Langue   

Tedeum Gaeta

Mimmo Cavallo
Langue: italien


Mimmo Cavallo

Peut vous intéresser aussi...

Siamo briganti
(Mimmo Cavallo)
Dalla parte delle bestie
(Mimmo Cavallo)


[2011]
Testo e Musica di Cosimo Cavallo (detto "Mimmo") e Andrea Simiele
Album: Quando Saremo Fratelli Uniti
Quando Saremo Fratelli Uniti

Gaeta l'ultimo baluardo del regno delle Due Sicilie
« ...se facessimo per noi stessi ciò che stiamo facendo per l'Italia, saremmo dei grandi bricconi e meriteremmo di andare in galera...»
(Camillo B. conte di Cavour a Massimo D'Azeglio)

Forte gaeta batteria cittadella feb 1862


L'Assedio di Gaeta (1860-61) segnò, com'è noto, la fine del beato (a paragone con quello che venne dopo) regno duosiciliano..
Nel settembre 1860 re Franceschiello (Francesco II di Borbone) costretto dall'incalzare degli eventi a lasciare Napoli, si era ritirato a Capua stabilendo già nella Piazzaforte di Gaeta la base delle operazioni militari. Perduta poi anche Capua, con l'intera la corte e il corpo diplomatico accreditato presso il governo borbonico, si rifugiò anch’egli a Gaeta. L'esercito borbonico, avendo ormai perduto ogni efficienza bellica, demoralizzato, come suol dirsi, più dal tradimento che dal nemico, incalzato dalle truppe piemontesi del generale Enrico Cialdini, si attestava dignitosamente a difendere la fortezza più "per salvare l'onore delle armi" che per speranze di vittoria. Le prime operazioni d'assedio cominciarono sul fronte di terra il 5 novembre 1860. Il 12 novembre ci furono altri combattimenti nei pressi di Gaeta dove poi Francesco II, con gli ultimi 20mila uomini, fu stretto d’assedio dal fino al 13 febbraio 1861, per opera sempre del gen. Cialdini (per la storiografia ufficiale il quinto “Padre della Patria”, in realtà un criminale di guerra a tutti gli effetti) che aveva con sé circa 18 mila uomini.
Il corpo d'assedio era forte di 18.000 uomini con 1.600 cavalli e 180 cannoni moderni (i famosi cannoni francesi!). In media venivano sparate contro la piazzaforte 500 colpi di cannone al giorno. Il 22 gennaio 1861, i napoletani decisero di riaprire il fuoco. Alle 8 del mattino un colpo della batteria Regina dette il segnale: fu una giornata memorabile. La flotta piemontese dovette allontanarsi per i danni che i colpi della piazza le avevano inferto: oltre 10.000 colpi furono sparati dai napoletani, a dimostrazione che non si sarebbero arresi..
Il nemico ne sparò oltre 18.000, ma il morale napoletano rimase alle stelle. Ad ogni colpo echeggiava il grido «viva il re», e le bande militari intonavano l’inno di Paisiello. Ormai i piemontesi tiravano soltanto da molto lontano, e non prendevano mai l’iniziativa di assaltare la piazza: « Li prenderemo per fame » scrisse Cialdini a Cavour, naturalmente in perfetto francese, lingua ufficiale in Piemonte. Neanche quando iniziarono le trattative Cialdini non volle interrompere i bombardamenti, anzi li rinnovò con maggiore accanimento perché « sotto il tiro dei cannoni cederanno a condizioni più vantaggiose per noi », scrisse ancora a Cavour. Con l’impiego dei modernissimi cannoni rigati francesi, Cialdini, divenuto generale piemontese, poté dalla sua comoda poltrona sul terrazzo della villa privata comprata da Ferdinando II a Mola, far bombardare senza essere colpito, la piazza ed i suoi abitanti.
Fu così che, a capitolazione già firmata, venne centrata la polveriera della batteria Transilvania, dove morì l’ultimo difensore di Gaeta: un ragazzo di sedici anni, Carlo Giordano, fuggito dalla Nunziatella per difendere la sua terra. Egli non ebbe degna sepoltura, come non l'ebbero i tremila altri caduti di Gaeta.
Dal 12 novembre 1860 al 13 febbraio 1861, diecimila "napoletani" (lucani, pugliesi, calabresi, abruzzesi, siciliani, campani) decimati dalle fatiche, dai bombardamenti e dal tifo resistettero, senza mai piegarsi, ad un assedio condotto da Enrico Cialdini, vero sommo Eroe del nostro Risorgimento, proclamato poi Senatore del regno da Vittorio Emanuele II.
Il 14 febbraio Francesco II di Borbone con la regina Maria Sofia, partiva da Gaeta imbarcandosi sulla corvetta francese Mouette, fatta venire appositamente da Napoli.
Il monarca, salutato con la salva reale di 21 colpi della batteria Santa Maria e con il triplice ammainarsi della bandiera borbonica di Punta Stendardo, prendeva così la via dell'esilio. La partenza del Re quel giorno del 14 febbraio fu la prima di una serie di milioni di partenze di meridionali alla ricerca della dignità e di un futuro non di fame nera. « Non vi resteranno nemmeno gli occhi per piangere » profetizzò ai suoi popoli Francesco II, lasciando Napoli.
I militari borbonici e parte dei civili furono deportati nei lager dei Savoia costruiti appositamente in Piemonte e Lombardia, ad essi nei successivi anni seguirono altri 40.000 deportati, di questi, che mai vollero giurare fedeltà ai Savoia, sopravvissero in pochi. Celebre il lager di sterminio di Finestrelle a duemila metri d’altezza in Val Chisone.

Dalle cronache d’epoca:


PROCLAMA
DEL COMANDANTE IN CAPO
ALL'ARMI! ALL'ARMI! ALL'ARMI!
da Antonio Ciano - "I SAVOIA E IL MASSACRO DEL SUD" - Grandmelò, ROMA, 1996
“[…] Il piemontese nemico del nostro Re, della nostra Monarchia, delle nostre leggi, nemico del patrizio, del borghese, del contadino, nemico di tutti gli ordini militari civili e religiosi; il piemontese che arde città, scanna i fedeli a Dio ed al loro sovrano, fa macello di sacerdoti, svelle dalle loro chiese i vescovi, e per sospetti caccia nelle carceri, negli ergastoli e negli esilii quanti non vede piegar la fronte all'idolo d'ingorda e bugiarda rivoluzione, il piemontese che copre con l'orgoglio la sua nudità, e che si gloria di non sentir pietà nello sgozzar vecchi, vergini, pargoletti, né ritrosia nel dar di piglio nella roba altrui o pubblica o privata; il piemontese che profana le nostre donne e i nostri templi, ubriaco di libidine, fabbro di menzogna e d'inganni, schernitore di vittime da lui tradite: il piemontese fugge dinanzi allo scoppio dei nostri moschetti rugginosi; e nelle città dov'egli avea fondate le case di prostituzione ed il servaggio, ormai sventola il vessillo della libertà e della indipendenza del Regno al grido di «viva Francesco II». La bandiera del sovrano è già inalberata in Sora. Popoli degli Abruzzi, delle Puglie, delle Calabrie, dei Principati, all'armi! Sopra i gioghi degli Appennini, ciascun macigno è fortezza, ciascun albero è baluardo. Ivi il nemico non potrà ferire alla lontana coi proiettili dei cannoni rigati, né con l'unghie dei cavalli. Combattendo uomo con uomo, egli che non ha fede in Dio e in Gesù Cristo, ne può avere carità de' fratelli, dovrà soccombere al fremito del nostro coraggio, alla forza dei petti devoti alla morte per una causa che merita il sacrificio della vita. All'armi! Le falci, le ronche, i massi valgono nelle nostre mani più che le baionette e le spade. Un milione di anime oppresse si confortano con un grido alla pugna; sessantamila dei nostri stendono le braccia dalle carceri verso di noi; le ombre di diecimila ci dicono vendicateci. Corriamo dai boschi alle città, dalle province a Napoli. L'arcangelo San Michele ci coprirà col suo scudo, la Vergine Immacolata col suo manto, e faranno vittoriosa la bandiera che appenderemo in voto nel tempio. Il piemontese che ci deride, svilisce, conculca, tiranneggia, spoglia, e uccide con l'ipocrita maschera della libertà, ritorni nei suoi confini tra il Po e le Alpi. Ritorni a noi quel Sovrano che Iddio ci ha dato, e lo fe' generare nelle viscere di una madre santa, e crescere in virtù candido come il giglio, che adorna il borbonico stemma. Francesco II e Sofia, ed i Reali principi c'insegnarono come si debba star saldi ed intrepidi nella battaglia. Vinceremo. I potenti d'Europa compiranno l'opera nostra rimenando la pace all'Italia; ed il nostro regno all'ombra della religione cattolica e del papato, si riabbellirà di quella gloriosa borbonica dinastica che ci sottrasse ai duri ceppi dei piccoli tiranni, e ci diede ricchezza e franchigia vera, e la indipendenza dallo straniero. All'armi!"
Il Comandante in capo CHIAVONE
Luigi Riccardi Ajutante


Brigantaggio a Vieste. La legge Pica diede i suoi effetti e quando arrivò a Vico del Gargano il generale Pinelli con numerosi soldati, gli arresti furono a centinaia, parecchi fucilati, e furono scovati ed uccisi a tradimento i due briganti vichesi Vincenzo Scirpoli e Piero Iacovangelo, che aveva ucciso un soldato dietro una macchia. È memoria che il cadavere di quest’ultimo, portato in Vico, fu appeso ad una grosso albero nel largo San Domenico, obbligando la madre di lui a sedersi ed a mangiare sotto quell'albero da cui pendeva il figlio.

BRIGANTI E BRIGANTESSE SUL GARGANO (1861-1865) Le polemiche sul brigantaggio sono tante. Ma che dire della partecipazione delle donne? Ricordiamo solo alcuni nomi: Nardella, Recchiemuzze, Patetta, Palumbo, Marianna Semeraro, Giovanna Biscotti, Lucia Taronna, Donna Carmela, Angela Greco, Rosa Martinelli, Leonida Azzarone, Mattia Prencipe, Anna Di Bari, Leonarda Armillotta, Filomena Pennacchio, Giovanna Di Maggio, Anna Maria Berardi, Anna Maria Guerrieri, Mafrolla, Medina e Vescera. A volte le donne erano drude dei briganti, tal'altra anche brigantesse. Spesso catturate dai soldati piemontesi furono seviziate, rapate a zero, persino dei peli pubici.. Dopo, legate agli alberi, venivano esposte al pubblico. A Trepuzzi, dodici braccianti donne furono violentate davanti alla madre e poi esposte. Angela Greco fu violentata davanti al marito.


1863, il sig. Keller ritrasse al vivo le condizioni in cui fu gettata l'Italia, caduta sotto il giogo della "rivoluzione"; […] E dopo avvenne questo fatto, che affermo senza timore d'essere smentito, ed è che il numero sempre crescente dei prigionieri politici e delle vittime sorpassò d'assai il numero degli elettori. Lascio da parte gli esigliati ed i morti combattendo. Più di 20.000 Siciliani furono gettati in carcere, condannati alla galera, alla prigionia, o confinati nelle isole. Riguardo alle stragi, la commissione del brigantaggio ha verificato, che per 4, o 500 miseri briganti, cui si dà la caccia, ne furono fucilali 7000. Chiedo che i piemontesi ritirino i loro 90.000 soldati, e che lascino le popolazioni esprimere liberamente il loro pensiero. Riguardo ai modi di questa sovranità militare, lascerò parlare gli stessi militari. Il gen. della Rocca afferma che di molti prigionieri non si conoscono i motivi del loro arresto; che molti invece furono vittime dei briganti medesimi. In qual modo sono trattati i prigionieri? Udite un testimonio: «Non vidi mai nulla di simile! In una sola carcere ho visto 1300 prigionieri seminudi, rosi dai vermi, decimati dalla fame prima e poscia dal tifo!» Il testimonio aggiunge: «Appartengo al partito dell'unità italiana; ma non posso ammettere che nel 1863, sotto l'eroe Vittorio Emmanuele, accadano tali cose nella libera Italia.» È facile argomentare da questi fatti lo stato presente del paese.
da Cronaca della guerra d'Italia 1861-1862
NAPOLITANI, Mirate i campi saccheggiati, le città distrutte, i vostri fratelli scannati. Soffrirete ancor pazientemente tante stragi e rovine? Patirete voi più lungo tempo lo scherno e l’insulto? Dimenticate forse che nelle vostre vene scorre il sangue più generoso d’Italia? All’armi dunque all’armi! Si scuota il gioco del Piemonte che ci opprime e si rivendichi la nostra indipendenza. Fra oppressi ed oppressori non può esser dubbia la sorte, la nostra causa è giusta e santa, è causa di Dio, né permetterà Egli più a lungo il trionfo della tirannide piemontese.
CALABRESI, La vostra patria è oppressa dallo straniero. Il vostro magnanimo Re, figlio della Santa, la sua giovine ed eroica Consorte, e tutta la stirpe di Carlo III, di quel Re, che vi riscattò dal servaggio straniero, richiamando a vita la vetusta Monarchia delle Due Sicilie, tutti gI'intrepidi Principi di Gaeta gemono nella terra dell'esilio deplorando lo strazio che di voi fa lo straniero. Insorgete dunque fieri e generosi figli delle Calabrie. Tutto può il vostro coraggio contro coloro che hanno manomesso la patria, conculcata la Religione, violate le vostre donne, saccheggiate le vostre proprietà, e che col ferrro e col fuoco vorrebbero consolidare la loro aborrita dominazione. All'armi Calabresi!
La protesta di Michelangelo Cammineci - Colpo d’occhio su le condizioni del Reame delle Due Sicilie
Cresce intanto la smania di arrestare con veemenza, definita dalla stampa di ogni colore la legge del terrore nelle provincie di Napoli. – "Il Calabrese", giornale di Cosenza dei 23 ottobre riferisce: «ne' giorni scorsi abbiamo veduto condurre in queste centrali moltissime famiglie, e corrispondenti di briganti, buon per essi che Fumel non li abbia tutti fucilati!».
In varii luoghi si son veduti sagrificii umani di trenta a quaranta prigionieri, e pare che la soldatesca, e le salariate guardie mobilizzate abbiano versato sangue, pel solo piacere di vederne scorrere e bruciate case, raccolte di cereali, provvisioni, industrie armentizie, ed ogni avere degli abitanti pel solo diletto di ammiserirli.
La raccolta delle circolari, e de’ bandi di costoro, uniti a quelli de’ Pinelli, de’ Galateri, de’ Virgilii, e de’ Gialdini, formerà ne' tempi avvenire «il Codice delle leggi del terrore nelle due Sicilie sotto il dominio piemontese», - ed allora sarà altresì difficilmente creduto, che non ostante codesti editti sanguinarii, vi sia stata la voce di un deputato napoletano, nel parlamento di Torino, che cosi abbia gridato.... «La legalità ci uccide! Io voglio un assoluto governo militare; io voglio misure eccezionali, acciò si reprima, quel brigantaggio, che da 18 mesi non si è potuto ancora domare» (tornata de’ 9 aprile 1862, mozione del deputato Petruccelli-Gattina).
Si mena tanto rumore de' Drusi, che assassinarono i Maroniti; e voi, o liberali, da' sentimenti si pieni di umanità, non avete una parola pe' generosi abitanti del regno dì Napoli trucidati dal ferro dei carnefici piemontesi! Tante città messe a ferro e fuoco; tutti i prigionieri barbaramente uccisi; in Napoli e nel regno 25 mila persone rinchiuse nelle prigioni senza condanna e senza forma veruna di processo; la libertà individuale surrogata dal governo del ferro, la libertà civile dalla dittatura..... chiamasi questo, o miei signori, uno stato di cose che meriti la nostra approvazione?» Un più grave giudizio di censura politica si esprime su lo stesso proposito nel senato belga nella tornata de’ 2 maggio: vari senatori parlano contro il riconoscimento del nuovo regno d'Italia; ma il discorso più meritevole di attenzione è quello del senatore conte di Robìano: - «Le annessioni (egli dice) sono fatte in Italia per la corruzione degli uni, e la vigliaccheria degli altri. Garibaldi entrò in Napoli: era egli con napoletani? Niente affatto: egli entrò a Napoli con individui appartenenti a tutte le nazioni, e che io mi asterrò dal qualificare. Che fece allora il re di Napoli? Volendo risparmiare gravi disastri alla sua capitale, si ritirò in Gaeta, d'onde combatté i garibaldini, e gl'inglesi, che andavano a fare il colpo dì fucile con armi perfezionate, e ritornavano quindi a pranzare, vantandosi del numero de’ napoletani che avevano ucciso. - I napolitani si sono forse rivoltati contro il loro re? Niente affatto. Essi invece hanno dato di loro re un appoggio cosi efficace che fu per un momento sul punto di riportare la vittoria, poiché i garibaldini, senza il soccorso de’ piemontesi erano battuti» - E qui l'oratore afferma che il plebiscito, o suffragio universale, non si effettuò che in un modo illusorio, avendo avuto luogo alla presenza di soldati, che con la spada impugnata, minacciavano coloro che avessero votato pel "no" ed applaudivano a quelli che avessero votato pel "sì". - Indi soggiunge: - Gl'insorti napoletani sono chiamati briganti: ma dopo il 1830 ancor noi eravamo briganti: l'onorevole ministro degli affari esteri era un brigante: quelli che combattevano nella Vandea contro la Convenzione del terrore erano pure briganti. Voi vedete che i briganti di Napoli si trovano in assai buona compagnia.. - Veramente i filantropi inglesi trovavano al tempo de’ Borboni, che i prigionieri politici non erano ben trattati: essi s'informavano de' minimi particolari, andavano finanche a gustare la loro minestra per vedere, se fosse ben condita. - Oggidì non si tratta più di tutte queste prevenzioni; si fucilano le persone, ed a quel che pare almeno, si fa bene, perché i morti non alzano più alcun reclamo; né per essi si alza reclamo da altri; si fucilano partigiani, e sedicenti partigiani, quelli che danno loro da mangiare, quelli che sono sospetti di darne loro, donne, vecchi, fanciulli, e dopo ciò s'incendiano i paesi. - Vorrei sapere se i miei avversarii in questa camera approvino codesti atti; per me io li trovo tutt'al più degni degl'irochesi e de' cannibali …
LAGER ITALO PIEMONTESI e SOLDATI MERIDIONALI
«Italia, o meglio negli stati sardi, esiste proprio la tratta dei Napoletani. Si arrestano da Cialdini soldati napoletani in gran quantità, si stipano ne' bastimenti peggio che non si farebbe degli animali e poi si mandano a Genova. Trovandomi testé in quella città ho dovuto assistere ad uno di que' spettacoli che lacerano l'anima. Ho visto giungere bastimenti di quegli infelici, laceri, affamati, piangenti: e sbarcati vennero distesi sulla pubblica via come cosa da mercato. Spettacolo doloroso che si rinnova ogni giorno in Via Assarotti dove vi è un deposito di questi sventurati. Alcune centinaia ne furono mandati e chiusi nelle carceri di Fenestrelle: un ottomila di questi antichi soldati Napoletani vennero concentrati nel campo di San Maurizio".
Nel giornale «L'Armonia» del 3-9-1861 è scritto: "A Rimini il mal umore dei soldati giunge fino alla disperazione di darsi la morte. Parecchi si sono annegati nel mare volontariamente. Sicché dovettero le autorità porre delle guardie in piccole barchette per impedire simili eccessi".
Altri episodi sono descritti nella stampa dell'epoca e riportati nel libro di Fulvio Izzo: “Sabato erano tradotti nella cittadella di Alessandria una quantità di soldati napoletani stretti a due a due da una lunga catena, perché rei di essersi ammutinati e di aspirazioni al loro sovrano". Quando e se venivano catturati questi ultimi erano esposti al ludibrio della folla nei vari centri emiliani, lombardi, liguri o piemontesi e le angherie allora erano molte e ben documentate. Nelle Romagne il passaggio di ex prigionieri napoletani disertori dall'esercito italiano, oppure componenti l'esercito pontificio, determinava grande turbamento, per disprezzo per i primi e per l'odio colà esistente per le divise dei secondi. I tentativi di linciaggio erano frequenti.

NEL LAGER di STERMINIO di FENESTRELLE
Posto a duemila metri d’altezza in Val Chisone, dal 1999 assurdo simbolo della Provincia di Torino, vi trovarono la morte 10.000 soldati borbonici sciolti nelle vasche di calce viva. Ufficiali, sottufficiali e soldati, dichiaratisi apertamente fedeli a Francesco II, giurarono aperta resistenza ai piemontesi e subirono il trattamento più feroce, costretti con palle al piede da 16 chili, ceppi e catene. Altrettanto duro era il campo impiantato nelle "lande di San Martino" a 25 km da Torino, nel settembre del 1861 deteneva 3.000 soldati delle Due Sicilie, nel mese successivo divennero 12.447. Altri lager furono: San Maurizio Canadese, Alessandria, Forte di Priamar (Savona), forte di S. Benigno (Genova), Milano, Bergamo, Parma, Modena, Bologna, Ascoli Piceno ed altri nel Nord. TUTTI i soldati detenuti non vollero tradire il giuramento fatto alla loro bandiera e al loro Re ed altre migliaia di "liberati meridionali" furono confinati nelle isole, a Gorgonia, Capraia, Giglio, all'Elba, Ponza, in Sardegna, nella Maremma malarica. Un calcolo preciso dei deportati e vittime è impossibile, già ad otto mesi dall’aver proclamato l’Unità d’Italia, il 19 novembre 1861 il generale Manfredo Fanti inviò un dispaccio a Cavour per far noleggiare all'estero dei vapori per trasportare a Genova 40.000 prigionieri di guerra, che ammassati in via Assarotti proseguivano poi a piedi per i lager del nord. Il deputato Ricciardi nella seduta parlamentare del 27 giugno 1862 affermò che nel 1861 nell'Italia meridionale (ab. 10 mil.) furono incarcerate 48.000 persone e 15.665 fucilate, oggi in Italia con 61 milioni di abitanti vi sono 63.000 detenuti. Nel 1873 l’Italia ricercava per il mondo (Patagonia, Australia, deserto eritreo, tunisino) un lembo di terra per impiantare un lager di sterminio per 20.000 borbonici, poiché le carceri napolitane ne ospitavano già 80.000 e nel 1872 in quelle della sola città di Napoli vi erano 11.635 internati. La recrudescenza della resistenza all’invasore nel Meridione fu tale che 11 settembre 1872 fu impartito il lapidario ordine ai militari italiani nel Sud: « Atterrite queste popolazioni ». Le cifre descrivono una vera diaspora biblica da pulizia etnica. Di questi soldati d'età prevalente dai 21 ai 26 anni, pochi sopravvissero, non resta una memoria, una lapide, una tomba, un monumento, l'Italia carnefice di allora e quella complice di oggi hanno cancellato il loro eroico sacrificio e la fedeltà alla Patria, quella vera. Oggi si scrive: «solo fra altri 150 anni le due parti (Stato italiano e Meridionali) potranno leggere insieme –forse– con serenità le crudeltà commesse».
I PLEBISCITI e i FRATELLI d’ITALIA
I plebisciti d’annessione furono internazionalmente bollati per falsi per l’esclusiva partecipazione di impropri votanti come gli invasori bersaglieri, carabinieri e garibaldini, mentre i cittadini residenti furono pochissimi, meno del 2% ed organizzati dalla malavita locale. L’Unità fu solo un progetto massonico e non delle popolazioni, lo dimostrano le rivolte in Romagna, contemporanee alla guerra nel Meridione e l’ insurrezione di Palermo e provincia del 1866, che i Savoia bombardarono per sette giorni causando 4.000 morti. La prova della storica anti-italianità delle popolazioni meridionali si ha con il taciuto episodio dopo il quale iniziò la disfatta di Caporetto, e che ebbe protagonista il battaglione Salerno. A quarant’anni dai più significativi episodi di feroce repressione italiana contro i Meridionali gli uomini del Sud furono costretti a combattere nella Grande Guerra per il loro storico nemico italiano. I 2000 soldati del battaglione Salerno, posti nelle retrovie, alla vista del tenente Rommel e dei suoi 400 soldati gli corsero incontro e portandolo in trionfo gridarono «viva Rommel, viva l’Austria». L’episodio è emblematico per stabilire quanto fosse sentita la patriottica Unità d’Italia dai Meridionali nella Grande Guerra voluta dalle industrie belliche del nord, e quanto fosse amato il tricolore. Tutta falsa la retorica storiografia risorgimentale, il povero fante o era ucciso dagli austriaci o dagli italici carabinieri..
Or che l'aere è muto
non c'è luce lì in cielo
l'ultimo saluto è per te
alma mia, terra natia
la vita che mi desti ti do
che più sazia e più m'asseta
l'ultimo pensiero d'amor..

Tedeum Gaeta,
lode al tuo onore
per cento giorni
e cento giorni di dolore..
Tedeum Gaeta
ai figli tuoi
che resti inciso
il tuo ricordo
dentro noi...

E ormai l'aria è muta
non c'è luce nel cielo
l'ultima stella è caduta
oramai...
Alma mia, terra natia
la vita che mi desti ti do
e più sazia e più m'asseta
l'ultimo saluto del cuor..

Tedeum Gaeta,
lode al tuo onore
per cento giorni
e cento giorni di dolore..
Tedeum Gaeta
dai figli tuoi..
Che resti inciso
il tuo ricordo
dentro noi...
Che resti inciso
il tuo ricordo dentro noi...

envoyé par giorgio - 10/7/2011 - 14:00




Page principale CCG

indiquer les éventuelles erreurs dans les textes ou dans les commentaires antiwarsongs@gmail.com




hosted by inventati.org