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Io, Vittima Del Cpt

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Quelli con cui è più arrabbiato sono i trafficanti "Che ti organizzano il viaggio" dice "gli uomini della rete: quando ci finisci dentro non riesci più ad uscirne." S. viene dal Kashmir ed è arrivato fino a Regina Pacis il cpt dove i muri erano imbrattati di sangue. Ha 35 anni ma gliene daresti qualcuno in più. Forse solo perché ha gli occhi tristi anche quando cerca di sorridere mentre racconta la sua storia. "Il primo campo è stato in Libia" comincia S. "e non lo dimenticherò mai. Soprattutto non dimenticherò chi c'era e ancora c'è dentro. Perché quel posto faceva paura e in ogni momento pensavi che potevi morire. Era in una città in mezzo al deserto Zawara, tutto chiuso, con le guardie. Noi stavamo in due stanze, sei metri per sei, eravamo in duecento, sembra impossibile ma era così. Ci davano da mangiare, ma solo per sopravvivere e l'acqua, era così sporca che vedevamo gli insetti dentro, di diversi colori. Li tiravamo fuori usando pezzi dei nostri vestiti. A volte arrivava la polizia libica e ci chiedeva i soldi. Chi non pagava veniva messo in una fila separata e poi picchiato brutalmente di fronte a tutti; ma non si poteva protestare, se lo facevamo, arrivavano i signori del deserto che avevano le armi e i coltelli. Eravamo terrorizzati. E così eravamo anche costretti a sopportare. In duecento non facevamo nulla contro di loro anche se erano solo sei o sette, perché la paura ti paralizza." E' un racconto duro quello di S. che voleva ribellarsi, ma non poteva. E' un racconto duro, che ricorda altri viaggi nell'orrore. Ma il suo è un viaggio di oggi dal Kashmir all'Italia, dove approda nell'estate del 2003. Un viaggio tra i trafficanti di uomini, costato tra i sette e gli ottomila dollari. "Non c'è alternativa," continua S. "ti trovano loro. Ti chiedono se vuoi partire, ma sanno che lo devi fare. E sei già prigioniero come spesso lo eri anche prima. Dal Kashmir sono dovuto scappare," spiega "perché non avevo scelta. Ero uno studente socialista e nel giugno del 2001 abbiamo fatto una manifestazione pacifista e lì non si può fare. La polizia ci conosceva e ci cercava. Se mi trovavano, finivo in carcere per 25 anni." S. adesso si ritiene fortunato "Perché" spiega "sono tra quelli arrivati in Europa. Tanti non riescono a farcela e i loro parenti non sanno nemmeno che sono morti." Un giorno, nel campo libico, gli dicono che può partire. "Fanno così. E ti caricano sulle barche. Spesso ne mettono troppi. E allora le barche affondano. A me è andata bene. Ma so di una barca, dov'erano in duecento e che è affondata mentre si vedeva ancora dalla costa. Nessuno è andato ad aiutarli. Il mare è pieno di corpi. Durante la traversata ci hanno fermati due volte e la seconda erano armati. Ci puntavano i fucili addosso e volevano i soldi. Glieli abbiamo buttati in un sacchetto di plastica, poi siamo ripartiti e arrivati a Lampedusa il primo giugno 2003." E anche questo S. non lo dimenticherà mai. "Quando il maresciallo ha detto "Siete in terra italiana." il dolore è diventato gioia. Avevamo vinto la nostra battaglia per la vita, potevamo ricominciare a immaginare, perché eravamo arrivati nel posto dove gli uomini e gli uccelli sono liberi. Eravamo perfino felici. Solo che è durata poco, perché quasi subito arrivano altri campi e altre paure. Da Lampedusa mi hanno mandato a Bari. Lì eravamo in mille, ma era meglio della Libia. Mi hanno dato un numero, il 389, e un posto dove dormire A27. Non sapevamo cosa sarebbe successo e continuavamo a sognare. Tutto è finito quando ci hanno detto che ci avrebbero rimandato nei nostri paesi. Eravamo disperati. Ognuno pregava il proprio Dio di morire lì piuttosto che tornare indietro. Io sono finito al cpt Regina Pacis. Peggio di un carcere, con le guardie e il filo spinato. Appena arrivato ho capito che tutti erano agitati, spaventati. Dei pakistani ci hanno detto che tutto andava bene, ma lo sentivi che non era vero, che c'era di nuovo solo paura. Ci hanno portati in una stanza e fotografati. Eravamo di nuovo prigionieri in un posto dove la gente si tagliava le gambe e le braccia e dove molti sbattevano la testa contro il muro. Le pareti erano imbrattate di sangue. In quel centro si sentivano le grida di chi veniva picchiato, a volte solo perché aveva caldo ed era uscito dalla fila per la colazione o perché non avevano ubbidito. Poi la sera, in camera, arrivava don Cesare. Ci portava le caramelle. E si scusava."

envoyé par DoNQuijote82 - 15/1/2012 - 16:58


La colpa di Moustapha, morire da “ospite” e non da detenuto
di Alessandro Robecchi

C’è una legge, in Italia, che porta in nome di due cadaveri politici. E’ la legge Bossi-Fini, evidentemente in grado di durare più dei due tizi che le hanno dato un nome. E siccome da queste parti ci piace giocare con le parole e con l’ipocrisia, la legge è stata via via peggiorata, prima con l’istituzione dei Cpt, poi con la loro trasformazione in Cie. Traduco per i non esperti: Cpt significava Centri di Permanenza Temporanea, cioè luoghi chiusi, recintati e controllati, in cui rinchiudere gli immigrati irregolari. La formula deve essere sembrata troppo umanitaria, perché a un certo punto, il Cpt sono diventati Cie, cioè Centri di Identificazione ed Espulsione. Come si vede, due tentativi molto elaborati di trovare sigle che non contengano le parole “carcere”, “galera”, “arresti”. In sostanza, un modo per trattenere come detenute persone che non hanno commesso alcun reato. Siccome le ipocrisie italiane sono come le ciliegie, una tira l’altra, le persone che stanno rinchiuse nei Cie vengono denominate “ospiti”, invece che “detenuti”. Fanno notare le cronache come molti di loro, prima di essere “ospiti” dei Cie sono stati veramente “detenuti” nelle patrie galere. Colpevoli, la gran parte, del reato di immigrazione clandestina, cioè colpevoli di non avere un permesso di soggiorno, o di averlo perso perché hanno perso il lavoro. Cioè, traduco per chi non capisce il paradosso: prima ti arrestano perché sei clandestino. Ti schedano, ti prendono le impronte digitali e ti identificano. Poi ti sbattono in un centro per l’identificazione per identificarti un’altra volta e mandarti via. Si dirà che uno Stato di diritto si valuta anche da come tratta i suoi prigionieri. Ecco: i Cie vengono gestiti da chi vince gare al massimo ribasso, per cui spesso le strutture, l’assistenza sanitaria, le condizioni igieniche sono ben sotto il limite della decenza. Peggio delle carceri, dicono i deputati che sono riusciti a visitare qualcuno di questi centri, e “peggio delle carceri italiane” è una frase che fa paura.

Moustapha Anaki, il giovane marocchino morto l’altro giorno al Cie di Isola Capo Rizzuto si è sentito male (cuore? altro? Si aspetta l’autopsia) e non è stato soccorso in tempo. Era in Italia da nove anni (qualcuno scrive sette). E’ solo l’ultimo di molti e molti casi: atti di autolesionismo dettati dalla disperazione, suicidi, morti per mancata assistenza. Naturalmente, essendo la questione politica (come trattiamo chi cerca di vivere qui?), il cerchio del dibattito si allarga, si allarga, poi scende lentamente nel gorgo del “discorso è un altro”, della “questione strutturale”, del “valutiamo con attenzione”, mentre i Moustapha continuano a morire nel Cie , o a deperire in galere che non si chiamano galere per il solo motivo che ospitano gente che non dovrebbe stare in galera. Nel frattempo, rimbalza sui giornali il sacrosanto dibattito sulla disumanità del carcere, specie del carcere preventivo. Il caso di Giulia Ligresti, per esempio, tiene banco. Lei rifiuta il cibo, legge e rilegge gli atti dell’accusa e i suoi avvocati dicono che è “incompatibile con il regime carcerario”. Massima solidarietà. E però, peccato, che nessuno abbia fatto titoli, o interviste, o mezze paginate di trasecolante scandalo per il signor Moustapha Anaki, che in carcere ci stava anche se non lo chiamano carcere, che era talmente “incompatibile” che in carcere c’è morto, e che non aveva nemmeno il bene di leggere gli atti d’accusa. Perché un’accusa, nel suo caso, non esisteva.

21/8/2013 - 10:17




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