Ho perduto tutti
mi son perso anch'io
là nella battaglia
dolce amore mio
Ordine d'assalto
cinque di mattina
correvamo in alto
verso la collina
Poi scoppiò l'inferno
caddi a faccia ingiù
giù dentro l'inverno
poi non ricordo più
e dal grande inverno
non si torna più
Gonne al vento, luce e gerani, io ti vedo lì
con la prima neve ai balconi, tu pensami così
mentre girano come alberi
gli anni e le stagioni
la vita che se ne va
in un attimo
un attimo....
Rosso sopra verde
è la mia divisa
chiamo e non mi sento
puoi sentirmi tu?
mi son perso anch'io
là nella battaglia
dolce amore mio
Ordine d'assalto
cinque di mattina
correvamo in alto
verso la collina
Poi scoppiò l'inferno
caddi a faccia ingiù
giù dentro l'inverno
poi non ricordo più
e dal grande inverno
non si torna più
Gonne al vento, luce e gerani, io ti vedo lì
con la prima neve ai balconi, tu pensami così
mentre girano come alberi
gli anni e le stagioni
la vita che se ne va
in un attimo
un attimo....
Rosso sopra verde
è la mia divisa
chiamo e non mi sento
puoi sentirmi tu?
Language: English
RED ON GREEN
Now all is gone
Only words remain
Words I write to you my love
One last sweet refrain
When the order came
Early in the dawn
Soldiers into battle
Falling one by one
Then I stood alone
I knew it was my turn
Falling into darkness
Never to return
No more will I see the light that dances in your eyes
No more watch the flowers bloom when fleeting swallows fly
And the last light of the summer has faded away
Gone forever, gone forever more
Blood red on green
Colours that I wear
I am calling out your name
Can you hear
I am calling out your name
Can you hear
Now all is gone
Only words remain
Words I write to you my love
One last sweet refrain
When the order came
Early in the dawn
Soldiers into battle
Falling one by one
Then I stood alone
I knew it was my turn
Falling into darkness
Never to return
No more will I see the light that dances in your eyes
No more watch the flowers bloom when fleeting swallows fly
And the last light of the summer has faded away
Gone forever, gone forever more
Blood red on green
Colours that I wear
I am calling out your name
Can you hear
I am calling out your name
Can you hear
Contributed by dq82 - 2015/7/14 - 18:45
Language: English
Versione inglese di Lorenzo
RED OVER GREEN
I’ve lost everyone
I’ve lost even myself
There in the battle
My sweet love
Order to attack
Five in the morning
We ran up the slope
Towards the hill
Then Hell was around us
I fell face down
Down into the Winter
Then I remember no more
And from the Great Winter
You come back no more
Skirts moved by wind, lights and geraniums, I see you there
With the first snow at the balconies, think of me like that
While years and seasons
Revolve like trees
And the life goes by
In just a moment
A moment…
Red over green
It’s my uniform
I call but I can’t hear myself
Can you?
I’ve lost everyone
I’ve lost even myself
There in the battle
My sweet love
Order to attack
Five in the morning
We ran up the slope
Towards the hill
Then Hell was around us
I fell face down
Down into the Winter
Then I remember no more
And from the Great Winter
You come back no more
Skirts moved by wind, lights and geraniums, I see you there
With the first snow at the balconies, think of me like that
While years and seasons
Revolve like trees
And the life goes by
In just a moment
A moment…
Red over green
It’s my uniform
I call but I can’t hear myself
Can you?
Contributed by Lorenzo - 2008/8/28 - 16:52
MARIO BONANNO RACCONTA ROSSO SOPRA VERDE E’ LA MIA DIVISA
IL SUO SAGGIO SULLE CANZONI CONTRO LA GUERRA
Rosso sopra verde è la mia divisa potrebbe sembrare un libro fuori moda. Fuori moda perché parla di canzone antimilitarista e perché in una società che aspira sempre più al patinato – una società dai successi facili e senza troppi grattacapi - lanciare degli “allerta” alle coscienze, attraverso le canzoni del passato, potrebbe risultare superato, quasi autolesionista...
Chi ha fatto questo tipo di scelta comunicativa, ha messo in conto lo scotto della solitudine. Sta nel gioco delle parti: spesso ci si sente isolati. Pochissimi interlocutori, una marea di distratti. Tuttavia credo che continuare a scrivere “libri impegnati” sia l’unica strategia valida per lasciarci alle spalle l’inedia politica e relazionale in cui versiamo. Scrivo i miei saggi musicali con l’idea di consegnare alle nuove generazioni un “messaggio” su cui riflettere. E’ necessario chiamarsi fuori dal coro, indicare possibili ancore di salvezza a chi nutre ancora - malgrado tutto - speranze di cambiamento. Un modo come un altro per dire che il senso di militanza è ancora possibile e avvertito. Mi vanto di appartenere alla schiera di giornalisti che credono in ciò che scrivono. E poi no, che non sono solo canzonette...non lo saranno mai, anche se il tentativo diffuso è quello di ridurle a tali.
E’ interessante fare notare che tra le pagine del tuo libro si accenna anche a un onesto Gianni Morandi che canta C’era un ragazzo che come me…L’antimilitarismo spicciolo, da cantare sotto la doccia, posto ad antitesi dell’antimilitarismo militante. Qual è, secondo te, la differenza sostanziale tra cantare, interpretare e sentire?
Il caso di Morandi mi sembra emblematico del fatto che non è mai importante cosa canti ma in che modo lo canti. Se bastasse interpretare un testo a tematica sociale per dirsi cantautore, anche Povia – tanto per fare un nome – potrebbe essere ascritto all’interno della categoria. Però non basta il tema. Occorrono anche la forma e il sentire. All’interno della discografia di Morandi, C’era un ragazzo... finisce con l’essere la classica rondine che non fa primavera. Si avverte chiaramente che, in questo brano, l’interprete è fuori luogo, che non sente ciò che canta. Lo si avverte anche dal look, dal modo di mantenersi, nonostante il testo della canzone, un personaggio rassicurante. Mi sembra evidente lo stacco che passa tra Morandi e le parole che dice. Poniamo, di contro, il caso di Fabrizio De Andrè, che è stato ciò che ha cantato. Politicamente coincidente con la sua arte. Anche in Claudio Lolli, uomo e artista coincidono perfettamente: non è uno di quelli che canta certe cose e poi ne vive delle altre, completamente diverse. Morandi è un bravo artista e una persona per bene, ma ha sempre cantato per cantare. Una canzone vale l’altra, per lui. E’ lo stesso per tanti altri: a cominciare da sua maestà Mogol (mediocrissimo paroliere), da Massimo Ranieri (oggi addirittura sdoganato dal Club Tenco come degno di autorialità)...ma se attribuiamo a Ranieri l’appellativo di “artista impegnato”, cosa sono e cosa sono stati i vari Guccini, Vecchioni, Fossati? Si rischia in questo modo di svalutare il termine. Dovrebbe essere chiaro, a questo punto, che il metro di valutazione per stabilire l’autorialità di una canzone è dato dalla coincidenza tra quello che si è e ciò che si fa, ciò che si canta.
Quali sono le reazioni al tuo “impegno” di giornalista musicale e scrittore? Il tuo messaggio sin dove pensi riesca ad arrivare?
Diversi colleghi (le anime belle della critica musicale, come li definisco io: quelli che “a canzoni non si fan rivoluzioni”) si profondono nei miei confronti in giudizi di critica più o meno velata. Oppure hanno atteggiamenti di indifferenza (certo sono uno che ignora volutamente tutta la merda pop che viene da oltre Manica...). Anche i direttori di riviste musicali alquanto conosciute, alla nascita di “Musica & Parole” (la rivista sui cantautori che dirigo da ormai cinque anni) mi hanno tirato le orecchie invitandomi a lasciare fuori la politica dalle sette note, che non erano più i tempi. La canzone italiana, in fondo, ha avuto - da sempre - la tendenza alla melodia, alla leggerezza, al brano edulcorato e rassicurante. L’eccezione è stata data dalla parentesi cantautorale, a inizio anni Settanta. Siamo stati la patria del “bel canto”, quello che se ne frega delle parole, ti racconta storie che non stanno né in cielo né in terra, una realtà diversa da quella che è. Intere generazioni lobotomizzate da canzoncine che non dicevano nulla; quindi la canzone d’autore: da De Andrè in avanti. Oggi si assiste a un ritorno di fiamma del disimpegno. C’è molta diffidenza verso chi dichiara la propria appartenenza politica, anche in canzone. La tendenza è di creare il vuoto intorno a chi fa propri ideali divergenti. Preferisco rimanere giornalisticamente “borderline”, non cambiare una virgola di ciò che scrivo, e delle scalette dei pochi festival simil-underground che dirigo.
Il tuo libro è dedicato a tua figlia: “a Sofia perché impari”, si legge in esergo alla pagina iniziale. Vuole essere un messaggio trasversale diretto ai giovani? C’è ancora tempo per aiutarli a compiere un percorso di riflessione, di consapevolezza riguardo a ciò che succede davanti ai loro occhi? Oppure il futuro è già segnato, e te lo immagini anche tu come un grande reality show?
Credo nei giovani. Per questo trovo estremamente importanti le occasioni che offriamo loro per riflettere, discutere. Se gli affidi un messaggio chiaro e diretto - e l’ho sperimentato nei diversi incontri sulla canzone d’autore che ho tenuto e tengo nelle scuole - i ragazzi si interessano, si informano, fanno domande. Dimostrano di essere disponibili a una visione alternativa delle cose. La scuola latita su certi argomenti: gli alunni finiscono col saperne di più dell’antico Egitto che della storia italiana più recente. Gravissimo. Uno dei racconti più efficaci sulla contemporaneità è stato dato dai cantautori, autentici cronisti-poeti dell’ultimo scorcio di Novecento. Credo che anche attraverso i loro dischi le generazioni più giovani possano farsi un’idea esauriente di cosa è stato quel periodo.
Il tuo libro è concepito come una vera e propria antologia. E’ stato pensato proprio per i ragazzi?
Sì, una certa struttura antologica è stata pensata proprio in funzione loro. Per chi, per motivi anagrafici, ha saltato l’epoca in cui i dischi e le parole contavano qualcosa. Sfogliando “Rosso sopra verde...”, Edoardo De Angelis, mi ha detto che in esso riconosceva scampoli della sua storia generazionale. E’ un commento che mi gratifica e mi conforta. Il libro andrebbe assunto come una sorta di introduzione a una canzone, e a un’epoca, di cui si parla sempre meno e quasi mai nel modo più appropriato.
Tralasciando i rari casi di cantautori giovani che non hanno paura di dirsi “impegnati” (Samuele Bersani e Daniele Silvestri su tutti), cosa manca, secondo te, alle nuove leve della canzone d’autore contemporanea?
Due cose, soprattutto: continuità e coraggio. A brani come Occhiali rotti, nel caso di Bersani, si affiancano in scaletta troppe canzoni dal contenuto “privato”. In altre parole: se, negli anni Settanta, il rapporto tra canzoni d’impegno civile a canzoni d’amore era di nove a uno, oggi è il contrario. Tra le felici eccezioni della nuova scena cantautorale inserirei Simone Cristicchi, che con il suo ultimo album ha realizzato un enorme salto di qualità. Il coraggio consisterebbe nel dire: questo sono io, come artista e come uomo. Il contenuto delle cose che scrivo è sorretto da parole di un certo peso. Prendere o lasciare. Capisco i ricatti delle radio e della discografia pop, alla Mara Maionchi, ma occorrono coraggio e gusto della sfida per diventare cantautori di impegno civile. Come l’avevano molti tra quelli che hanno cantato la canzone antimilitarista.
Quali canzoni per raccontare il tuo libro?
Inizierei con La bandiera, del Bennato che fu. E’ una canzone emblematica, che riflette sul lavaggio di cervello e sull’indottrinamento ideologico che stanno a sostegno del falso ideale di Patria. Per morire in nome di un pezzo di stoffa chiamato bandiera occorrono collanti sovrastrutturali e motivazioni che spingano in questa direzione. Ma “Rosso sopra verde...” non tratta solo della guerra combattuta in trincea, ma anche di quella più subdola, strisciante, consumata ogni giorno dietro l’angolo, per le strade e nelle piazze della nostra città. La guerra degli ultimi contro i primi. La guerra dei “figli di cane” e i detentori del Potere. E buona parte dell’inarrivabile canzoniere di Fabrizio De Andrè mi sembra, in questo senso, rappresentativo. Un’altra canzone da citare, per un aspetto diverso di denuncia, è Morire di leva, di Claudio Lolli. Racconta dei suicidi di caserma attraverso un “caso” emblematico. I troppo suicidi consumati all’interno delle caserme militari rappresentano il più vergognoso degli scheletri nell’armadio delle forze armate, di tutte le nazioni. Il mio libro tenta, insomma, di raccontare la guerra a 360 gradi. Ripeto: non soltanto quella “ufficiale”, combattuta dagli eserciti, ma anche quella perpetrata dal Sistema contro il semplice cittadino, attraverso mille e differenti meccanismi di sopraffazione.
Vorrei chiudere proprio con questo concetto, che mi pare racchiuso bene dall’appendice del libro...
Si intitola, non a caso “Memorie di un’altra guerra”. E tratta lo scontro civile che, a partire dagli anni Settanta, ha visto impegnati ragazzi e ragazze “allo stato di veglia”, che non si riconoscevano nell’Italia di Piazza Fontana e delle altre stragi rimaste impunite, e dall’altro lo Stato, attraverso i suoi organi di controllo: carabinieri e polizie varie. Si è trattato di una guerra eclatante e sotterranea al tempo stesso, che ha messo l’uno contro l’altro padri e figli, nuova e vecchia generazione, uomini in divisa ed altri in eskimo. Visti i morti che ci sono scappati si è sbagliato da entrambe le parti,. Quello che non mi va giù è la tendenza a descrivere quell’Italia come il migliore dei mondi possibili, dove un gruppo di teste calde, malati di delirio di onnipotenza, si sono messi in testa, all’improvviso, di giocare alla rivoluzione. Non mi pare una ricostruzione onesta di come sono andate realmente le cose. Attraverso un disegno occulto e stratificato, nell’Italia di quegli anni, il pericolo di un ritorno alla dittatura, è stato concreto. E se qualcuno si sta ancora chiedendo cosa c’entrino questi discorsi con le canzoni dei cantautori, si vada ad ascoltare Agosto, di Claudio Lolli. Oppure Canzone del maggio di Fabrizio De Andrè, o ancora Rosso colore di Pierangelo Bertoli. Forse capirà, una volta per tutte, che il nesso tra canzone d’autore e racconto sociale è molto più stretto di quanto si voglia fare credere.
Tiziana Tavella
IL SUO SAGGIO SULLE CANZONI CONTRO LA GUERRA
Rosso sopra verde è la mia divisa potrebbe sembrare un libro fuori moda. Fuori moda perché parla di canzone antimilitarista e perché in una società che aspira sempre più al patinato – una società dai successi facili e senza troppi grattacapi - lanciare degli “allerta” alle coscienze, attraverso le canzoni del passato, potrebbe risultare superato, quasi autolesionista...
Chi ha fatto questo tipo di scelta comunicativa, ha messo in conto lo scotto della solitudine. Sta nel gioco delle parti: spesso ci si sente isolati. Pochissimi interlocutori, una marea di distratti. Tuttavia credo che continuare a scrivere “libri impegnati” sia l’unica strategia valida per lasciarci alle spalle l’inedia politica e relazionale in cui versiamo. Scrivo i miei saggi musicali con l’idea di consegnare alle nuove generazioni un “messaggio” su cui riflettere. E’ necessario chiamarsi fuori dal coro, indicare possibili ancore di salvezza a chi nutre ancora - malgrado tutto - speranze di cambiamento. Un modo come un altro per dire che il senso di militanza è ancora possibile e avvertito. Mi vanto di appartenere alla schiera di giornalisti che credono in ciò che scrivono. E poi no, che non sono solo canzonette...non lo saranno mai, anche se il tentativo diffuso è quello di ridurle a tali.
E’ interessante fare notare che tra le pagine del tuo libro si accenna anche a un onesto Gianni Morandi che canta C’era un ragazzo che come me…L’antimilitarismo spicciolo, da cantare sotto la doccia, posto ad antitesi dell’antimilitarismo militante. Qual è, secondo te, la differenza sostanziale tra cantare, interpretare e sentire?
Il caso di Morandi mi sembra emblematico del fatto che non è mai importante cosa canti ma in che modo lo canti. Se bastasse interpretare un testo a tematica sociale per dirsi cantautore, anche Povia – tanto per fare un nome – potrebbe essere ascritto all’interno della categoria. Però non basta il tema. Occorrono anche la forma e il sentire. All’interno della discografia di Morandi, C’era un ragazzo... finisce con l’essere la classica rondine che non fa primavera. Si avverte chiaramente che, in questo brano, l’interprete è fuori luogo, che non sente ciò che canta. Lo si avverte anche dal look, dal modo di mantenersi, nonostante il testo della canzone, un personaggio rassicurante. Mi sembra evidente lo stacco che passa tra Morandi e le parole che dice. Poniamo, di contro, il caso di Fabrizio De Andrè, che è stato ciò che ha cantato. Politicamente coincidente con la sua arte. Anche in Claudio Lolli, uomo e artista coincidono perfettamente: non è uno di quelli che canta certe cose e poi ne vive delle altre, completamente diverse. Morandi è un bravo artista e una persona per bene, ma ha sempre cantato per cantare. Una canzone vale l’altra, per lui. E’ lo stesso per tanti altri: a cominciare da sua maestà Mogol (mediocrissimo paroliere), da Massimo Ranieri (oggi addirittura sdoganato dal Club Tenco come degno di autorialità)...ma se attribuiamo a Ranieri l’appellativo di “artista impegnato”, cosa sono e cosa sono stati i vari Guccini, Vecchioni, Fossati? Si rischia in questo modo di svalutare il termine. Dovrebbe essere chiaro, a questo punto, che il metro di valutazione per stabilire l’autorialità di una canzone è dato dalla coincidenza tra quello che si è e ciò che si fa, ciò che si canta.
Quali sono le reazioni al tuo “impegno” di giornalista musicale e scrittore? Il tuo messaggio sin dove pensi riesca ad arrivare?
Diversi colleghi (le anime belle della critica musicale, come li definisco io: quelli che “a canzoni non si fan rivoluzioni”) si profondono nei miei confronti in giudizi di critica più o meno velata. Oppure hanno atteggiamenti di indifferenza (certo sono uno che ignora volutamente tutta la merda pop che viene da oltre Manica...). Anche i direttori di riviste musicali alquanto conosciute, alla nascita di “Musica & Parole” (la rivista sui cantautori che dirigo da ormai cinque anni) mi hanno tirato le orecchie invitandomi a lasciare fuori la politica dalle sette note, che non erano più i tempi. La canzone italiana, in fondo, ha avuto - da sempre - la tendenza alla melodia, alla leggerezza, al brano edulcorato e rassicurante. L’eccezione è stata data dalla parentesi cantautorale, a inizio anni Settanta. Siamo stati la patria del “bel canto”, quello che se ne frega delle parole, ti racconta storie che non stanno né in cielo né in terra, una realtà diversa da quella che è. Intere generazioni lobotomizzate da canzoncine che non dicevano nulla; quindi la canzone d’autore: da De Andrè in avanti. Oggi si assiste a un ritorno di fiamma del disimpegno. C’è molta diffidenza verso chi dichiara la propria appartenenza politica, anche in canzone. La tendenza è di creare il vuoto intorno a chi fa propri ideali divergenti. Preferisco rimanere giornalisticamente “borderline”, non cambiare una virgola di ciò che scrivo, e delle scalette dei pochi festival simil-underground che dirigo.
Il tuo libro è dedicato a tua figlia: “a Sofia perché impari”, si legge in esergo alla pagina iniziale. Vuole essere un messaggio trasversale diretto ai giovani? C’è ancora tempo per aiutarli a compiere un percorso di riflessione, di consapevolezza riguardo a ciò che succede davanti ai loro occhi? Oppure il futuro è già segnato, e te lo immagini anche tu come un grande reality show?
Credo nei giovani. Per questo trovo estremamente importanti le occasioni che offriamo loro per riflettere, discutere. Se gli affidi un messaggio chiaro e diretto - e l’ho sperimentato nei diversi incontri sulla canzone d’autore che ho tenuto e tengo nelle scuole - i ragazzi si interessano, si informano, fanno domande. Dimostrano di essere disponibili a una visione alternativa delle cose. La scuola latita su certi argomenti: gli alunni finiscono col saperne di più dell’antico Egitto che della storia italiana più recente. Gravissimo. Uno dei racconti più efficaci sulla contemporaneità è stato dato dai cantautori, autentici cronisti-poeti dell’ultimo scorcio di Novecento. Credo che anche attraverso i loro dischi le generazioni più giovani possano farsi un’idea esauriente di cosa è stato quel periodo.
Il tuo libro è concepito come una vera e propria antologia. E’ stato pensato proprio per i ragazzi?
Sì, una certa struttura antologica è stata pensata proprio in funzione loro. Per chi, per motivi anagrafici, ha saltato l’epoca in cui i dischi e le parole contavano qualcosa. Sfogliando “Rosso sopra verde...”, Edoardo De Angelis, mi ha detto che in esso riconosceva scampoli della sua storia generazionale. E’ un commento che mi gratifica e mi conforta. Il libro andrebbe assunto come una sorta di introduzione a una canzone, e a un’epoca, di cui si parla sempre meno e quasi mai nel modo più appropriato.
Tralasciando i rari casi di cantautori giovani che non hanno paura di dirsi “impegnati” (Samuele Bersani e Daniele Silvestri su tutti), cosa manca, secondo te, alle nuove leve della canzone d’autore contemporanea?
Due cose, soprattutto: continuità e coraggio. A brani come Occhiali rotti, nel caso di Bersani, si affiancano in scaletta troppe canzoni dal contenuto “privato”. In altre parole: se, negli anni Settanta, il rapporto tra canzoni d’impegno civile a canzoni d’amore era di nove a uno, oggi è il contrario. Tra le felici eccezioni della nuova scena cantautorale inserirei Simone Cristicchi, che con il suo ultimo album ha realizzato un enorme salto di qualità. Il coraggio consisterebbe nel dire: questo sono io, come artista e come uomo. Il contenuto delle cose che scrivo è sorretto da parole di un certo peso. Prendere o lasciare. Capisco i ricatti delle radio e della discografia pop, alla Mara Maionchi, ma occorrono coraggio e gusto della sfida per diventare cantautori di impegno civile. Come l’avevano molti tra quelli che hanno cantato la canzone antimilitarista.
Quali canzoni per raccontare il tuo libro?
Inizierei con La bandiera, del Bennato che fu. E’ una canzone emblematica, che riflette sul lavaggio di cervello e sull’indottrinamento ideologico che stanno a sostegno del falso ideale di Patria. Per morire in nome di un pezzo di stoffa chiamato bandiera occorrono collanti sovrastrutturali e motivazioni che spingano in questa direzione. Ma “Rosso sopra verde...” non tratta solo della guerra combattuta in trincea, ma anche di quella più subdola, strisciante, consumata ogni giorno dietro l’angolo, per le strade e nelle piazze della nostra città. La guerra degli ultimi contro i primi. La guerra dei “figli di cane” e i detentori del Potere. E buona parte dell’inarrivabile canzoniere di Fabrizio De Andrè mi sembra, in questo senso, rappresentativo. Un’altra canzone da citare, per un aspetto diverso di denuncia, è Morire di leva, di Claudio Lolli. Racconta dei suicidi di caserma attraverso un “caso” emblematico. I troppo suicidi consumati all’interno delle caserme militari rappresentano il più vergognoso degli scheletri nell’armadio delle forze armate, di tutte le nazioni. Il mio libro tenta, insomma, di raccontare la guerra a 360 gradi. Ripeto: non soltanto quella “ufficiale”, combattuta dagli eserciti, ma anche quella perpetrata dal Sistema contro il semplice cittadino, attraverso mille e differenti meccanismi di sopraffazione.
Vorrei chiudere proprio con questo concetto, che mi pare racchiuso bene dall’appendice del libro...
Si intitola, non a caso “Memorie di un’altra guerra”. E tratta lo scontro civile che, a partire dagli anni Settanta, ha visto impegnati ragazzi e ragazze “allo stato di veglia”, che non si riconoscevano nell’Italia di Piazza Fontana e delle altre stragi rimaste impunite, e dall’altro lo Stato, attraverso i suoi organi di controllo: carabinieri e polizie varie. Si è trattato di una guerra eclatante e sotterranea al tempo stesso, che ha messo l’uno contro l’altro padri e figli, nuova e vecchia generazione, uomini in divisa ed altri in eskimo. Visti i morti che ci sono scappati si è sbagliato da entrambe le parti,. Quello che non mi va giù è la tendenza a descrivere quell’Italia come il migliore dei mondi possibili, dove un gruppo di teste calde, malati di delirio di onnipotenza, si sono messi in testa, all’improvviso, di giocare alla rivoluzione. Non mi pare una ricostruzione onesta di come sono andate realmente le cose. Attraverso un disegno occulto e stratificato, nell’Italia di quegli anni, il pericolo di un ritorno alla dittatura, è stato concreto. E se qualcuno si sta ancora chiedendo cosa c’entrino questi discorsi con le canzoni dei cantautori, si vada ad ascoltare Agosto, di Claudio Lolli. Oppure Canzone del maggio di Fabrizio De Andrè, o ancora Rosso colore di Pierangelo Bertoli. Forse capirà, una volta per tutte, che il nesso tra canzone d’autore e racconto sociale è molto più stretto di quanto si voglia fare credere.
Tiziana Tavella
CCG/AWS Staff - 2010/11/11 - 23:03
Beh trovo un po' strano che nell'intervista non venga citato l'autore della canzone Rosso Su Verde, da cui ha preso il titolo il libro, Massimo Bubola non viene mai citato, mentre altri cantautori si. Mi sembra molto scorretto. Mauro
Mauro - 2014/1/17 - 14:51
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Mon trésor
Tratta da una lettera del prozio di Massimo Bubola, sepolto sul Monte Grappa, che scrisse alla sua amata poco prima di morire in battaglia a soli 21 anni durante la Prima Guerra Mondiale.
2014
Il testamento del capitano
Quale guerra è veramente necessaria? Quale guerra si è mai dimostrata veramente giusta al punto da restituirci un mondo migliore? O ancora: quale guerra ha realmente raddrizzato il corso della storia giustificando il sacrificio di “alcuni” per il “bene” di tutto il mondo?
Il re del folk-rock Massimo Bubola torna a interpretare e rivisitare le canzoni della Grande Guerra con il nuovo album Il testamento del capitano a distanza di 9 anni dal successo di Quel lungo treno del 2005, proprio nel centesimo anniversario dall’inizio del conflitto mondiale.
Massimo Bubola riprende e riarrangia, caratterizzandoli profondamente col suo sound e la sua poetica grandi brani tradizionali come: Ta pum, Il Testamento del Capitano, Sul ponte di Perati, Monti Scarpazi, Bombardano Cortina, La tradotta e propone anche nuove e intense ballate, che nei testi e nelle sonorità riprendono il tema della Grande Guerra come: Da Caporetto al Piave, L'alba che verrà, Neve su neve, Vita di trincea.
Chiudono il disco le reinterpretazioni di due memorabili brani scritti da Massimo Bubola sul tema della Grande Guerra: Rosso su verde e Noi veniam dalle pianure cantati dal prestigioso coro ANA- Milano, diretto dal maestro Massimo Marchesotti.
Il tutto rivisitato con la sensibilità e l'esperienza di un grande autore, scrittore e musicista, autore di capolavori della canzone italiana e non, come Fiume Sand Creek, Don Raffaè e Il cielo d’Irlanda, solo per citarne alcuni.
“Molte di questi brani li conoscevo fin dalla più tenera età, sono stati il mio primo approccio con la canzone, le cantavo con mio nonno,con mio padre, coi miei zii. Tante volte mi è stato chiesto perché, negli anni, avessi io stesso scritto tante canzoni sulla guerra e in particolare sulla Prima Guerra Mondiale; riflettendo ho capito che mi è rimasto dentro una sorta di imprinting a partire da queste esperienze infantili, da questo primo approccio alla musica popolare. La mia prima canzone connessa con questa tematica fu Andrea, che poi cantò Fabrizio De André.
Dopo l’album Quel Lungo Treno, Il Testamento del Capitano è la seconda tappa di un percorso nella musica popolare di area veneta. Ho voluto anche qui unire canzoni tradizionali, che hanno cento anni, con mie canzoni nuove, che hanno un anno di vita, un po’ come in un film che accosta immagini di repertorio e immagini nuove, sotto un’unica regia. Un artificio realizzato anche nei due film sulla Prima Guerra Mondiale: Uomini contro di Rosi e La Grande Guerra di Monicelli.
Queste sono canzoni che ho voluto riportare ad una visione individuale, visto che oramai sono da sempre più un repertorio corale e, contemporaneamente, ho voluto portare alla coralità due mie nuove composizioni Rosso su verde e Noi Veniàm dalle painure, con l’esecuzione del coro Ana Milano con la direzione del maestro Massimo Marchesotti, per arricchire una letteratura dei canti di montagna e della Guerra, che in Italia è poco visitata - spiega Massimo Bubola – Il Testamento del Capitano è un’altra importante tappa del mio lungo lavoro di rivisitazione e riscoperta delle radici musicali e letterarie del folk di area lombardo-triveneta».
- Recensione di Salvatore Esposito su blogfoolk
Le canzoni dell'album:
Neve su neve - Bombardano Cortina - Sul ponte di Perati - Il testamento del capitano - Da Caporetto al Piave - Vita di trincea - Sui Monti Scarpazi - La tradotta che parte da Torino - Tapum - L'alba che verrà - Rosso su verde - Noi veniam dalle pianure
Questo grande classico di Massimo dopo la versione in inglese del folk-singer inglese Allan Taylor del 2009 :“Red on Green” dall’album Leaving at dawn (Stockfish records), viene qui storicizzata e cantata come una canzone della Grande Guerra con la meravigliosa versione del coro Ana di Milano con le armonizzazioni vocali del maestro Matteo Andreoni e la brillante e accurata direzione del maestro Massimo Marchesotti.
E’ una canzone che sta entrando nel repertorio dei cori alpini e cittadini per quanto riguarda le canzoni di guerra, il che era il sogno di Massimo, dopo la canzone Andrea ( Bubola-De Andrè) nel repertorio popolare austriaco-tedesco e Don Raffaè nella canzone napoletana, Zirighiltaggia in quella sarda, senza contare Il cielo d’Irlanda e Volta la carta, già canzoni molto eseguite e nel repertorio popolare.