Se Bush riuscisse, come ha promesso, a eliminare il Male dal mondo?
Questa mania di voler ridurre tutto ad una uniformità è molto occidentale. Vivekananda, il grande mistico indiano, viaggiava alla fine dell'Ottocento negli Stati Uniti per far conoscere l'induismo. A San Francisco, alla fine di una sua conferenza, una signora americana si alzò e gli chiese: "Non pensa che il mondo sarebbe più bello se ci fosse una sola religione per tutti gli uomini?" "No", rispose Vivekananda. "Forse sarebbe ancora più bello se ci fossero tante religioni quanti sono gli uomini. "
"Gli imperi crescono e gli imperi scompaiono", dice l'inizio di uno dei classici della letteratura cinese, il Romanzo dei Tre Regni. Succederà anche a quello americano, tanto più se cercherà d'imporsi con la forza bruta delle sue armi, ora sofisticatissime, invece che con la forza dei valori spirituali e degli ideali originali dei suoi stessi Padri Fondatori. I primi ad accorgersi del mio ritorno quassù sono stati due vecchi corvi che ogni mattina, all'ora di colazione, si piazzano sul deodar, l'albero di dio, un maestoso cedro davanti a casa e gracchiano a più non posso finché non hanno avuto i resti del mio yogurt - ho imparato a farmelo - e gli ultimi chicchi di riso nella ciotola. Anche se volessi, non potrei dimenticarmi della loro presenza e di una storia che gli indiani raccontano ai bambini a proposito dei corvi. Un signore che stava, come me, sotto un albero nel suo giardino, un giorno non ne poté più di quel petulante gracchiare dei corvi. Chiamò i suoi servi e quelli con sassi e bastoni li cacciarono via. Ma il Creatore, che in quel momento si svegliava da un pisolino, si accorse subito che dal grande concerto del suo universo mancava una voce e, arrabbiatissimo, mandò di corsa un suo assistente sulla terra a rimettere i corvi sull'albero.
Qui, dove si vive al ritmo della natura, il senso che la vita è una e che dalla sua totalità non si può impunemente aggiungere o togliere niente è grande. Ogni cosa è legata, ogni parte è l'insieme.
Thich Nhat Hanh, il monaco vietnamita, lo dice bene a proposito di un tavolo, un tavolino piccolo e basso come quello su cui scrivo. Il tavolo è qui grazie ad una infinita catena di fatti, cose e persone: la pioggia caduta sul bosco dove è cresciuto l'albero che un boscaiolo ha tagliato per darlo a un falegname che lo ha messo assieme coi chiodi fatti da un fabbro col ferro di una miniera... Se un solo elemento di questa catena, magari il bisnonno del falegname, non fosse esistito, questo tavolino non sarebbe qui.
I giapponesi, ancora quando io stavo nel loro paese, pensavano di proteggere il clima delle loro isole non tagliando le foreste giapponesi, ma andando a tagliare quelle dell'Indonesia e dell'Amazzonia. Presto si son resi conto che anche questo ricadeva su di loro: il clima della terra mutava per tutti, giapponesi compresi.
Allo stesso modo, oggi non si può pensare di continuare a tenere povera una grande parte del mondo per rendere la nostra sempre più ricca. Prima o poi, in una forma o nell'altra, il conto ci verrà presentato. O dagli uomini o dalla natura stessa.
Quassù, la sensazione che la natura ha una sua presenza psichica è tortissima. A volte, quando tutto imbacuccato contro il freddo mi fermo ad osservare, seduto su un grotto, il primo raggio di sole che accende le vette dei ghiacciai e lentamente solleva il velo di oscurità, facendo emergere catene e catene di altre montagne dal fondo lattiginoso delle valli, un'aria di immensa gioia pervade il mondo ed io stesso mi ci sento avvolto, assieme agli alberi, gli uccelli, le formiche: sempre la stessa vita in tante diverse, magnifiche forme.
È il sentirsi separati da questo che ci rende infelici. Come il sentirci divisi dai nostri simili. "La guerra non rompe solo le ossa della gente, rompe i rapporti umani", mi diceva a Kabul quel vulcanico personaggio che è Gino Strada. Per riparare quei rapporti, nell'ospedale di Emergency, dove ripara ogni altro squarcio del corpo. Strada ha una corsia in cui dei giovani soldati talebani stanno a due passi dai loro "nemici", soldati dell'Alleanza del Nord. Gli uni sono prigionieri, gli altri no; ma Strada spera che le simili mutilazioni, le simili ferite li riavvicineranno.
Il dialogo aiuta enormemente a risolvere i conflitti. L'odio crea solo altro odio. Un cecchino palestinese uccide una donna israeliana in una macchina, gli israeliani reagiscono ammazzando due palestinesi, un palestinese si imbottisce di tritolo e va a farsi saltare in aria assieme a una decina di giovani israeliani in una pizzeria; gli israeliani mandano un elicottero a bombardare un pulmino carico di palestinesi, i palestinesi... e avanti di questo passo. Fin quando? Finché son finiti tutti i palestinesi? tutti gli israeliani? tutte le bombe?
Certo: ogni conflitto ha le sue cause, e queste vanno affrontate. Ma tutto sarà inutile finché gli uni non accetteranno l'esistenza degli altri ed il loro essere eguali, finché noi non accetteremo che la violenza conduce solo ad altra violenza.
"Bei discorsi. Ma che fare?" mi sento dire, anche qui nel silenzio.
Ognuno di noi può fare qualcosa. Tutti assieme possiamo fare migliaia di cose.
La guerra al terrorismo viene oggi usata per la militarizzazione delle nostre società, per produrre nuove armi, per spendere più soldi per la difesa. Opponiamoci, non votiamo per chi appoggia questa politica, controlliamo dove abbiamo messo i nostri risparmi e togliamoli da qualsiasi società che abbia anche lontanamente a che fare con l'industria bellica. Diciamo quello che pensiamo, quello che sentiamo essere vero: ammazzare è in ogni circostanza un assassinio.
Parliamo di pace, introduciamo una cultura di pace nell'educazione dei giovani. Perché la storia deve essere insegnata soltanto come un'infinita sequenza di guerre e di massacri?
Io, con tutti i miei studi occidentali, son dovuto venire in Asia per scoprire Ashoka, uno dei personaggi più straordinari dell'antichità; uno che tre secoli prima di Cristo, all'apice del suo potere, proprio dopo avere aggiunto un altro regno al suo già grande impero che si estendeva dall'India all'Asia centrale, si rende conto dell'assurdità della violenza, decide che la più grande conquista è quella del cuore dell'uomo, rinuncia alla guerra e, nelle tante lingue allora parlate nei suoi domini, fa scolpire nella pietra gli editti di questa sua etica. Una stele di Ashoka in greco ed aramaico è stata scoperta nel 1958 a Kandahar, la capitale spirituale del mullah Omar in Afghanistan, dove ora sono accampati i marines americani. Un'altra, in cui Ashoka annuncia l'apertura di un ospedale per uomini ed uno per animali, è oggi all'ingresso del Museo Nazionale di Delhi.
Ancor più che fuori, le cause della guerra sono dentro di noi. Sono in passioni come il desiderio, la paura, l'insicurezza, l'ingordigia, l'orgoglio, la vanità. Lentamente bisogna liberarcene. Dobbiamo cambiare atteggiamento. Cominciamo a prendere le decisioni che ci riguardano e che riguardano gli altri sulla base di più moralità e meno interesse. Facciamo più quello che è giusto, invece di quel che ci conviene. Educhiamo i figli ad essere onesti, non furbi.
Riprendiamo certe tradizioni di correttezza, reimpossessiamoci della lingua, in cui la parola " dio " è oggi diventata una sorta di oscenità, e torniamo a dire " fare l'amore " e non " fare sesso". Alla lunga, anche questo fa una grossa differenza.
È il momento di uscire allo scoperto, è il momento d'impegnarsi per i valori in cui si crede. Una civiltà si rafforza con la sua determinazione morale molto più che con nuove armi.
Soprattutto dobbiamo fermarci, prenderci tempo per riflettere, per stare in silenzio. Spesso ci sentiamo angosciati dalla vita che facciamo, come l'uomo che scappa impaurito dalla sua ombra e dal rimbombare dei suoi passi. Più corre, più vede la sua ombra stargli dietro; più corre, più il rumore dei suoi passi si fa forte e lo turba, finché non si ferma e si siede all'ombra di un albero. Facciamo lo stesso.
Visti dal punto di vista del futuro, questi sono ancora i giorni in cui è possibile fare qualcosa. Facciamolo. A volte ognuno per conto suo, a volte tutti assieme. Questa è una buona occasione.
Il cammino è lungo e spesso ancora tutto da inventare. Ma preferiamo quello dell'abbrutimento che ci sta dinanzi? O quello, più breve, della nostra estinzione?
Allora: Buon Viaggio! Sia fuori che dentro.
Contributed by Lorenzo Masetti - 2006/6/27 - 16:21
Language: English
English version
From "Letters against the war"
Translated from Italian by David Gibbons
From "Letters against the war"
Translated from Italian by David Gibbons
You can download all the "Letters against the war" by Tiziano Terzani in a PDF file (585K) from Tiziano Terzani "Fun" club
LETTER FROM FLORENCE
The Sultan and St Francis
Oriana,
From the windows of a house not far from the one where you too were born, I look out on the austere, elegant blades of the cypress trees silhouetted against the sky. I think of you in New York, as you look out of your windows at the panorama of skyscrapers from which the Twin Towers are now missing. I recall going for a long walk with you one afternoon many, many years ago, along the little roads through the olive-trees which give our hills their silvery colour. I was starting out on my career, a novice in the profession where you were already a giant. I remember you suggested we exchange "letters from two different worlds", me from China, where I had gone to live in the immediate aftermath of the Mao era, you from America. It was my fault it never happened. But I've taken the liberty of writing to you now, in response to the offer you so generously made back then and certainly not to engage you in a correspondence
which both of us would rather avoid. I can honestly say, I've never felt as keenly as I do now that though you and I share the same planet, actually we live in two different worlds.
I'm also writing, publicly, for those of your readers who, perhaps like me, were almost as stunned by your outburst as they were by the collapse of the Towers. I'm writing to let them know they're not alone. Thousands of people perished in those Towers, and with them our sense of security. What seemed to die in your words is
reason, the noblest part of the human mind, and compassion, the noblest sentiment of the human heart.
Your outburst struck me, and it wounded me. It made me think of Karl Kraus. "Let him who has something to say come forward and be silent", he wrote, in despair at the fact that the unspeakable horrors of the First World War had loosened rather than stilled people's tongues, causing them to fill the air with a confused, absurd babble. For Kraus, to be silent meant to pause for breath, to look for the right words, to think before speaking. He used this conscious silence to write The Last Days of Mankind, a work which even today seems disturbingly topical.
You have every right to think and write what you do, Oriana. But the problem is, your fame ensures your brilliant lesson in intolerance is now making its way into schools and influencing our children. That upsets me.
These are extraordinarily important days. The unspeakable horror has hardly begun, but we still have time stop it and turn it into a chance to rethink things on a large scale. It's also a time of enormous responsibilities. Impassioned words from loosened tongues merely awaken our basest instincts. They rouse the beast of hatred which lies dormant in us all. They provoke the kind of blind emotions which render every crime conceivable, which make us, like our enemies, entertain the possibility of suicide and murder.
"To conquer the subtle passions seems to me to be harder far than physical conquest of the world by the force of arms", wrote the noble-minded Gandhi in 1925. He went on: "So long as man does not of his own free will put himself last among his fellow creatures, there is no salvation for him".
You, Oriana, have put yourself in the highest place in this crusade against everyone who is not like you and everyone you dislike. Do you really believe you're offering us salvation? There's no salvation in your burning anger, just as there's no salvation in the calculated military campaign called "Enduring Freedom" to make it more acceptable. Or do you really think that violence is the best way to defeat violence? No war has ever put an end to war, and nor will this one.
Something new is happening to us. The world is changing around us. We too must change our way of thinking and the way we relate to the world. It's an opportunity. Let's not waste it. Let's throw everything open to discussion and imagine a different future for ourselves from the one we thought we'd have before 11 September. Above all, let's not give in to anything as if it were inevitable, least of all to war as an instrument of justice or pure revenge.
All wars are dreadful. The modern tendency to refine the techniques of destruction and death simply makes them more so. Think about it. If we're prepared to fight this war using every weapon at our disposal including the atomic bomb, as the American Secretary of Defence has been suggesting, then we must expect our enemies, whoever they are, to be even more determined than they were before to do exactly the same, to disregard the rules and ignore every principle. If we respond to the attack on the Twin Towers with even more terrible violence, first in Afghanistan, then Iraq, then who knows where, this too will be met with violence which is worse still, then we will be forced to retaliate once again, and so on and so forth.
Why not just call a halt to it all now? We've lost all measure of who we are. We've forgotten how fragile and interconnected the world we live in is. We've deceived ourselves into thinking that a dose of violence, if applied "intelligently", can put an end to the dreadful violence of others. We should think again. We should ask those of us who possess nuclear, chemical and biological weapons, chief among whom is the United States, to give their solemn pledge that they will never be first to use them, rather than ominously reminding us of their existence. Now this really would be ground-breaking.
Not only would it give those who make such a pledge an advantage in moral terms, which in itself could prove to be a handy weapon in the future, but it might also be just enough to defuse the unspeakable horror which has been set in motion by this chain reaction of vengeance.
In the past few days I've rediscovered a lovely book by an old friend of mine, which came out in Germany a couple of years ago. It's called Die Kunst, nicht regiert zu werden: ethische Politik von Sokrates bis Mozart, "The Art of not being Governed: Ethical Politics from Socrates to Mozart", and it's by Ekkehart Krippendorff, who taught in Bologna for years before returning to the University of Berlin.
Krippendorff's fascinating thesis is that politics in its noblest form arises from the need to transcend revenge. Western culture, according to this view, has its deepest roots in certain myths, such as the story of Cain and Abel or the Erinyes, which have always served to remind man of his need to break out of the vicious cycle of revenge if civilization is to be established. For instance, Cain murders his brother but God forbids man to avenge Abel's death. Instead, he marks Cain with a sign, which also serves as a form of protection, and condemns him to exile where he founds the first city [Kabul, according to an Afghan legend]. Vengeance thus belongs to God, not man.
According to Krippendorff, theatre from Aeschylus to Shakespeare has had a crucial role in shaping Western man. Putting all the characters in a conflict on stage, with their different points of view, their second thoughts and their possible choices of action, encourages the audience to reflect on the significance of the passions, and on the futility of violence which can never achieve its aim.
Sadly, the only protagonists and spectators on the world stage today are us Westerners. Through our television and newspapers we hear only our own reasons and experience, only our own sorrow. The world of others is never represented.
The kamikaze might not interest you, Oriana, but I'm very interested in them. I spent days in Sri Lanka with some young Tamil Tigers who had made vows to suicide.
I'm interested in the young Palestinian Hamas who blow themselves up in Israeli pizzerias. Perhaps even you would have felt a moment's compassion if you'd visited the centre where the first kamikaze were trained at Chiran on the island of Kyushu in Japan, and read the tragic, poetic words they wrote in secret before setting out, reluctantly, to die for flag and Emperor.
The kamikaze interest me because I'd like to understand what makes them so willing to commit an act as unnatural as suicide, and perhaps even find out what could stop them from doing so. Those of us who are fortunate enough to have children without having to write posthumous letters to them are deeply concerned today at the thought of seeing them burn in the fire of this new, rampant kind of violence, of which the massacre of the Twin Towers may be no more than one episode. It is not a question of justifying or condoning but of understanding, because I'm convinced that the problem of terrorism will not be resolved by killing terrorists, but by eliminating the causes that make people become such.
Nothing in human history is simple to explain, and there's rarely a direct, precise correlation between one event and another. Even in our own lives, every event is the product of thousands of causes, which work together with that event to produce thousands of other effects, which in turn cause thousands more. The attack on the Twin Towers was one such event, the consequence of countless previous complex events. It's certainly not the act of "a war of religion" perpetrated by Muslim extremists to conquer our souls, a crusade in reverse as you call it, Oriana. Nor is it "an attack on freedom and western democracy", as the simplistic formula used by politicians would have it.
An elderly academic at Berkeley University, a man whom no-one would suspect of anti-Americanism or leftist sympathies, has given a completely different interpretation of the event. "The suicidal assassins of September 11 2001 did not 'attack America', as our political leaders and news media like to maintain; they attacked American foreign policy," writes Chalmers Johnson in the October issue of The Nation.
For Johnson, the author of several books, the latest of which, Blowback, was published last year and has an almost prophetic quality, it represents the umpteenth "blowback", deriving from the fact that the United States has managed to maintain its imperial network of some 800 military installations around the world despite the end of the Cold War and the break-up of the Soviet Union.
In an analysis which during the Cold War years would have seemed like a product of KGB disinformation, Johnson lists all the dirty tricks, conspiracies, coups, persecutions, murders and intervention in favour of corrupt dictatorial regimes in which the United States has overtly or covertly been involved in Latin America, Africa and Asia, including the Middle East, from the end of the Second World War to the present day.
He claims that the attack on the Twin Towers and the Pentagon is a "blowback" forming part of a whole series of such events, which started with the CIA's operation to overthrow the government of Mossadegh in Iran and install the Shah in power in 1953, and goes right up to the Gulf War, and the permanent stationing of American troops in the Arabian peninsula, especially Saudi Arabia, the home of Islam's holy places.
According to Johnson, this policy "helped convince many capable people throughout the Islamic world that the United States was an implacable enemy". This explains the virulent anti-Americanism which has spread throughout the Muslim world and today so surprises the United States and its allies.
However precise or imprecise Chalmers Johnson's analysis may be, it's clear that the main reason for all our and America's problems in the Middle East, apart from the Israeli-Palestinian question, is the West's obsessive concern to ensure the region's oil reserves remain in the hands of regimes which are "friendly", whatever else they may be. This is a trap, and now we've got an opportunity to escape from it.
Why not review our economic dependence on oil? Why not look closely at every alternative potential source of energy, as we could have done at any point in the past twenty years?
We could thus have avoided getting involved with regimes in the Gulf which are no less repressive or odious than the Taliban. We could thus also avoid the increasingly disastrous "blowbacks" which the opponents of such regimes will unleash on us. At the very least, we could help to maintain a better ecological balance on the planet. We could even save Alaska, which just a couple of months ago was opened up to drilling by President Bush himself, whose political roots, as we all know, are in the oil business.
And while we are on the subject of oil, Oriana, I'm sure you too will have noted how, with everything that's being written and said about Afghanistan in these days, hardly anyone has mentioned that much of the interest in that country is due to the fact that any pipeline carrying the immense resources of natural gas and oil from Central Asia, i.e. those countries which used to be Soviet republics and have now all become United States allies, to Pakistan, India and then on to the countries of South-East Asia, has to pass through it if it is to avoid going via Iran. No-one in these days has mentioned the fact that as recently as 1997, two delegations from the horrible Taliban were received to discuss this matter in the Department of State in Washington, and that Unocal, a large American oil company advised by Henry Kissinger no less, signed an agreement with Turkmenistan to build a pipeline through Afghanistan.
Behind all the speeches stressing the need to protect freedom and democracy, the imminent attack on Afghanistan may thus conceal another less high-sounding but no less significant motive.
For this reason some American intellectuals have begun to express concern that the combined interests of the oil and arms industries, a combination which is very well represented in the administration which currently runs Washington, should decide that American foreign policy will operate in one way only, and in the name of counter- terrorist emergency regulations restrict those extraordinary freedoms which make life there so special.
The fact that an American television journalist was reprimanded from the White House pulpit for wondering if Bush's use of the adjective "cowardly" was appropriate to describe the suicidal terrorists, along with the fact that certain programmes have been censured and certain correspondents deemed heterodox and removed from their newspapers, has obviously done nothing to dispel such anxieties.
Dividing the world into "those who are with us and those who are against us" in a way which strikes me as being typically Taliban, clearly creates the necessary conditions for the kind of witch-hunts that America suffered in the 1950s under McCarthy, when so many intellectuals, academics and state officials were unjustly accused of being communists or sympathizers, and were persecuted, tried, and very often left jobless.
The tirade you spat out against the people you call "cicadas" and "intellectuals of doubt" goes in much the same direction, Oriana. Doubt is an essential function of thought. It's the basis of our culture. To try and remove doubt from our heads is like trying to remove air from our lungs. I make no claim whatsoever to have clear, precise answers to the world's problems, which is why I'm not a politician. But I do think it's useful for me to be allowed to have doubts about other people's answers, and to ask honest questions concerning them. It shouldn't be a crime to speak of peace in times of war such as these.
Unfortunately, there's been a desperate clamour for orthodoxy even here in Italy, not least in the "official" world of politics and the media. It's as if we were already frightened of America. We may switch on the television and hear a post-communist holding an important office in his party inform us that Private Ryan is an important symbol of America, the country which twice came to our rescue. But did that same politician not also take part in marches against American involvement in Vietnam?
I realize this is a very difficult time for the politicians. I understand them, and I particularly appreciate the difficulties of someone such as our own Prime Minister who, having chosen the path of power as a shortcut to solving his little conflict of earthly interests, now finds himself caught up in a huge conflict where the interests are all divine, a war of civilization being fought in the name of God and Allah. No, I don't envy the politicians.
We're very lucky, Oriana. We have precious little to decide, and not actually being in the river ourselves, can enjoy the privilege of standing on the bank and watching the current flow. But with privilege comes responsibility, and one responsibility we bear is the far from easy task of getting behind the truth to try to "construct fields of coexistence rather than fields of battle", as Edward Said, a Palestinian professor now at Columbia University, wrote in an essay on the role of the intellectual which appeared just a week before the massacres in America.
Part of our trade involves simplifying what is complicated. But we can't exaggerate by presenting Arafat as the quintessence of duplicity and terrorism and accusing our Muslim immigrant communities of being incubators of terrorists. From now on your arguments are going to be used in schools to counteract the kind of position which makes a virtue out of goodness, as exemplified by Edmondo De Amicis's Cuore. But do you really believe the Italians of tomorrow will be any the better for being nurtured on this kind of intolerant over-simplification?
Wouldn't it be better to spend a moment looking at Islam in religious education classes, or study Rumi or Omar Khayyam, whom you despise, in literature lessons? Wouldn't it be better for at least a handful to study Arabic, alongside the many who already study English and even Japanese?
Did you know that there are only two officials who speak Arabic in the Italian Foreign Ministry, even though Italy looks directly onto the Mediterranean basin and onto the Muslim world? Or that, as is the way of things here, one of them is currently consul in Adelaide, Australia?
A phrase of Toynbee's keeps going round in my mind: "The works of artists and writers live longer than the deeds of soldiers, statesmen and businessmen. Poets and philosophers go further than historians. But the saints and prophets are worth more than the rest put together".
Where are the saints and prophets today? We could certainly do with at least one! We need a St Francis. There were crusades in his day, too, but he was concerned with the others, the ones the crusaders were fighting against. He did all he could to go and find them. The first time he tried, the ship he was sailing on was wrecked, and he only just survived. He tried again, but fell ill on the way and had to turn back. Then, in the siege of Damietta in Egypt during the fifth crusade, embittered by the crusaders' behaviour ("he saw evil and sin"), but deeply moved by the sight of the dead on the battlefield, he finally crossed the front line. He was taken prisoner, chained and brought before the Sultan. It's a shame CNN didn't exist in 1219, because it would have fascinating to see this meeting on television. It must have been remarkable, because after a conversation which doubtless lasted deep into the night, the Sultan allowed St Francis return unharmed to the crusaders' encampment the next morning.
I like to imagine each putting his viewpoint to the other, St Francis speaking of Christ, the Sultan reading passages from the Koran, and them ultimately agreeing with each other on the message that the poor friar of Assisi repeated wherever he went: "Love your neighbour as yourself". I also like to imagine there was no aggression between them, given that the friar knew how to laugh as well as preach, and that they parted on good terms in the knowledge that they couldn't stop the course of history anyway.
But today, not to stop history might mean bringing it to an end. Do you remember Father Balducci, Oriana, who used to preach in Florence when we were young? Referring to the horror of the atomic holocaust, he asked a very pertinent question: "Has man become any more human because of the end-of-the-world syndrome, because of the choice between being and not being?". Looking around, I think the answer must be "no". But we can't give up hope.
"Tell me, what is it that drives man to war?" Albert Einstein asked Sigmund Freud in a letter in 1932. "Is it possible to channel the psychic evolution of man in such a way that he may become better able to resist the psychosis of hate and destruction?"
Freud took two months to reply. He concluded that there were grounds for hope.
Two factors would help put an end to war in the short term, he believed: a more civil attitude, and the justified fear of the effects a war in the future might have.
Death spared Freud the horrors of the Second World War just in time, but not Einstein, who became more and more convinced of the need for pacifism. Shortly before his death in 1955, he made a final appeal to humanity for its survival from the little house in Princeton where he had taken shelter: "Remember your humanity, and forget the rest".
It isn't necessary to attack in order to defend, Oriana (I'm referring to your spitting and kicking). One doesn't have to kill in order to defend oneself, though there may be justifiable exceptions. In the Jataka, the stories of Buddha's previous lives, I've always liked the one where even he, the epitome of non-violence, commits a murder in a previous incarnation. He's on a boat with five hundred other passengers when, already endowed with the gift of second sight, he "sees" that one of them, a bandit, is about to kill and rob the others. He prevents him from doing so by throwing him into the water. The bandit is drowned and the rest are saved.
To be against the death penalty doesn't mean being against penalties as such or in favour of criminal liberties. But in order to punish justly we must respect certain rules, rules which are the product of a civilized society. The reasons for punishment must be convincing, and above all there must be proof. The leaders of Nazi Germany were brought to trial in Nuremberg, and the Japanese leaders responsible for all the atrocities committed in Asia in Tokyo. All of them were duly hanged. The evidence against each of the defendants was overwhelming. But Osama bin Laden?
"While talks are on for the extradition of CEOs, can India put in a side request for Warren Anderson of the US? We have collated the necessary evidence. It's all in the files. Could we have him, please?" Arundhati Roy, author of The God of Small Things, put this question to the Americans from India a few days ago, clearly in order to provoke. Like you, Oriana, she's famous and controversial, loved and hated. Always ready to kick up a fuss, like you, she used the worldwide debate on Osama bin Laden to demand that the American chairman of Union Carbide, responsible for the explosion in a chemical factory in Bhopal which killed 16,000 people in 1984, be tried in an Indian court. Is he too a terrorist? Very possibly, from the point of view of those who were killed.
The terrorist who has now been singled out as the "enemy" to be defeated is the Saudi billionaire who orders the attack on the Twin Towers from his lair in the mountains of Afghanistan. He's the engineer-pilot and fanatical Muslim who kills himself and thousands of innocent people in the name of Allah. He's the Palestinian boy who carries a bag full of dynamite and blows himself to smithereens in the middle of a crowd.
Yet we must accept that for others, the "terrorist" may be the businessman who arrives in a poor Third World country, not with a bomb in his briefcase but plans for a chemical factory, which could never have been built in a wealthy First World country because of the risks of explosion and pollution. And what about the nuclear power station which gives cancer to the people living nearby, or the dam which makes thousands of families homeless? Or even the construction of hosts of little factories, which concrete over ancient ricefields in order to produce transistor radios or trainers, until such time as it is cheaper to take production elsewhere and the factories are closed, leaving the workers unemployed and bereft of the fields in which they could have grown rice, and the people to die of starvation?
This isn't relativism. I'm merely saying that terrorism, understood as a way of using violence, can express itself in different ways including economic, and that it will be hard to agree on a common definition of the enemy to be defeated.
The governments of the West are today united in backing the United States. They claim to know exactly who the terrorists are and how they are to be fought, but the people of the countries themselves seem less convinced. So far there have been no mass demonstrations for peace in Europe, but there is a widespread sense of unease, as widespread as the confusion over what should take the place of war. "Give us something nicer than capitalism", said a placard carried by a demonstrator in Germany.
"Un mondo giusto non è mai NATO", "A fair world has never been born", said a banner carried by some young people marching in Bologna a few days ago (playing on the Italian word "nato", "born"). True enough. A "fairer" world is perhaps what we'd all like, now more than ever. A world in which those who have plenty look out for those who have nothing. A world which is governed by principles of lawfulness, and based on just a little more morality.
The enormous, composite alliance which Washington is putting together, overturning former coalitions and reconciling countries and individuals which previously had been at loggerheads simply because it's now in their interests, is just another example of that political cynicism which currently feeds terrorism in certain parts of the world and discourages so many fine people in our own countries.
The United States has recently tried to get the United Nations involved too, in order to have the greatest possible backing and give its war against terrorism a veneer of international legality. Yet no country has been more reluctant than the U.S. to pay its dues to the institution housed in the glass palace. It still hasn't signed the International Court of Justice statute or the treaty for banning anti-personnel mines, let alone the Kyoto Treaty on climate change.
American national interests take precedence over all other considerations. For this reason Washington has now rediscovered the usefulness of Pakistan, a country previously to be kept at a distance because of its military regime, and punished with economic sanctions for its experiments with the nuclear bomb. For this reason too the CIA will again soon be authorized to hire mafiosi and gangsters, to whom it will entrust the dirty job of liquidating the people it has put on its blacklist here and there around the globe.
And yet one day politics will have to join hands again with ethics if we want to live in a world which is better, better in Asia as in Africa, better in Timbuktu as in Florence.
And while we're on the subject of Florence, Oriana, I too am hurt and saddened by it every time I'm here, as I am now. Everything's changed, everything's been cheapened. But Islam isn't to blame, nor are the immigrants who've taken root here. They aren't the ones who've made this into a city of shopkeepers that's sold itself to tourism. The same has happened everywhere. Florence was beautiful when it was smaller and poorer. Now it's hideous, but not because Muslims hang around Piazza del Duomo, because the Filipinos meet in Piazza Santa Maria Novella on Fridays and the Albanians congregate in front of the station every day. It's hideous because it too has been globalized, because it's failed to stand firm against the march of those market forces which till yesterday seemed irresistible.
In the space of two years, Via Tornabuoni, a lovely old street in the centre of Florence where I've enjoyed going for a stroll ever since I was a boy, has lost an historic bookshop, an old caf, a traditional chemist's and a music shop. And what has taken their place? Lots and lots of fashion shops. Believe me, Oriana, I don't feel at home here any more either.
Which is why I too have retreated, to a kind of chalet in the Indian Himalayas, looking out on the most divine mountains in the world. I spend hours alone, just looking at them in their majesty and stillness, a symbol of the utmost stability. Yet they too, like everything in the universe, reveal their diversity and impermanence with the passing of the hours. Nature is a great teacher, Oriana, and every now and then one has to return to her and sit at her feet. You too, Oriana. Boxed up in an apartment which is boxed up in a skyscraper, looking out on other skyscrapers full of boxed up people, you'll end up feeling truly alone. You'll feel your existence is an accident rather than part of a whole which is greater, far greater, than all the skyscrapers which stand before you and even those which are no longer there. Look at a blade of grass in the wind and imagine you're like it. Even your anger will pass.
I bid you farewell, Oriana, and hope with all my heart that you find peace.
Because if there's no peace within us, there won't be peace anywhere else either.
*
LETTER FROM THE HIMALAYAS
What shall we do?
In the Indian Himalayas, 17 January 2002
I like being in a body that's growing old. I can look at the mountains without feeling I have to climb them. When I was young I'd have wanted to conquer them. Now I can let them conquer me. The mountains, like the sea, remind us of a dimension of greatness which can inspire and uplift us. That same greatness is also in each of us, but we find it difficult to recognize. This is why we're attracted to mountains. This is why so many men and women over the centuries have come here to the Himalayas, hoping these heights would reveal the answers that eluded them while they were down in the valley. They still come.
Last winter, an old sanyasi dressed in saffron came past my retreat with his disciple, who was also a renouncer. "Where are you going, Maharaj?", I asked him. "In search of God", he replied, as if it were the most obvious thing in the world.
I come here, as I've done this time, to try to get some kind of order into my head. The impressions of the past months have been very powerful, and I need silence before I set out again, before I go down to the valley once more. Only in this way can one hope to hear the voice that knows, the voice that speaks within us. Maybe it's just the voice of common sense, but it's a voice which is true.
The mountains are always generous. They present me with dawns and sunsets that are unrepeatable. The silence is broken only by the sounds of nature, which makes it seem even more alive.
Life here is simple in the extreme. I write sitting on a wooden floor, my computer powered by a solar panel. I get my water from a spring, which the animals of the woods drink from too, sometimes even a leopard. I cook rice and vegetables over a gas cylinder, and am careful not to throw away the used matches. Everything here is pared to a minimum. Nothing is wasted, and you soon learn to give everything back its original value. Simplicity is a great help when you want to sort things out.
Sometimes I wonder if the sense of frustration and powerlessness which any, especially the young, feel when confronted with the world of today is not due to he fact that it seems so complicated and hard to understand. The only possible reaction is to believe it's the world of someone else, a world you're not allowed to get your hands on or change. And yet it's not true. This is everybody's world.
Faced with the complexity of these inhuman mechanisms operated goodness knows where by goodness knows who, the individual becomes more and more disorientated and feels more and more lost, till he ends up just doing his little job at work, the task he has before him, dissociating himself from all the rest and increasing his sense of isolation and uselessness. This is why I think it's important to bring every problem back to its essentials. If the basic questions are asked, the answers will come more easily.
Do we want to get rid of weapons? Fine. Then let's not get lost in discussions about whether closing down factories which manufacture rifles, munitions, anti-personnel mines or atomic bombs will cause unemployment. Let's resolve the moral issue first. The economic one can come later. Or do we just want to meekly give in to the idea that the economy decides everything, and that all we're interested in is what can make us a profit?
People object that there have always been wars throughout history, so they're hardly likely to stop now. "But why does the same old story have to be repeated? Why not try and start a new one?", Gandhi used to reply to anyone he heard make this tired, clichd objection.
The idea that man can break with his past and make a qualitative leap in his evolution was common in nineteenth-century Indian thought. The argument is simple: if homo sapiens, the current stage in our development, is the product of our having evolved from the apes, why can we not imagine that man will mutate again and turn into a more spiritual being, one who is less attached to the material realm, more committed to his relationship with his neighbours and less rapacious with regard to the rest of the universe?
Seeing that this evolution is bound up with the question of consciousness, why don't we consciously try and take the first step in the right direction? There couldn't be a better time to do so, now that this homo sapiens has reached the peak of his might, including his ability to destroy himself with those weapons he so unwisely created.
Let's take a look in the mirror. There can be no doubt that we've made enormous progress in the previous millennia. We've learnt to fly like birds, swim under water like fish, land on the moon and send probes as far as Mars. Now we can even clone life. Yet despite all this, we're not at peace with ourselves or the world around us. We've trampled the earth, polluted rivers and lakes, cut down entire forests and made life hell for the animals, apart from the few we call our friends and pamper till they meet our need of a substitute for human company.
Air, water, earth and fire, which all ancient civilizations saw as the primary elements of life and hence sacred, were once capable of self-regeneration. Not any more, since man succeeded in dominating them and manipulating their power to his own ends. Their sacred unity has been polluted, the balance shattered.
Great material progress has not been matched by great spiritual progress. Quite the opposite. Indeed, from this point of view perhaps man has never been so poor as since he became so rich. This is why man should now consciously reverse this trend and wrest back control of that most extraordinary tool, his mind.
Thus far man has used his mind mostly to understand and take possession of the world outside him, as if this were the sole source of our elusive happiness. Now it's time for him to re-apply his mind to exploring the inner world and the knowledge of the self.
Are these the barmy ideas of some fakir on a bed of nails? No, not at all. They're ideas which have been gaining ground in the world for some time now. They've gained ground in the West, where the systems they are meant to be directed against have already swallowed them back up and turned them into the products of an immense alternative market which ranges from yoga classes to meditation courses, from aromatherapy to spiritual vacations for those who are tired of chasing after the hare of material happiness. These ideas are also gaining ground in the Muslim world, torn between tradition and modernity, where the traditional meaning of jihad is being rediscovered, not just a holy war against an external enemy but an inner holy war, against man's basest instincts and passions.
Thus we shouldn't just write off the possibility that man can aspire to higher things in the course of his spiritual development. The point is not to continue blindly on in the same direction we're taking at the moment. This direction is madness, as are the wars of Osama bin Laden and George W. Bush. Both of them use the name of God, but their massacres are not any more divine because of it.
So let's call a halt. Let's imagine the present from the point of view of our great-grandchildren. Let's look at today from the perspective of tomorrow, so we don't have to regret having missed an opportunity. The chance we now have is to understand once and for all that the world is one, that every part has its meaning, that it's possible to replace the logic of competition with the ethic of co-existence, that no-one has a monopoly on anything, that the idea that one civilization can be superior to another is the product of ignorance, that harmony, like beauty, lies in the balance of opposites, and that to eliminate one of these opposites is pure sacrilege. What would day be like without night? or life without death? what would happen to good, if Bush manages to keep his promise and wipe out from the world all evil?
This obsession with reducing everything to uniformity is very Western. Vivekananda, the great Indian mystic, travelled round the United States at the end of the nineteenth century to promote Hinduism, and after one of his lectures in San Francisco, an American lady got up and asked: "Don't you think the world would be more beautiful if there were only one religion for all men?". "No", replied Vivekananda, "maybe it would be even more beautiful if there were as many religions as there are men".
"Empires wax and wane", begins The Romance of the Three Kingdoms, one of the classics of Chinese literature. Such will be the fate of the American empire too, especially if it seeks to impose itself by the brute force of its now highly sophisticated weapons rather than by spiritual values and the original ideals of its founding fathers.
Two old crows were the first to notice I'd come back to the mountains. Every morning at breakfast time they settle in the deodar, the tree of God, a mighty cedar in front of my house, and caw for all they're worth till I give them the remains of my yoghurt, which I've learnt to make myself, and the last grains of rice in my bowl. I wouldn't be able to forget they're here even if I wanted to. Nor do they let me forget the story the Indians tell their children about crows. A man who was sitting under a tree in his garden, as I am, one day found he could stand the crows' petulant cawing no longer. He summoned his servants, who came and drove them away with stones and sticks.
But the Creator, who awoke from his nap at that moment, realized straight away that a voice was missing from the great concert of the universe, and furiously sent one of his assistants to rush down to earth and put the crows back on the deodar.
Here life is lived to the rhythm of nature. There's a strong sense that life is one, that you can't add to or subtract from it with impunity. Everything is linked, every part is the whole.
The Vietnamese monk Thich Nhat Hanh puts it very well when he speaks of a table, a little low table like the one I'm writing on now. The table is here because of an infinite chain of events, things and people: the rain which fell on the woods where the tree grows that a woodcutter felled and gave to a carpenter, who put it together with nails made by a blacksmith with iron dug from a mine. If a single element in this chain hadn't existed, even the great-grandfather of the carpenter, this table wouldn't be here now.
While I was living in Japan, to protect the climate of their islands the Japanese had the bright idea of cutting down not their own forests but those of Indonesia and the Amazon basin. Soon they had to admit that even this would affect them - their actions changed the climate of the whole earth, including that of Japan.
By the same token, we cannot today imagine that we can keep a large part of the world poor while our bit of the globe gets richer and richer. Sooner or later, in one form or another, the bill will be laid at our feet, whether it's man or nature
herself who'll bring it to us.
Up here, the impression that nature has a psychic presence of her own is very strong. Sometimes, when I'm all wrapped up against the cold, and I stop everything to go and sit on a ridge nearby and watch the first rays of sun lighting up the peaks of the glaciers, slowly lifting the veil of darkness and revealing chain after chain of other mountains from the milky depths of the valleys, an air of immense joy pervades the world, and I too am caught up in it, along with the trees, the birds and the ants, the same life represented in so many different magnificent forms.
It's feeling cut off from all this that makes us unhappy, as does feeling cut off from our fellow men. "War doesn't only break men's bones, it also breaks their human relationships", the dynamic Gino Strada said to me in Kabul. To mend these relations, as well as the physical gashes he mends in the emergency hospital, Strada has a ward where young Taliban soldiers lie just a step or two away from their enemies from the Northern Alliance. The Taliban are prisoners and the Northern Alliance soldiers are not, but Strada hopes that their common mutilations and similar wounds will help bring them together.
Dialogue is an enormous help in resolving conflicts. Hatred only nurtures more hatred. A Palestinian sniper kills an Israeli woman in a car, the Israelis react by killing two Palestinians, a Palestinian swathes himself in dynamite and blows himself and a dozen young Israelis up in a pizza restaurant, the Israelis send a helicopter to bomb a bus full of Palestinians, the Palestinians... need I go on? How long will it all continue? until there are no Palestinians or Israelis left? until all the bombs are finished?
Certainly there are reasons for every conflict, and these have to be addressed. But it will all be useless unless one party acknowledges the other's existence and recognizes they are equal, until we all accept that violence only ever leads to more violence.
"Fine words. But what can we do?", I hear someone say, even through the silence. Every one of us can do something. Together we can do thousands of things.
The war against terrorism is being used today to militarize our society, to produce new weapons and increase defence spending. Let's oppose this, and refuse to vote for anyone who's behind such policies. Let's check where we've invested our savings, and withdraw them from any company that's even remotely linked to the arms industry. Let's say what we know and feel to be the truth, that killing under all circumstances is murder.
Let's talk about peace, and introduce a culture of peace into our children's education. Why should we always teach history as if it were an unending sequence of wars and massacres?
With all my Western studies, I had to come to Asia before I discovered Ashoka, one of the most extraordinary characters in antiquity. Ashoka lived three centuries before Christ, and at the peak of his power, after he'd added yet another kingdom to his already vast empire extending from India to Central Asia, he realized that violence was absurd, decided the greatest victory of all was that of conquering men's hearts, renounced war, and had his new ethic carved in stone in each of the numerous languages which were spoken in his territories at the time. One of Ashoka's memorial stones inscribed in Greek and Aramaic was discovered in 1958 at Kandahar, the spiritual home of Mullah Omar where the U.S. marines are now camped out. Another one stands at the entrance to the National Museum in Delhi; Ashoka
announces in it the opening of two hospitals: one for humans and one for animals.
The causes of war are to be found within us, more than they are outside us. They are to be found in passions such as desire, fear, insecurity, greed and vanity. Gradually we have to rid ourselves of them. We need a change of attitude. Decisions which affect us and others, let's make them on the basis of a bit more morality and a bit less self-interest. Let's do more of what is right, and less of what's just convenient. And let's bring our children up to be honest rather than crafty.
Let's restore certain traditions of good behaviour, even to the point of reclaiming our language from the kind of talk where the word "God" has become a kind of obscenity. Let's go back to talking about "making love" rather than "having sex". Even this will make a big difference in the long run.
It's time to move out into the open, time to make a stand for the values we believe in. A society gains much more strength by its moral resolution than it does by acquiring new weapons.
Above all, let's stop, take time to think, hold our tongues. Often we feel tormented by the life we lead, like the man who flees in terror from his own shadow and the echoes of his own footsteps. The more he runs, the more his shadow seems to stalk him, the more he hears his own footsteps clatter, the more he is frightened. Until he stops and sits in the shade of a tree. Let's do the same.
Viewed from the perspective of the future, these are days in which it's still possible to do something. So let's do it, sometimes on our own, sometimes all together. It's an opportunity.
The road is a long one, and in parts still to be invented. But would we rather take the path of brutalization which lies before us, or the even quicker one which leads straight to our extinction?
So have a good journey outside as well as inside!
The Sultan and St Francis
Oriana,
From the windows of a house not far from the one where you too were born, I look out on the austere, elegant blades of the cypress trees silhouetted against the sky. I think of you in New York, as you look out of your windows at the panorama of skyscrapers from which the Twin Towers are now missing. I recall going for a long walk with you one afternoon many, many years ago, along the little roads through the olive-trees which give our hills their silvery colour. I was starting out on my career, a novice in the profession where you were already a giant. I remember you suggested we exchange "letters from two different worlds", me from China, where I had gone to live in the immediate aftermath of the Mao era, you from America. It was my fault it never happened. But I've taken the liberty of writing to you now, in response to the offer you so generously made back then and certainly not to engage you in a correspondence
which both of us would rather avoid. I can honestly say, I've never felt as keenly as I do now that though you and I share the same planet, actually we live in two different worlds.
I'm also writing, publicly, for those of your readers who, perhaps like me, were almost as stunned by your outburst as they were by the collapse of the Towers. I'm writing to let them know they're not alone. Thousands of people perished in those Towers, and with them our sense of security. What seemed to die in your words is
reason, the noblest part of the human mind, and compassion, the noblest sentiment of the human heart.
Your outburst struck me, and it wounded me. It made me think of Karl Kraus. "Let him who has something to say come forward and be silent", he wrote, in despair at the fact that the unspeakable horrors of the First World War had loosened rather than stilled people's tongues, causing them to fill the air with a confused, absurd babble. For Kraus, to be silent meant to pause for breath, to look for the right words, to think before speaking. He used this conscious silence to write The Last Days of Mankind, a work which even today seems disturbingly topical.
You have every right to think and write what you do, Oriana. But the problem is, your fame ensures your brilliant lesson in intolerance is now making its way into schools and influencing our children. That upsets me.
These are extraordinarily important days. The unspeakable horror has hardly begun, but we still have time stop it and turn it into a chance to rethink things on a large scale. It's also a time of enormous responsibilities. Impassioned words from loosened tongues merely awaken our basest instincts. They rouse the beast of hatred which lies dormant in us all. They provoke the kind of blind emotions which render every crime conceivable, which make us, like our enemies, entertain the possibility of suicide and murder.
"To conquer the subtle passions seems to me to be harder far than physical conquest of the world by the force of arms", wrote the noble-minded Gandhi in 1925. He went on: "So long as man does not of his own free will put himself last among his fellow creatures, there is no salvation for him".
You, Oriana, have put yourself in the highest place in this crusade against everyone who is not like you and everyone you dislike. Do you really believe you're offering us salvation? There's no salvation in your burning anger, just as there's no salvation in the calculated military campaign called "Enduring Freedom" to make it more acceptable. Or do you really think that violence is the best way to defeat violence? No war has ever put an end to war, and nor will this one.
Something new is happening to us. The world is changing around us. We too must change our way of thinking and the way we relate to the world. It's an opportunity. Let's not waste it. Let's throw everything open to discussion and imagine a different future for ourselves from the one we thought we'd have before 11 September. Above all, let's not give in to anything as if it were inevitable, least of all to war as an instrument of justice or pure revenge.
All wars are dreadful. The modern tendency to refine the techniques of destruction and death simply makes them more so. Think about it. If we're prepared to fight this war using every weapon at our disposal including the atomic bomb, as the American Secretary of Defence has been suggesting, then we must expect our enemies, whoever they are, to be even more determined than they were before to do exactly the same, to disregard the rules and ignore every principle. If we respond to the attack on the Twin Towers with even more terrible violence, first in Afghanistan, then Iraq, then who knows where, this too will be met with violence which is worse still, then we will be forced to retaliate once again, and so on and so forth.
Why not just call a halt to it all now? We've lost all measure of who we are. We've forgotten how fragile and interconnected the world we live in is. We've deceived ourselves into thinking that a dose of violence, if applied "intelligently", can put an end to the dreadful violence of others. We should think again. We should ask those of us who possess nuclear, chemical and biological weapons, chief among whom is the United States, to give their solemn pledge that they will never be first to use them, rather than ominously reminding us of their existence. Now this really would be ground-breaking.
Not only would it give those who make such a pledge an advantage in moral terms, which in itself could prove to be a handy weapon in the future, but it might also be just enough to defuse the unspeakable horror which has been set in motion by this chain reaction of vengeance.
In the past few days I've rediscovered a lovely book by an old friend of mine, which came out in Germany a couple of years ago. It's called Die Kunst, nicht regiert zu werden: ethische Politik von Sokrates bis Mozart, "The Art of not being Governed: Ethical Politics from Socrates to Mozart", and it's by Ekkehart Krippendorff, who taught in Bologna for years before returning to the University of Berlin.
Krippendorff's fascinating thesis is that politics in its noblest form arises from the need to transcend revenge. Western culture, according to this view, has its deepest roots in certain myths, such as the story of Cain and Abel or the Erinyes, which have always served to remind man of his need to break out of the vicious cycle of revenge if civilization is to be established. For instance, Cain murders his brother but God forbids man to avenge Abel's death. Instead, he marks Cain with a sign, which also serves as a form of protection, and condemns him to exile where he founds the first city [Kabul, according to an Afghan legend]. Vengeance thus belongs to God, not man.
According to Krippendorff, theatre from Aeschylus to Shakespeare has had a crucial role in shaping Western man. Putting all the characters in a conflict on stage, with their different points of view, their second thoughts and their possible choices of action, encourages the audience to reflect on the significance of the passions, and on the futility of violence which can never achieve its aim.
Sadly, the only protagonists and spectators on the world stage today are us Westerners. Through our television and newspapers we hear only our own reasons and experience, only our own sorrow. The world of others is never represented.
The kamikaze might not interest you, Oriana, but I'm very interested in them. I spent days in Sri Lanka with some young Tamil Tigers who had made vows to suicide.
I'm interested in the young Palestinian Hamas who blow themselves up in Israeli pizzerias. Perhaps even you would have felt a moment's compassion if you'd visited the centre where the first kamikaze were trained at Chiran on the island of Kyushu in Japan, and read the tragic, poetic words they wrote in secret before setting out, reluctantly, to die for flag and Emperor.
The kamikaze interest me because I'd like to understand what makes them so willing to commit an act as unnatural as suicide, and perhaps even find out what could stop them from doing so. Those of us who are fortunate enough to have children without having to write posthumous letters to them are deeply concerned today at the thought of seeing them burn in the fire of this new, rampant kind of violence, of which the massacre of the Twin Towers may be no more than one episode. It is not a question of justifying or condoning but of understanding, because I'm convinced that the problem of terrorism will not be resolved by killing terrorists, but by eliminating the causes that make people become such.
Nothing in human history is simple to explain, and there's rarely a direct, precise correlation between one event and another. Even in our own lives, every event is the product of thousands of causes, which work together with that event to produce thousands of other effects, which in turn cause thousands more. The attack on the Twin Towers was one such event, the consequence of countless previous complex events. It's certainly not the act of "a war of religion" perpetrated by Muslim extremists to conquer our souls, a crusade in reverse as you call it, Oriana. Nor is it "an attack on freedom and western democracy", as the simplistic formula used by politicians would have it.
An elderly academic at Berkeley University, a man whom no-one would suspect of anti-Americanism or leftist sympathies, has given a completely different interpretation of the event. "The suicidal assassins of September 11 2001 did not 'attack America', as our political leaders and news media like to maintain; they attacked American foreign policy," writes Chalmers Johnson in the October issue of The Nation.
For Johnson, the author of several books, the latest of which, Blowback, was published last year and has an almost prophetic quality, it represents the umpteenth "blowback", deriving from the fact that the United States has managed to maintain its imperial network of some 800 military installations around the world despite the end of the Cold War and the break-up of the Soviet Union.
In an analysis which during the Cold War years would have seemed like a product of KGB disinformation, Johnson lists all the dirty tricks, conspiracies, coups, persecutions, murders and intervention in favour of corrupt dictatorial regimes in which the United States has overtly or covertly been involved in Latin America, Africa and Asia, including the Middle East, from the end of the Second World War to the present day.
He claims that the attack on the Twin Towers and the Pentagon is a "blowback" forming part of a whole series of such events, which started with the CIA's operation to overthrow the government of Mossadegh in Iran and install the Shah in power in 1953, and goes right up to the Gulf War, and the permanent stationing of American troops in the Arabian peninsula, especially Saudi Arabia, the home of Islam's holy places.
According to Johnson, this policy "helped convince many capable people throughout the Islamic world that the United States was an implacable enemy". This explains the virulent anti-Americanism which has spread throughout the Muslim world and today so surprises the United States and its allies.
However precise or imprecise Chalmers Johnson's analysis may be, it's clear that the main reason for all our and America's problems in the Middle East, apart from the Israeli-Palestinian question, is the West's obsessive concern to ensure the region's oil reserves remain in the hands of regimes which are "friendly", whatever else they may be. This is a trap, and now we've got an opportunity to escape from it.
Why not review our economic dependence on oil? Why not look closely at every alternative potential source of energy, as we could have done at any point in the past twenty years?
We could thus have avoided getting involved with regimes in the Gulf which are no less repressive or odious than the Taliban. We could thus also avoid the increasingly disastrous "blowbacks" which the opponents of such regimes will unleash on us. At the very least, we could help to maintain a better ecological balance on the planet. We could even save Alaska, which just a couple of months ago was opened up to drilling by President Bush himself, whose political roots, as we all know, are in the oil business.
And while we are on the subject of oil, Oriana, I'm sure you too will have noted how, with everything that's being written and said about Afghanistan in these days, hardly anyone has mentioned that much of the interest in that country is due to the fact that any pipeline carrying the immense resources of natural gas and oil from Central Asia, i.e. those countries which used to be Soviet republics and have now all become United States allies, to Pakistan, India and then on to the countries of South-East Asia, has to pass through it if it is to avoid going via Iran. No-one in these days has mentioned the fact that as recently as 1997, two delegations from the horrible Taliban were received to discuss this matter in the Department of State in Washington, and that Unocal, a large American oil company advised by Henry Kissinger no less, signed an agreement with Turkmenistan to build a pipeline through Afghanistan.
Behind all the speeches stressing the need to protect freedom and democracy, the imminent attack on Afghanistan may thus conceal another less high-sounding but no less significant motive.
For this reason some American intellectuals have begun to express concern that the combined interests of the oil and arms industries, a combination which is very well represented in the administration which currently runs Washington, should decide that American foreign policy will operate in one way only, and in the name of counter- terrorist emergency regulations restrict those extraordinary freedoms which make life there so special.
The fact that an American television journalist was reprimanded from the White House pulpit for wondering if Bush's use of the adjective "cowardly" was appropriate to describe the suicidal terrorists, along with the fact that certain programmes have been censured and certain correspondents deemed heterodox and removed from their newspapers, has obviously done nothing to dispel such anxieties.
Dividing the world into "those who are with us and those who are against us" in a way which strikes me as being typically Taliban, clearly creates the necessary conditions for the kind of witch-hunts that America suffered in the 1950s under McCarthy, when so many intellectuals, academics and state officials were unjustly accused of being communists or sympathizers, and were persecuted, tried, and very often left jobless.
The tirade you spat out against the people you call "cicadas" and "intellectuals of doubt" goes in much the same direction, Oriana. Doubt is an essential function of thought. It's the basis of our culture. To try and remove doubt from our heads is like trying to remove air from our lungs. I make no claim whatsoever to have clear, precise answers to the world's problems, which is why I'm not a politician. But I do think it's useful for me to be allowed to have doubts about other people's answers, and to ask honest questions concerning them. It shouldn't be a crime to speak of peace in times of war such as these.
Unfortunately, there's been a desperate clamour for orthodoxy even here in Italy, not least in the "official" world of politics and the media. It's as if we were already frightened of America. We may switch on the television and hear a post-communist holding an important office in his party inform us that Private Ryan is an important symbol of America, the country which twice came to our rescue. But did that same politician not also take part in marches against American involvement in Vietnam?
I realize this is a very difficult time for the politicians. I understand them, and I particularly appreciate the difficulties of someone such as our own Prime Minister who, having chosen the path of power as a shortcut to solving his little conflict of earthly interests, now finds himself caught up in a huge conflict where the interests are all divine, a war of civilization being fought in the name of God and Allah. No, I don't envy the politicians.
We're very lucky, Oriana. We have precious little to decide, and not actually being in the river ourselves, can enjoy the privilege of standing on the bank and watching the current flow. But with privilege comes responsibility, and one responsibility we bear is the far from easy task of getting behind the truth to try to "construct fields of coexistence rather than fields of battle", as Edward Said, a Palestinian professor now at Columbia University, wrote in an essay on the role of the intellectual which appeared just a week before the massacres in America.
Part of our trade involves simplifying what is complicated. But we can't exaggerate by presenting Arafat as the quintessence of duplicity and terrorism and accusing our Muslim immigrant communities of being incubators of terrorists. From now on your arguments are going to be used in schools to counteract the kind of position which makes a virtue out of goodness, as exemplified by Edmondo De Amicis's Cuore. But do you really believe the Italians of tomorrow will be any the better for being nurtured on this kind of intolerant over-simplification?
Wouldn't it be better to spend a moment looking at Islam in religious education classes, or study Rumi or Omar Khayyam, whom you despise, in literature lessons? Wouldn't it be better for at least a handful to study Arabic, alongside the many who already study English and even Japanese?
Did you know that there are only two officials who speak Arabic in the Italian Foreign Ministry, even though Italy looks directly onto the Mediterranean basin and onto the Muslim world? Or that, as is the way of things here, one of them is currently consul in Adelaide, Australia?
A phrase of Toynbee's keeps going round in my mind: "The works of artists and writers live longer than the deeds of soldiers, statesmen and businessmen. Poets and philosophers go further than historians. But the saints and prophets are worth more than the rest put together".
Where are the saints and prophets today? We could certainly do with at least one! We need a St Francis. There were crusades in his day, too, but he was concerned with the others, the ones the crusaders were fighting against. He did all he could to go and find them. The first time he tried, the ship he was sailing on was wrecked, and he only just survived. He tried again, but fell ill on the way and had to turn back. Then, in the siege of Damietta in Egypt during the fifth crusade, embittered by the crusaders' behaviour ("he saw evil and sin"), but deeply moved by the sight of the dead on the battlefield, he finally crossed the front line. He was taken prisoner, chained and brought before the Sultan. It's a shame CNN didn't exist in 1219, because it would have fascinating to see this meeting on television. It must have been remarkable, because after a conversation which doubtless lasted deep into the night, the Sultan allowed St Francis return unharmed to the crusaders' encampment the next morning.
I like to imagine each putting his viewpoint to the other, St Francis speaking of Christ, the Sultan reading passages from the Koran, and them ultimately agreeing with each other on the message that the poor friar of Assisi repeated wherever he went: "Love your neighbour as yourself". I also like to imagine there was no aggression between them, given that the friar knew how to laugh as well as preach, and that they parted on good terms in the knowledge that they couldn't stop the course of history anyway.
But today, not to stop history might mean bringing it to an end. Do you remember Father Balducci, Oriana, who used to preach in Florence when we were young? Referring to the horror of the atomic holocaust, he asked a very pertinent question: "Has man become any more human because of the end-of-the-world syndrome, because of the choice between being and not being?". Looking around, I think the answer must be "no". But we can't give up hope.
"Tell me, what is it that drives man to war?" Albert Einstein asked Sigmund Freud in a letter in 1932. "Is it possible to channel the psychic evolution of man in such a way that he may become better able to resist the psychosis of hate and destruction?"
Freud took two months to reply. He concluded that there were grounds for hope.
Two factors would help put an end to war in the short term, he believed: a more civil attitude, and the justified fear of the effects a war in the future might have.
Death spared Freud the horrors of the Second World War just in time, but not Einstein, who became more and more convinced of the need for pacifism. Shortly before his death in 1955, he made a final appeal to humanity for its survival from the little house in Princeton where he had taken shelter: "Remember your humanity, and forget the rest".
It isn't necessary to attack in order to defend, Oriana (I'm referring to your spitting and kicking). One doesn't have to kill in order to defend oneself, though there may be justifiable exceptions. In the Jataka, the stories of Buddha's previous lives, I've always liked the one where even he, the epitome of non-violence, commits a murder in a previous incarnation. He's on a boat with five hundred other passengers when, already endowed with the gift of second sight, he "sees" that one of them, a bandit, is about to kill and rob the others. He prevents him from doing so by throwing him into the water. The bandit is drowned and the rest are saved.
To be against the death penalty doesn't mean being against penalties as such or in favour of criminal liberties. But in order to punish justly we must respect certain rules, rules which are the product of a civilized society. The reasons for punishment must be convincing, and above all there must be proof. The leaders of Nazi Germany were brought to trial in Nuremberg, and the Japanese leaders responsible for all the atrocities committed in Asia in Tokyo. All of them were duly hanged. The evidence against each of the defendants was overwhelming. But Osama bin Laden?
"While talks are on for the extradition of CEOs, can India put in a side request for Warren Anderson of the US? We have collated the necessary evidence. It's all in the files. Could we have him, please?" Arundhati Roy, author of The God of Small Things, put this question to the Americans from India a few days ago, clearly in order to provoke. Like you, Oriana, she's famous and controversial, loved and hated. Always ready to kick up a fuss, like you, she used the worldwide debate on Osama bin Laden to demand that the American chairman of Union Carbide, responsible for the explosion in a chemical factory in Bhopal which killed 16,000 people in 1984, be tried in an Indian court. Is he too a terrorist? Very possibly, from the point of view of those who were killed.
The terrorist who has now been singled out as the "enemy" to be defeated is the Saudi billionaire who orders the attack on the Twin Towers from his lair in the mountains of Afghanistan. He's the engineer-pilot and fanatical Muslim who kills himself and thousands of innocent people in the name of Allah. He's the Palestinian boy who carries a bag full of dynamite and blows himself to smithereens in the middle of a crowd.
Yet we must accept that for others, the "terrorist" may be the businessman who arrives in a poor Third World country, not with a bomb in his briefcase but plans for a chemical factory, which could never have been built in a wealthy First World country because of the risks of explosion and pollution. And what about the nuclear power station which gives cancer to the people living nearby, or the dam which makes thousands of families homeless? Or even the construction of hosts of little factories, which concrete over ancient ricefields in order to produce transistor radios or trainers, until such time as it is cheaper to take production elsewhere and the factories are closed, leaving the workers unemployed and bereft of the fields in which they could have grown rice, and the people to die of starvation?
This isn't relativism. I'm merely saying that terrorism, understood as a way of using violence, can express itself in different ways including economic, and that it will be hard to agree on a common definition of the enemy to be defeated.
The governments of the West are today united in backing the United States. They claim to know exactly who the terrorists are and how they are to be fought, but the people of the countries themselves seem less convinced. So far there have been no mass demonstrations for peace in Europe, but there is a widespread sense of unease, as widespread as the confusion over what should take the place of war. "Give us something nicer than capitalism", said a placard carried by a demonstrator in Germany.
"Un mondo giusto non è mai NATO", "A fair world has never been born", said a banner carried by some young people marching in Bologna a few days ago (playing on the Italian word "nato", "born"). True enough. A "fairer" world is perhaps what we'd all like, now more than ever. A world in which those who have plenty look out for those who have nothing. A world which is governed by principles of lawfulness, and based on just a little more morality.
The enormous, composite alliance which Washington is putting together, overturning former coalitions and reconciling countries and individuals which previously had been at loggerheads simply because it's now in their interests, is just another example of that political cynicism which currently feeds terrorism in certain parts of the world and discourages so many fine people in our own countries.
The United States has recently tried to get the United Nations involved too, in order to have the greatest possible backing and give its war against terrorism a veneer of international legality. Yet no country has been more reluctant than the U.S. to pay its dues to the institution housed in the glass palace. It still hasn't signed the International Court of Justice statute or the treaty for banning anti-personnel mines, let alone the Kyoto Treaty on climate change.
American national interests take precedence over all other considerations. For this reason Washington has now rediscovered the usefulness of Pakistan, a country previously to be kept at a distance because of its military regime, and punished with economic sanctions for its experiments with the nuclear bomb. For this reason too the CIA will again soon be authorized to hire mafiosi and gangsters, to whom it will entrust the dirty job of liquidating the people it has put on its blacklist here and there around the globe.
And yet one day politics will have to join hands again with ethics if we want to live in a world which is better, better in Asia as in Africa, better in Timbuktu as in Florence.
And while we're on the subject of Florence, Oriana, I too am hurt and saddened by it every time I'm here, as I am now. Everything's changed, everything's been cheapened. But Islam isn't to blame, nor are the immigrants who've taken root here. They aren't the ones who've made this into a city of shopkeepers that's sold itself to tourism. The same has happened everywhere. Florence was beautiful when it was smaller and poorer. Now it's hideous, but not because Muslims hang around Piazza del Duomo, because the Filipinos meet in Piazza Santa Maria Novella on Fridays and the Albanians congregate in front of the station every day. It's hideous because it too has been globalized, because it's failed to stand firm against the march of those market forces which till yesterday seemed irresistible.
In the space of two years, Via Tornabuoni, a lovely old street in the centre of Florence where I've enjoyed going for a stroll ever since I was a boy, has lost an historic bookshop, an old caf, a traditional chemist's and a music shop. And what has taken their place? Lots and lots of fashion shops. Believe me, Oriana, I don't feel at home here any more either.
Which is why I too have retreated, to a kind of chalet in the Indian Himalayas, looking out on the most divine mountains in the world. I spend hours alone, just looking at them in their majesty and stillness, a symbol of the utmost stability. Yet they too, like everything in the universe, reveal their diversity and impermanence with the passing of the hours. Nature is a great teacher, Oriana, and every now and then one has to return to her and sit at her feet. You too, Oriana. Boxed up in an apartment which is boxed up in a skyscraper, looking out on other skyscrapers full of boxed up people, you'll end up feeling truly alone. You'll feel your existence is an accident rather than part of a whole which is greater, far greater, than all the skyscrapers which stand before you and even those which are no longer there. Look at a blade of grass in the wind and imagine you're like it. Even your anger will pass.
I bid you farewell, Oriana, and hope with all my heart that you find peace.
Because if there's no peace within us, there won't be peace anywhere else either.
*
LETTER FROM THE HIMALAYAS
What shall we do?
In the Indian Himalayas, 17 January 2002
I like being in a body that's growing old. I can look at the mountains without feeling I have to climb them. When I was young I'd have wanted to conquer them. Now I can let them conquer me. The mountains, like the sea, remind us of a dimension of greatness which can inspire and uplift us. That same greatness is also in each of us, but we find it difficult to recognize. This is why we're attracted to mountains. This is why so many men and women over the centuries have come here to the Himalayas, hoping these heights would reveal the answers that eluded them while they were down in the valley. They still come.
Last winter, an old sanyasi dressed in saffron came past my retreat with his disciple, who was also a renouncer. "Where are you going, Maharaj?", I asked him. "In search of God", he replied, as if it were the most obvious thing in the world.
I come here, as I've done this time, to try to get some kind of order into my head. The impressions of the past months have been very powerful, and I need silence before I set out again, before I go down to the valley once more. Only in this way can one hope to hear the voice that knows, the voice that speaks within us. Maybe it's just the voice of common sense, but it's a voice which is true.
The mountains are always generous. They present me with dawns and sunsets that are unrepeatable. The silence is broken only by the sounds of nature, which makes it seem even more alive.
Life here is simple in the extreme. I write sitting on a wooden floor, my computer powered by a solar panel. I get my water from a spring, which the animals of the woods drink from too, sometimes even a leopard. I cook rice and vegetables over a gas cylinder, and am careful not to throw away the used matches. Everything here is pared to a minimum. Nothing is wasted, and you soon learn to give everything back its original value. Simplicity is a great help when you want to sort things out.
Sometimes I wonder if the sense of frustration and powerlessness which any, especially the young, feel when confronted with the world of today is not due to he fact that it seems so complicated and hard to understand. The only possible reaction is to believe it's the world of someone else, a world you're not allowed to get your hands on or change. And yet it's not true. This is everybody's world.
Faced with the complexity of these inhuman mechanisms operated goodness knows where by goodness knows who, the individual becomes more and more disorientated and feels more and more lost, till he ends up just doing his little job at work, the task he has before him, dissociating himself from all the rest and increasing his sense of isolation and uselessness. This is why I think it's important to bring every problem back to its essentials. If the basic questions are asked, the answers will come more easily.
Do we want to get rid of weapons? Fine. Then let's not get lost in discussions about whether closing down factories which manufacture rifles, munitions, anti-personnel mines or atomic bombs will cause unemployment. Let's resolve the moral issue first. The economic one can come later. Or do we just want to meekly give in to the idea that the economy decides everything, and that all we're interested in is what can make us a profit?
People object that there have always been wars throughout history, so they're hardly likely to stop now. "But why does the same old story have to be repeated? Why not try and start a new one?", Gandhi used to reply to anyone he heard make this tired, clichd objection.
The idea that man can break with his past and make a qualitative leap in his evolution was common in nineteenth-century Indian thought. The argument is simple: if homo sapiens, the current stage in our development, is the product of our having evolved from the apes, why can we not imagine that man will mutate again and turn into a more spiritual being, one who is less attached to the material realm, more committed to his relationship with his neighbours and less rapacious with regard to the rest of the universe?
Seeing that this evolution is bound up with the question of consciousness, why don't we consciously try and take the first step in the right direction? There couldn't be a better time to do so, now that this homo sapiens has reached the peak of his might, including his ability to destroy himself with those weapons he so unwisely created.
Let's take a look in the mirror. There can be no doubt that we've made enormous progress in the previous millennia. We've learnt to fly like birds, swim under water like fish, land on the moon and send probes as far as Mars. Now we can even clone life. Yet despite all this, we're not at peace with ourselves or the world around us. We've trampled the earth, polluted rivers and lakes, cut down entire forests and made life hell for the animals, apart from the few we call our friends and pamper till they meet our need of a substitute for human company.
Air, water, earth and fire, which all ancient civilizations saw as the primary elements of life and hence sacred, were once capable of self-regeneration. Not any more, since man succeeded in dominating them and manipulating their power to his own ends. Their sacred unity has been polluted, the balance shattered.
Great material progress has not been matched by great spiritual progress. Quite the opposite. Indeed, from this point of view perhaps man has never been so poor as since he became so rich. This is why man should now consciously reverse this trend and wrest back control of that most extraordinary tool, his mind.
Thus far man has used his mind mostly to understand and take possession of the world outside him, as if this were the sole source of our elusive happiness. Now it's time for him to re-apply his mind to exploring the inner world and the knowledge of the self.
Are these the barmy ideas of some fakir on a bed of nails? No, not at all. They're ideas which have been gaining ground in the world for some time now. They've gained ground in the West, where the systems they are meant to be directed against have already swallowed them back up and turned them into the products of an immense alternative market which ranges from yoga classes to meditation courses, from aromatherapy to spiritual vacations for those who are tired of chasing after the hare of material happiness. These ideas are also gaining ground in the Muslim world, torn between tradition and modernity, where the traditional meaning of jihad is being rediscovered, not just a holy war against an external enemy but an inner holy war, against man's basest instincts and passions.
Thus we shouldn't just write off the possibility that man can aspire to higher things in the course of his spiritual development. The point is not to continue blindly on in the same direction we're taking at the moment. This direction is madness, as are the wars of Osama bin Laden and George W. Bush. Both of them use the name of God, but their massacres are not any more divine because of it.
So let's call a halt. Let's imagine the present from the point of view of our great-grandchildren. Let's look at today from the perspective of tomorrow, so we don't have to regret having missed an opportunity. The chance we now have is to understand once and for all that the world is one, that every part has its meaning, that it's possible to replace the logic of competition with the ethic of co-existence, that no-one has a monopoly on anything, that the idea that one civilization can be superior to another is the product of ignorance, that harmony, like beauty, lies in the balance of opposites, and that to eliminate one of these opposites is pure sacrilege. What would day be like without night? or life without death? what would happen to good, if Bush manages to keep his promise and wipe out from the world all evil?
This obsession with reducing everything to uniformity is very Western. Vivekananda, the great Indian mystic, travelled round the United States at the end of the nineteenth century to promote Hinduism, and after one of his lectures in San Francisco, an American lady got up and asked: "Don't you think the world would be more beautiful if there were only one religion for all men?". "No", replied Vivekananda, "maybe it would be even more beautiful if there were as many religions as there are men".
"Empires wax and wane", begins The Romance of the Three Kingdoms, one of the classics of Chinese literature. Such will be the fate of the American empire too, especially if it seeks to impose itself by the brute force of its now highly sophisticated weapons rather than by spiritual values and the original ideals of its founding fathers.
Two old crows were the first to notice I'd come back to the mountains. Every morning at breakfast time they settle in the deodar, the tree of God, a mighty cedar in front of my house, and caw for all they're worth till I give them the remains of my yoghurt, which I've learnt to make myself, and the last grains of rice in my bowl. I wouldn't be able to forget they're here even if I wanted to. Nor do they let me forget the story the Indians tell their children about crows. A man who was sitting under a tree in his garden, as I am, one day found he could stand the crows' petulant cawing no longer. He summoned his servants, who came and drove them away with stones and sticks.
But the Creator, who awoke from his nap at that moment, realized straight away that a voice was missing from the great concert of the universe, and furiously sent one of his assistants to rush down to earth and put the crows back on the deodar.
Here life is lived to the rhythm of nature. There's a strong sense that life is one, that you can't add to or subtract from it with impunity. Everything is linked, every part is the whole.
The Vietnamese monk Thich Nhat Hanh puts it very well when he speaks of a table, a little low table like the one I'm writing on now. The table is here because of an infinite chain of events, things and people: the rain which fell on the woods where the tree grows that a woodcutter felled and gave to a carpenter, who put it together with nails made by a blacksmith with iron dug from a mine. If a single element in this chain hadn't existed, even the great-grandfather of the carpenter, this table wouldn't be here now.
While I was living in Japan, to protect the climate of their islands the Japanese had the bright idea of cutting down not their own forests but those of Indonesia and the Amazon basin. Soon they had to admit that even this would affect them - their actions changed the climate of the whole earth, including that of Japan.
By the same token, we cannot today imagine that we can keep a large part of the world poor while our bit of the globe gets richer and richer. Sooner or later, in one form or another, the bill will be laid at our feet, whether it's man or nature
herself who'll bring it to us.
Up here, the impression that nature has a psychic presence of her own is very strong. Sometimes, when I'm all wrapped up against the cold, and I stop everything to go and sit on a ridge nearby and watch the first rays of sun lighting up the peaks of the glaciers, slowly lifting the veil of darkness and revealing chain after chain of other mountains from the milky depths of the valleys, an air of immense joy pervades the world, and I too am caught up in it, along with the trees, the birds and the ants, the same life represented in so many different magnificent forms.
It's feeling cut off from all this that makes us unhappy, as does feeling cut off from our fellow men. "War doesn't only break men's bones, it also breaks their human relationships", the dynamic Gino Strada said to me in Kabul. To mend these relations, as well as the physical gashes he mends in the emergency hospital, Strada has a ward where young Taliban soldiers lie just a step or two away from their enemies from the Northern Alliance. The Taliban are prisoners and the Northern Alliance soldiers are not, but Strada hopes that their common mutilations and similar wounds will help bring them together.
Dialogue is an enormous help in resolving conflicts. Hatred only nurtures more hatred. A Palestinian sniper kills an Israeli woman in a car, the Israelis react by killing two Palestinians, a Palestinian swathes himself in dynamite and blows himself and a dozen young Israelis up in a pizza restaurant, the Israelis send a helicopter to bomb a bus full of Palestinians, the Palestinians... need I go on? How long will it all continue? until there are no Palestinians or Israelis left? until all the bombs are finished?
Certainly there are reasons for every conflict, and these have to be addressed. But it will all be useless unless one party acknowledges the other's existence and recognizes they are equal, until we all accept that violence only ever leads to more violence.
"Fine words. But what can we do?", I hear someone say, even through the silence. Every one of us can do something. Together we can do thousands of things.
The war against terrorism is being used today to militarize our society, to produce new weapons and increase defence spending. Let's oppose this, and refuse to vote for anyone who's behind such policies. Let's check where we've invested our savings, and withdraw them from any company that's even remotely linked to the arms industry. Let's say what we know and feel to be the truth, that killing under all circumstances is murder.
Let's talk about peace, and introduce a culture of peace into our children's education. Why should we always teach history as if it were an unending sequence of wars and massacres?
With all my Western studies, I had to come to Asia before I discovered Ashoka, one of the most extraordinary characters in antiquity. Ashoka lived three centuries before Christ, and at the peak of his power, after he'd added yet another kingdom to his already vast empire extending from India to Central Asia, he realized that violence was absurd, decided the greatest victory of all was that of conquering men's hearts, renounced war, and had his new ethic carved in stone in each of the numerous languages which were spoken in his territories at the time. One of Ashoka's memorial stones inscribed in Greek and Aramaic was discovered in 1958 at Kandahar, the spiritual home of Mullah Omar where the U.S. marines are now camped out. Another one stands at the entrance to the National Museum in Delhi; Ashoka
announces in it the opening of two hospitals: one for humans and one for animals.
The causes of war are to be found within us, more than they are outside us. They are to be found in passions such as desire, fear, insecurity, greed and vanity. Gradually we have to rid ourselves of them. We need a change of attitude. Decisions which affect us and others, let's make them on the basis of a bit more morality and a bit less self-interest. Let's do more of what is right, and less of what's just convenient. And let's bring our children up to be honest rather than crafty.
Let's restore certain traditions of good behaviour, even to the point of reclaiming our language from the kind of talk where the word "God" has become a kind of obscenity. Let's go back to talking about "making love" rather than "having sex". Even this will make a big difference in the long run.
It's time to move out into the open, time to make a stand for the values we believe in. A society gains much more strength by its moral resolution than it does by acquiring new weapons.
Above all, let's stop, take time to think, hold our tongues. Often we feel tormented by the life we lead, like the man who flees in terror from his own shadow and the echoes of his own footsteps. The more he runs, the more his shadow seems to stalk him, the more he hears his own footsteps clatter, the more he is frightened. Until he stops and sits in the shade of a tree. Let's do the same.
Viewed from the perspective of the future, these are days in which it's still possible to do something. So let's do it, sometimes on our own, sometimes all together. It's an opportunity.
The road is a long one, and in parts still to be invented. But would we rather take the path of brutalization which lies before us, or the even quicker one which leads straight to our extinction?
So have a good journey outside as well as inside!
L'IMMAGINE DEDICATA ALLA CCG N. 4000
Si tratta, naturalmente, di un'elaborazione di una famosa opera di Pablo Picasso (La paloma de la paz).
Si tratta, naturalmente, di un'elaborazione di una famosa opera di Pablo Picasso (La paloma de la paz).
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La prima lettera che abbiamo scelto, la lettera da Firenze, è una risposta alla "Lettera da New York" (sottotitolo "La rabbia e l'orgoglio", se seguite il link preparatevi al mal di stomaco) di Oriana Fallaci, apparsa sul Corriere della Sera il 29 settembre 2001.
È interessante soffermarsi a riflettere su come, a partire da esperienze estremamente simili (i due sono entrambi fiorentini, negli anni '70 sono stati testimoni in prima linea della guerra del Vietnam, hanno dovuto confrontarsi con una malattia mortale), si possa procedere su binari tanto divergenti. Proprio la reazione alla malattia è paradigmatica: mentre per Terzani era qualcosa che faceva parte di lui e con cui doveva, volente o nolente, convivere, la Fallaci vedeva nel tumore un nemico esterno da combattere e sconfiggere.
La seconda lettera qui riportata è stata scritta nell'Himalaya indiana e si intitola significativamente "Che fare?". È un modo di rispondere alla classica obbiezione che viene fatta a chi si ostina a denunciare gli orrori della guerra: "Belle parole, ma che fare?", quasi come se non ci fosse alcuna possibile alternativa alla violenza, e pacifista fosse sinonimo di grullo...
(Lorenzo Masetti)
Da Tiziano Terzani, Lettere contro la guerra, 2002, Longanesi & C.