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Tri ratna havera

Zabranjeno Pušenje
Language: Bosnian


Zabranjeno Pušenje

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(Zabranjeno Pušenje)


[1997]
Album: Ja nisam odavle

janisam


Il 9 ottobre 2011, quando chi scrive non si trovava, come dire, nel pieno delle sue forze, veniva inserita nel sito questa (straordinaria) canzone degli Zabranjeno Pušenje; il medesimo giorno, Marko, in un commento, faceva presente che mancava “una traduzione fatta bene”. Cinque anni dopo, la traduzione è stata finalmente fatta, o tentata, non si sa quanto bene ma perlomeno capace di rendere l’idea di questa storia. Una storia, probabilmente, di tantissimi nella Sarajevo in guerra e sotto assedio: tri ratna havera, appunto.

Della vicenda narrata della canzone è forse bene fare una sorta di riassunto esplicativo; ma ancor prima, bisognerebbe soffermarsi sul titolo tradotto, forse sbrigativamente, “tre amici in guerra”. Le traduzioni, di solito, funzionano assai poco; da una traduzione, ad esempio, non può risultare come mai –ad esempio- non sia stato utilizzato il termine comune per “amico”, prijatelj, e sia stato scelto haver, termine “sarajevese” quant’altri mai e di origine, ebbene sì, chiaramente ebraica. E’ l’ebraico (e yiddish) khaver (חבר) “amico, compagno”. L’uso di una parola è importante; in questa vicenda dove i protagonisti sono un musulmano, un serbo e un cristiano, per definire la loro amicizia viene utilizzata una parola…ebraica. Quasi a voler far notare che, a Sarajevo, c’era pure una comunità ebraica molto antica; o, forse, anche per rimandare a stermini e a lager vicini e lontani. Chissà; ci sarebbe anche da ragionare sul quel ratna, aggettivo che significa propriamente “di guerra, bellico”. “Tre amici di guerra” o “in guerra”? Senza nessunissima intenzione di autocitarmi, ma soltanto ai fini di questa canzone, mi viene da rimandare alla ”Guerra di Pero”, una vecchia cosa che avevo scritto 16 anni fa e che parlava, più o meno, di una cosa del genere che avevo visto coi miei occhi, nel 1993.

vuckoDetto questo, torniamo al riassunto esplicativo. La vicenda inizia il 18 febbraio 1984, il giorno prima della chiusura dei giochi olimpici invernali che si svolsero a Sarajevo. Furono, si dice, una grande festa “dello sport e della fratellanza”; la città visse con entusiasmo quell’occasione, erano stati costruiti suggestivi e modernissimi impianti sulle montagne che circondano Sarajevo e tutti si sentirono coinvolti nonostante il governo federale jugoslavo avesse, per usare un eufemismo, lasciato un po’ sole le autorità bosniache ad arrangiarsi. Furono dominate, quelle Olimpiadi tenutesi in un paese poi scomparso, da un altro paese scomparso: la Germania Est, che vinse ben 9 medaglie d’oro. Seguita da un altro paese scomparso, l’Unione Sovietica, che ne vinse 6. L’Italia ne vinse due: storica quella della sciatrice Paoletta Magoni, che si aggiudicò lo slalom speciale svoltosi sul monte Igman, monte che otto anni dopo avrebbe visto ben altre vicende. Per la cronaca, la Jugoslavia vinse soltanto una medaglia d’argento, ma fu una medaglia storica: era la prima mai vinta dal paese in un’olimpiade invernale. La vinse lo sciatore sloveno Jure Franko nello slalom speciale. (Sulle olimpiadi di Sarajevo si veda magari anche questa bella pagina). Ovunque campeggiavano i manifesti con la mascotte dei giochi, il lupacchiotto Vučko.

Una grande festa; e una “festa terrificante” la fanno pure i nostri tre amici, Mufa, Kiki e il narratore, la notte prima della chiusura dei giochi. Senza minimamente pensare ad essere “musulmani”, “serbi” o “cristiani/croati” o quant’altro; l’antica normalità di Sarajevo. Normalità? Il saggio “zio ciccione” (c’è sempre uno zio ciccione in questi casi, che la sa lunga) sa bene cosa sta covando sotto la cenere e mette in guardia i tre ragazzi ai quali “sta grondando via la gioventù dalla vita”: sì, bravi, fate festa e divertitevi ora, tanto lo vedrete tra poco cosa vi aspetta. Tutto si stava già preparando per le olimpiadi del massacro.

La vicenda salta infatti, direttamente, ad un’altra, e ben differente, “notte prima”. E’ la notte della “rivolta del popolo armato”: siamo sempre a Sarajevo, ma nell’aprile del 1992. Probabilmente, la notte prima della grande manifestazione contro la guerra che fu attaccata dalle milizie serbe appostate sui monti attorno alla città, quelli delle Olimpiadi di otto anni prima. I loro giochini li avevano organizzati a puntino, i Karadžić, i Milošević, gli Izetbegović, i Tuđman, la Bundesbank, Helmut Kohl , tutti quanti; si avvera la profezia dello zio ciccione. I tre amici sono chiamati a stare nel loro campo; “nati sulla stessa terra, ma da radici diverse”. Del resto, da quelle parti c’è una normalità storica di convivenza pacifica (a Sarajevo, la città) ma c’è anche quella dei nazionalismi, dei clan e di tutte quelle maledette “radici”, giustappunto. E così fra i tre amici cala la muraglia cinese, davanti all’inferno. Il musulmano Mufa difende la città assediata con parole chiare: chi non la difende, è un fetente. Il serbo Kiki sembra defilarsi davanti all’orrore: si mette a imbiancare la casa. Il narratore scappa via, si volatilizza. Mufa sembra essere uno importante: addirittura lo si vede sulla CNN; Kiki invece, a un certo punto sbarella di testa, e lo portano via. E così, i tre vecchi amici se li porta via la bufera, come sempre accade in questi casi.

Mufa lo trova nascosto in una casa nel centro di Sarajevo; la vecchia amicizia sembra tornare per un attimo, e ordina che non gli venga fatto del male e che sia consegnato ai “suoi”, agli assedianti della “Repubblica Serba”; ma i “suoi” non accolgono granché bene il transfugo che non era andato a combattere assieme a loro. Kiki, passato il confine, si ritrova nel fango e con un fucile puntato addosso a cura del fornaio del quartiere, Boro, che ora comanda qualche milizia in questa “guerra di porte accanto”. Ma è pur sempre un serbo, e gli viene presentata l’occasione di togliersi di mezzo, scappando in Canada. Cosa che Kiki fa, e alla svelta. Via da quel manicomio fatto di ex “vecchi amici”, di fornai di quartiere, di ex festaioli entusiasti per le olimpiadi e di poveri zii ciccioni che magari sono stati ridotti in poltiglia in qualche mercato. Alla fine, anche Mufa se ne va, ospitato dalla prima moglie del fratello in Svizzera e in preda alla nostalgia di Sarajevo, di una Sarajevo che non c’è più e che non ci sarà mai più, bruciata assieme alla sua biblioteca, alla sinagoga, alle sue olimpiadi.

redlineLa vicenda si sposta ad un’altra “notte prima”: è quella prima dell’entrata in vigore dell’accordo di Dayton formalizzato a Parigi il 14 dicembre 1995, che pose fine alla guerra in Bosnia spezzettandola in varie “entità”. Nel frattempo, Kiki manda ai vecchi amici cartoline dal Canada, con le cascate del Niagara, chiamandoli “piattole” come da ragazzi. La gioventù è, appunto, grondata via. La falla della guerra l’ha prosciugata del tutto. Nella sola Sarajevo, durante l’assedio triennale, sono state prosciugate undicimilacinquecentoquarantuno vite di tutte le età, giovani, vecchi, bambini. Ed è stata prosciugata tutta una storia, da un lato. Dall’altro, ritengo che non sia da idealizzare troppo, questa storia, come hanno spesso teso a fare certi intellettuali alla Sofri coi loro viaggettini e i loro reportages conclusisi con l’appoggio ai bombardamenti NATO. A Sarajevo convivevano sia la convivenza sia il possibile massacro, e non certo dal 1992. A Sarajevo e in Bosnia, a mio parere, tutto potrebbe ricominciare anche domani; e sarà bene tenerlo oltremodo presente.

In questa notte prima dell’accordo di Dayton, il narratore fa un sogno, e non importa se ad occhi chiusi o ad occhi aperti. Sogna di essere ancora insieme ai suoi due vecchi amici, ai suoi haveri portati via dalla bufera. Nel sogno, è una bella mattinata di sole dopo una notte di pioggia. Sul tavolo, ogni sorta di buone cose da mangiare, e c’è pure una bella ragazza di paese. Solo che i tre “vecchi amici” sono stanchi. La gioventù se n’è andata nella guerra. Le forze non ci sono più; sono state spese a dividersi, a sbudellarsi, a scappare via. La cerimonia di apertura e di chiusura delle olimpiadi del 1984 si era svolta allo stadio di un’altra famosa canzone degli Zabranjeno Pušenje: tutto è andato, appunto, in fumo. Questa canzone, questa di questa pagina, è del 1997; due anni dopo gli accordi di Dayton. Fa parte di un’album che si chiama “Io non sono di qui”: la certificazione di non essere oramai più di un luogo che non c’è più. Sul monte Trebević si trovano ancora le rovine, spettrali, della pista di bob. [RV]

pistabob
Noć pred gašenje Olimpijskoga plamena
Strašni dernek pravili smo Mufa, Kiki i ja
Kroz živote nam je curila mladost
Kao potok što teče kroz kras
Sve što se ima tu je na stolu
Ništa nije ostalo za nas

Govorio je tad' moj debeli stric
Nekad kroz suze, a nekad kroz smijeh
Za svu vašu zajebanciju
Jednom ćete platiti ceh

Noć pred paljenje naoružanog naroda
Zadnji put sjedili smo Mufa, Kiki i ja
Tri jarana, tri priče, tri strana jezika
Rasli smo na istoj zemlji al' iz raznih korjena

Mufa je srao o ljudskim pravima
Kiki je kuk'o da mu slabi vid
Ispred nas je stajao pakao
A između nas kineski zid

Mufa, Kiki i ja

Nekad padne nadvojvoda
Nekad stari svat
Ne zna se čija je glava prva,
Tako ovdje poč'nje rat

Mufa je znao kome pripada,
Spreman je dočekao taj dan
Ja sam se bio ispario
A Kiki je ostao da kreči stan

Preko CNN-a gledao sam Mufu
Sa heklerom i u tenama
Kaže on brani svoj grad
A ko ne brani grad za njega je smrad

Kiki je znao da je ta priča kurac
Al' nije znao čuvat za sebe
Lajao okolo ludo i smjelo
Dok ga jednu noć nije odvelo

Mufa, Kiki i ja
Raznjela nas mećava
Na tri strane, tri puta, tri stara havera ljuta
Mufa, Kiki i ja

Mufa ga je našao nakon sedam dana
U nakoj kući na Bjelavama
Ušao je tiho i samo je reko
Pustite ga da nebi jeb'o mater nekom

Ta noć je bila gluha i hladna
A hladna je bila i Miljacka
Mufa je sredio varijantu noge
Čekala se riječ četnika

Pao je u blato i osjetio cjev
Vidio je facu bradatu i drsku
Vidio je smrt i cuo je riječi
Dobrodošli u Republiku Srpsku

U komandi ga je čekao Boro pekar
Slušaj rode, kako svi rade
Prijaviš se eto fol dobrovoljno, šaljem te na Hrešu
Za mjesec dva, fataj se Kanade

Za Mufu sam čuo da je u Švici
Kod burazove žene iz proslog braka
Kažu nemože bez Sarajeva,
Bez te vode i tog zraka

Od Kikija je stigla razglednica mala
Na njoj slapovi na Nijagari
Piše moje ime i moja adresa
Piše "Zbogom žohari"

Noć pred stavljanje dejtonskoga potpisa
Sanjao sam opet smo skupa Mufa, Kiki i ja
Bio je kao hastal pun raznih djakonija
Bilo je jutro, rose i cvijeće i mlada seljanka

Bilo je sunce jasno i vedro
Kao uvjek poslije kišne noći
Samo to više nismo bili mi
U svojoj snazi i moći

Mufa, Kiki i ja

Contributed by Anto Simic - 2011/7/26 - 19:19



Language: Italian

Traduzione italiana di Riccardo Venturi
Piacenza/Firenze, 19/20 settembre 2016

saraolim
TRE AMICI IN GUERRA

La notte prima che si spegnesse la fiamma olimpica [1]
Mufa, Kiki ed io [2] abbiamo fatto una festa terribile
La gioventù ci grondava via dalla nostra vita
Come un fiume che scorre per un terreno carsico
Tutto quel che c’era, era là, sul tavolo,
Niente ci è restato.

E allora disse mio zio ciccione
Un po’ piangendo e un po’ ridendo,
Tutte queste vostre stronzate
Le pagherete, una volta o l’altra

La notte prima della rivolta del popolo armato
Stavamo seduti un’ultima volta, Mufa, Kiki ed io
Tre amici, tre storie, tre lingue straniere,
Siamo cresciuti sulla stessa terra, ma da radici diverse

Mufa sparava cazzate sui diritti umani,
Kiki si lagnava di avere la vista debole
Davanti a noi c’era l’inferno
E tra di noi una muraglia cinese

Mufa, Kiki ed io

Una volta muore l’arciduca,
Un’altra il capo del corteo nuziale [3],
Non si sa di chi è la prima testa,
Così, qua, comincia la guerra

Mufa sapeva a chi apparteneva,
Era pronto e aspettava quel giorno.
Io mi ero volatilizzato,
E Kiki è rimasto a imbiancare l’appartamento

Alla CNN guardavo Mufa
Con il mitra, in scarpe da tennis,
Dice che difende la sua città
E che chi non la difende, per lui è un fetente

Kiki sapeva che erano cazzate
Ma non sapeva badare a se stesso,
Abbaiava all’intorno come un pazzo e rideva
Finché una notte non lo hanno portato via

Mufa, Kiki ed io,
Ci ha portati via la bufera
Per tre paesi, tre strade, tre vecchi amici incazzati
Mufa, Kiki ed io

Mufa lo trovò dopo sette giorni
In una casa a Bjelave [4]
È entrato zitto e ha detto soltanto:
Lasciatelo andare o faccio il culo a qualcuno. [5]

Quella notte era sorda e fredda,
E fredda era anche la Miljacka,
Mufa aveva ordinato di lasciarlo passare, [6]
Si aspettava la parola dei cetnici

È caduto nel fango e ha sentito la canna di un fucile,
Ha visto una faccia barbuta e arrogante,
Ha visto la morte e ha sentito le parole:
Benvenuti nella Repubblica Serba [7]

Al comando lo aspettava Boro, il fornaio:
Ascolta, mio caro, fai come fanno tutti:
Ti presenti spontaneamente, io ti mando a Hreša [8]
E dopo due mesi prendi e vattene in Canada

Di Mufa ho sentito che è in Svizzera,
Sta dalla prima moglie di suo fratello
Dicono che non può stare senza Sarajevo,
Senza quell’acqua, senza quell’aria

Da Kiki è arrivata una cartolinetta
Con sopra le cascate del Niagara,
Ci ha scritto il mio nome e indirizzo
E un “Ciao, piàttole” [9]

La notte prima dell’entrata in vigore degli accordi di Dayton
Ho sognato che eravamo ancora insieme, Mufa, Kiki ed io
Il tavolo sembrava pieno di ogni sorta di piatti,
Era mattina, fiori, rugiada, e una ragazza del paese

Il sole era chiaro e luminoso,
Com’è sempre dopo una notte di pioggia,
Solo che noi non eravamo più
Tanto gagliardi e forti,

Mufa, Kiki ed io.
[1] In questo caso è possibile situare con precisione l’inizio della vicenda narrata nella canzone: è il 18 febbraio 1984. I XVI Giochi Olimpici invernali si svolsero a Sarajevo dall’8 al 19 febbraio 1984, e la vicenda inizia il giorno prima della chiusura dei giochi. Le strutture olimpiche (impianti, villaggio, alberghi ecc.) sono attualmente del tutto in rovina: furono utilizzate in blocco durante i combattimenti e l’assedio. Si veda a tale riguardo questa pagina in italiano.

[2] Come specificato meglio nell’introduzione, i tre amici della canzone, tutti e tre di Sarajevo, sono un musulmano “bosgnacco” (Mufa), un serbo bosniaco (Kiki) e il narratore, di cui non si sa il nome.

[3] Lo stari svat (lett. “testimone di nozze anziano”, o “invitato anziano alle nozze”) è, nella tradizione balcanica, il “capo del corteo nuziale”, una funzione importantissima e di prestigio nelle complicatissime e lunghissime cerimonie nuziali. Nella strofa si fa menzione, appunto, di come può scoppiare un conflitto da quelle parti, caso invero assai frequente: una volta “muore l’arciduca” (il riferimento è ovviamente all’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914, nel quale furono uccisi l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo e la moglie per mano dello studente nazionalista serbo Gavrilo Princip: fu la molla della I guerra mondiale), un’altra il “capo del corteo nuziale” –atto che poteva portare ad una faida terrificante tra clan). Qui però non so dire se si parla in termini generici, o di un fatto specifico che, sinceramente, ignoro. (Ma vedi la precisazione in questo commento)

[4] Bjelave è un’importante strada del centro di Sarajevo che dà il nome anche al quartiere. In particolare, a Bjelave sorgeva, e sorge tuttora, l’orfanotrofio della città. Bjelave si trovava, durante la guerra, in zona musulmana/croata come tutto il centro sotto assedio serbo (v. nota 6).

[5] Traduzione “ad sensum” in un modo più consueto in italiano. Letteralmente significa: “lasciatelo andare affinché io non fotta la madre a qualcuno”.

[6] Qui sono incerto nella traduzione. Il senso sembra abbastanza chiaro (il musulmano Mufa ordina che l’amico serbo Kiki sia fatto passare dalla zona musulmana a quella serba), ma il significato esatto di varijanta noge (“variante della gamba”?) mi sfugge (“gamba” = “fuga”,”passaggio a piedi”?).

[7] La Republika Srpska (“Repubblica Serba”) era il territorio bosniaco controllato dalle forze serbe; nota anche come “Repubblica di Pale”, dal nome del paese che fungeva da “capitale”. La Republika Srpska circondava praticamente Sarajevo; dalle montagne tutte attorno era semplice porre un assedio. Da notare, fra le altre cose, che molti impianti olimpici (v. nota 1) si trovavano al suo interno, in particolare quelli sul monte Igman che servivano da ottime basi (altri impianti, però, come quelli del monte Trebević, sorgevano nel "Libero Territorio Bosniaco"). Nella Bosnia-Erzegovina attuale, strutturata in modo “federale” secondo rigidi criteri etnici, l’entità serba si chiama tuttora “Republika Srpska”.

[8] Hreša, nota anche come Srpski Stari Grad si trova assai vicino a Sarajevo, e fa parte attualmente della municipalità di Istočni Stari Grad nella zona di Sarajevo Orientale (appartenente alla Republika Srpska). Hreša sembra essere qui una sorta di “luogo di smistamento”.

[9] Kiki usa qui, evidentemente, una sorta di appellativo scherzoso (piàttole = scarafaggi, blatte) che i tre amici dovevano darsi da ragazzi.

2016/9/19 - 22:29


bellissima!
manca una traduzione fatta bene

marko - 2011/10/9 - 22:18


La traduzione ora c'è; spero sia stata fatta bene, ma...feci quod potui. Un saluto a Marko sia pure dopo anni.

Riccardo Venturi - 2016/9/20 - 20:53


A proposito del "capo del corteo nuziale", non è un riferimento generico:

«Il primo marzo [1992], secondo giorno di referendum, la quiete di una Sarajevo insolitamente calda di sole fu squassata da alcuni spari esplosi da una Golf bianca contro il corteo in centro di un matrimonio ortodosso. Venne ucciso Nikola Gardović, il padre dello sposo, serbo, furono feriti due invitati. I testimoni oculari indicarono Ramiz Delalić detto Ćelo»

Morands - 2024/2/3 - 01:25




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