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I matti

Francesco De Gregori
Language: Italian


Francesco De Gregori

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[1987]
Testo e musica di Francesco De Gregori
Da "Terra di nessuno"

tdnTERRA DI NESSUNO
di Grasshopper, da DeBaser, recensioni musicali scritte da chi vuole.

Ascoltando questo disco la mia memoria torna al 1987, ad un giovane e già grassoccio obiettore di coscienza, parcheggiato in una biblioteca comunale a scontare 20 mesi di vita da regalare allo Stato, senza aver commesso nessun reato. L'arrivo in biblioteca di una rivista musicale dal titolo che iniziava con "rock" (Rockstar? Rockland? Rock'n roll? Boh, robetta comunque) era attesa con trepidazione un po' da tutti noi, e da me in particolare, ansioso già allora di leggere recensioni, che poi non erano un granché. Una di queste mi dette una vera pugnalata: "Terra di nessuno" di Francesco De Gregori era massacrato senza ritegno, e soprattutto senza nessuna argomentazione, ma solo con una serie di "basta" "è finito" e slogan del genere, non molto diversi da certi post in grigio che infestano anche questo sito. Il 3 finale però non era un innocuo tre debaseriano, ma un micidiale tre in decimi, da maestra sadica che gode e pigia con la matita rossa mentre lo appioppa.

Dopo 18 anni mi sento di ristabilire un minimo di verità, per quello che possono contare queste righe. Dunque, forse una rivista "rock" avrebbe fatto meglio ad ignorare un disco del genere, di un autore da sempre più poeta che musicista e, nel caso specifico, intriso di una malinconia crepuscolare che non tutti sanno apprezzare. Nel complesso non si tratta di un capolavoro assoluto, ma contiene almeno due gioielli della maturità di De Gregori. Uno è la tenerissima "Pilota di guerra", ispirata a Saint-Exupéry, struggente e umana confessione della spettrale solitudine del pilota di un aereo da guerra che "sparge sale sulle ferite delle città", più in generale emblema della solitudine assoluta dell'uomo. La musica è delicata e commovente come si addice all'argomento. L'altro è "Mimì sarà", dedicata a Mia Martini, ma non solo, direi rivolta a chiunque abbia attraversato quello stato d'animo che ti piega i ginocchi, che fa sì che "tu ti affacci da dietro quei vetri che sono i tuoi occhi", che i medici chiamano cinicamente depressione. La tristezza del testo e della musica non toglie comunque la necessità, quasi l'obbligo di farsi forza, se non altro "per spiegare alla figlia che domani va meglio, vedrai cambierà". Le lacrime sono quasi sicure.

Musicalmente la traccia rock del precedente "Scacchi e tarocchi" è quasi del tutto svanita, anche se i musicisti sono più o meno gli stessi: è sempre la banda di Ivano Fossati, ma non suona il rock, come la logica vorrebbe. Giusto "Il canto delle sirene" ha un ritmo e delle sonorità abbastanza dure, accompagnate da un testo abbastanza enigmatico, pieno di sete di avventura, di fuga da una dura realtà attraverso il viaggiare per mare. Più ordinaria "Capataz", almeno musicalmente: le parole invitano ad una certa speranza, oltre che ad un certo impegno: "Quante persone che non contano, e invece contano, e si stanno contando già". "Pane e castagne", segnata da cima a fondo da tristi e metalliche tastiere elettriche, è un patetico quadro di povertà e di rassegnazione ad un destino già deciso da altri. "Nero" è un tuffo in un realismo totale e crudo, dylaniano, qui ancora nascente, ma che a poco a poco finirà per imporsi nel De Gregori attuale. Il nero è brutalmente scaricato "dalla periferia del mondo a quella di una città", e sa bene quali sono le difficoltà che lo aspetteranno, ma accetta il suo destino con il riso sulle labbra, come sottolinea anche la musica, brillante, quasi un allegro reggae. L'uomo con le "Spalle larghe" è una versione più moderna e anonima di quello che cammina sui "Pezzi di vetro": forte, rassicurante, dà così tanta fiducia da poter "ritornare sporco di rossetto, tanto ha una faccia che non tradisce". "I matti" non hanno il cuore "o se ce l'hanno è sprecato, è una caverna tutta nera", verso che da solo definisce il pauroso vuoto della loro anima. Chiude un po' inatteso un allegro "country-western", "Vecchia valigia", oggetto-simbolo di lontani viaggi e ricordi.

Ottimo disco, che allora non meritava di essere stroncato, e oggi non merita di essere dimenticato.
I matti vanno contenti, tra il campo e la ferrovia.
A caccia di grilli e serpenti, a caccia di grilli e serpenti.
I matti vanno contenti a guinzaglio della pazzia,
a caccia di grilli e serpenti, tra il campo e la ferrovia.

I matti non hanno più niente, intorno a loro più nessuna città,
anche se strillano chi li sente, anche se strillano che fa.
I matti vanno contenti, sull'orlo della normalità,
come stelle cadenti, nel mare della Tranquillità.
Trasportando grosse buste di plastica del peso totale del cuore,
piene di spazzatura e di silenzio, piene di freddo e rumore.

I matti non hanno il cuore o se ce l'hanno è sprecato,
è una caverna tutta nera.
I matti ancora lì a pensare a un treno mai arrivato
e a una moglie portata via da chissà quale bufera.
I matti senza la patente per camminare,
i matti tutta la vita, dentro la notte, chiusi a chiave.

I matti vanno contenti, fermano il traffico con la mano,
poi attraversano il mattino, con l'aiuto di un fiasco di vino.
Si fermano lunghe ore, a riposare,
le ossa e le ali, le ossa e le ali,
e dentro alle chiese ci vanno a fumare,
centinaia di sigarette davanti all'altare.

Contributed by Luca 'The River' - 2011/5/16 - 12:07



Language: French

Version française – LES FOUS – Marco Valdo M.I. – 2016
Chanson italienne – I matti – Francesco De Gregori – 1987

  Ils s’arrêtent de longues heures,   <br />
Pour se reposer, les os et les ailes, les os et les ailes,   <br />
Et vont fumer... des centaines de cigarettes.
Ils s’arrêtent de longues heures,
Pour se reposer, les os et les ailes, les os et les ailes,
Et vont fumer... des centaines de cigarettes.


Les fous, les fous ; que peut bien raconter une chanson sur les fous ?, dit Lucien l’âne en ridant le front.

Oh, plein de choses. Il y a d’ailleurs beaucoup de chansons à propos des fous et de la folie. Encore qu’il faille distinguer la folie individuelle, cette manière particulière d’être : parfois, maladie, parfois, meilleure santé mentale. Écoute bien ce qu’en disait Pascal, le philosophe auvergnat – je le cite de mémoire : « Quelle étrange folie que de n’être point fou ». La formulation n’est peut-être pas parfaite, mais c’est bien le sens. Il est de ces folies qui sont des maladies et qui engendrent de grandes souffrances et d’autres qui relèvent de la divergence de pensée d’avec l’ordre ambiant – et qui peuvent faire naître de plus grandes souffrances encore. Et puis, il est des folies collectives – ce sont les plus terribles et les plus dangereuses ; il en est de très massacrantes, même si certaines paraissent assez douces et pacifiques ; le germe de la terreur vit en elles et souvent, débonde.

J’imagine bien tout cela, Marco Valdo M.I. mon ami, et sans doute, y a-t-il un rapport avec la canzone dont tu viens de faire une version française. Mais ne pourrais-tu me donner quelque précision sur cette dernière.

Bien sûr. Elle chante les fous, ceux du genre tranquille (dans nos régions, on les appelle des « demi-doux », un peu décalés par rapport au monde affairé où nous sommes. Elle chante une sorte de folie-refuge. Ce sont des fous qui se tiennent à l’écart des grands tracas du monde et cheminent ainsi toute une vie. Peut-être leur manque-t-il un peu de ces convictions et de ces capacités mentales (ou les cachent-ils ?) qui amènent les hommes à participer à la grande foire de la société.

Dans le fond, Pascal, que tu citais, avait peut-être raison. Moi qui ne suis qu’un âne, je me sens assez proche de ces fous « contents, entre le chemin de fer et les champs » et beaucoup moins des agités de l’économie, des zélés du travail, des mordus de l’ambition et des zélotes de l’apparence. Il me paraît urgent de penser autrement cette société et de tranquillement tisser le linceul de ce vieux monde sain d’esprit, méprisant, méprisable, suractif, suractivé et cacochyme.

Heureusement !

Ainsi Parlaient Marco Valdo M.I. et Lucien Lane
LES FOUS

Les fous vont contents, entre le chemin de fer et les champs.
À la chasse aux grillons et aux serpents, à la chasse aux grillons et aux serpents.
Tenus en laisse par la folie, les fous vont contents
À la chasse aux grillons et aux serpents, à la chasse aux grillons et aux serpents.

Les fous n’ont plus rien, autour d’eux plus aucune cité
Même s’ils crient qui les entend, même s’ils crient des vérités.
Les fous s’en vont contents, au confin de la normalité,
Comme des étoiles tombantes, dans la mer de la Tranquillité,
Transportant de grosses enveloppes de plastique du poids total du cœur,
Pleines d’ordure et de silence, pleines de froid et de rumeur.

Les fous n’ont pas de cœur ou s’ils l’ont, il est usé,
C’est une caverne toute noire.
Les fous restent là à songer à un train jamais arrivé
Et à une femme emportée par on ne sait quelle tourmente.
Les fous marchent sans patente,
Les fous vivent toute une vie, dans la nuit, enfermés à clé.

Les fous s’en vont contents, ils arrêtent le trafic de la main,
Puis ils traversent le matin, à l’aide d’une fiasque de vin.
Ils s’arrêtent de longues heures,
Pour se reposer, les os et les ailes, les os et les ailes,
Et vont fumer, dans les églises,
Devant l’autel, des centaines de cigarettes.

Contributed by Marco Valdo M.I. - 2016/4/1 - 18:45




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