Come and Listen to a story I will tell
Of a young GI you will remember well.
He died in Vietnam in the Mekong Delta land,
He had sandals on his feet and a rifle in his hand.
I wonder what was his name?
I wonder from which town he came?
I wonder if his children understood the reason why
Of the way he had to fight and the way he had to die.
They say that December '65
Was the last time he was ever seen alive.
It was U.S. Army lies that caused him to decide
To leave his old top sergeant and fight on the other side.
Was he lonesome for his homeland far away?
Fighting with his new companions night and day?
In the base and jungle camps they tell about a man
Sharing hardships with his comrades fighting on the other side.
It was in the month of April '68,
In the Delta land he met a soldier's fate.
He fought to his last breath and he died a hero's death,
And he wore the black pajamas of the People's NLF.
Well it's now that poor soldier's dead and gone.
His comrades and his friends are fighting on.
And when the people win, of their heroes they will sing,
And his name will be remembered with the name of Ho Chi Minh.
Of a young GI you will remember well.
He died in Vietnam in the Mekong Delta land,
He had sandals on his feet and a rifle in his hand.
I wonder what was his name?
I wonder from which town he came?
I wonder if his children understood the reason why
Of the way he had to fight and the way he had to die.
They say that December '65
Was the last time he was ever seen alive.
It was U.S. Army lies that caused him to decide
To leave his old top sergeant and fight on the other side.
Was he lonesome for his homeland far away?
Fighting with his new companions night and day?
In the base and jungle camps they tell about a man
Sharing hardships with his comrades fighting on the other side.
It was in the month of April '68,
In the Delta land he met a soldier's fate.
He fought to his last breath and he died a hero's death,
And he wore the black pajamas of the People's NLF.
Well it's now that poor soldier's dead and gone.
His comrades and his friends are fighting on.
And when the people win, of their heroes they will sing,
And his name will be remembered with the name of Ho Chi Minh.
Contributed by Riccardo Venturi - 2005/11/13 - 14:50
Language: Italian
Versione italiana di Riccardo Venturi
13 novembre 2005
13 novembre 2005
BALLATA DEL MILITE IGNOTO
Venite ad ascoltare una storia che vi racconto,
di un giovane soldato che ben rammenterete.
Morì nel Vietnam, nel delta del Mekong,
coi sandali ai piedi ed un fucile in mano.
Mi chiedo, qual era il suo nome ?
Mi chiedo, da quale città veniva ?
Mi chiedo se i suoi figli capivano perché
doveva combattere e morire in quel modo.
Dicono che nel dicembre del ‘65
fu l’ultimo periodo in cui lo si vide vivo.
Furono le bugie dell’esercito USA che gli fecero decidere
di lasciare il suo vecchio sergente maggiore e combatter dall’altra parte.
Aveva nostalgia della sua terra così lontana,
mentre combatteva giorno e notte coi suoi nuovi compagni ?
Nella base e nella giungla si racconta di un uomo
che divideva le pene coi suoi compagni, combattendo dall’altra parte.
Accadde nell’aprile del ’68,
nel delta del Mekong incontrò il destino del soldato.
Combatté fino all’ultimo e morì da eroe,
e indossava le divise nere dei Vietcong.
Beh, ora che questo povero soldato è morto e sepolto,
i suoi compagni e i suoi amici continuano a combattere.
E quando il popolo vince, canta i suoi eroi
e il suo nome sarà ricordato assieme a quello di Ho Chi Minh.
Venite ad ascoltare una storia che vi racconto,
di un giovane soldato che ben rammenterete.
Morì nel Vietnam, nel delta del Mekong,
coi sandali ai piedi ed un fucile in mano.
Mi chiedo, qual era il suo nome ?
Mi chiedo, da quale città veniva ?
Mi chiedo se i suoi figli capivano perché
doveva combattere e morire in quel modo.
Dicono che nel dicembre del ‘65
fu l’ultimo periodo in cui lo si vide vivo.
Furono le bugie dell’esercito USA che gli fecero decidere
di lasciare il suo vecchio sergente maggiore e combatter dall’altra parte.
Aveva nostalgia della sua terra così lontana,
mentre combatteva giorno e notte coi suoi nuovi compagni ?
Nella base e nella giungla si racconta di un uomo
che divideva le pene coi suoi compagni, combattendo dall’altra parte.
Accadde nell’aprile del ’68,
nel delta del Mekong incontrò il destino del soldato.
Combatté fino all’ultimo e morì da eroe,
e indossava le divise nere dei Vietcong.
Beh, ora che questo povero soldato è morto e sepolto,
i suoi compagni e i suoi amici continuano a combattere.
E quando il popolo vince, canta i suoi eroi
e il suo nome sarà ricordato assieme a quello di Ho Chi Minh.
Barbara Dane Il blues militante
ciao aggiungo all'articolo che avete postato questo molto bello uscito sul Il manifesto sabato scorso scritto da Alessandro Portelli.
nel caso non potete accedere a link ecco il testo copiato
ciao aggiungo all'articolo che avete postato questo molto bello uscito sul Il manifesto sabato scorso scritto da Alessandro Portelli.
nel caso non potete accedere a link ecco il testo copiato
Barbara Dane, blues militante - il manifesto.
Mi raccontò una volta Barbara Dane: «Quando decisi di rinunciare a un tour mondiale con Louis Armstrong per dedicarmi alla canzone di lotta e ai movimenti contro il razzismo e la guerra, il mio ormai ex manager mi disse: che peccato, potevi essere la nuova Janis Joplin! E io gli risposi: però io sono viva!».
Barbara Dane è rimasta una voce viva e irresistibile fino all’inizio di questa settimana, quando ci ha lasciati all’età di 97 anni intensi, creativi, generosi.
È stata una delle più straordinarie voci della musica americana dagli anni ’50 fino ad oggi; ed è stata una protagonista della stagione di lotte degli anni ’60 e della ostinata resistenza nei decenni seguenti – e forse proprio per questo relativamente, e ingiustamente, poco conosciuta.
Solo nei suoi ultimi anni ha ricevuto un po’ dei riconoscimenti che meritava.
Fino a poco tempo prima di morire faceva ancora seguitissimi concerti blues a San Francisco, Berkeley e dintorni, aveva appena pubblicato una coinvolgente autobiografia, era uscito un film su di lei e un cd di blues con la pianista Tammy Hall e un doppio cd antologico di tutti i suoi settant’anni di carriera di grande musicista e di insopprimibile militante.
ERA NATA nel 1927 da un famiglia proletaria in un quartiere operaio di Detroit. Era bianca, bionda, occhi azzurri. Nel 1959, Ebony – la rivista che sta al pubblico afroamericano come Life sta al resto d’America – le dedicò un articolo di sette pagine – «Bianca e bionda, tiene vivo il blues» – in cui la riconosceva come la vera erede di Bessie Smith. Incideva per majors discografiche, faceva musica con i maggiori bluesmen e jazzisti afroamericani, da Earl «Fatha» Hines a Lightnin’ Hopkins. Ma aveva un difetto: era comunista. E lo è rimasta fino alla fine.
Quando ho saputo della sua morte, ho pensato a che cosa scrivere qualcosa per ricordarla. Ma mi sono accorto che l’incipit che mi era venuto in mente era esattamente lo stesso che avevo usato pochi mesi fa per Giovanna Marini. Perché Barbara era sia molto diversa da Giovanna, sia anche un po’ come lei: come lei, amava la musica che faceva e aveva una voglia inesausta di condividerla.
Così, anche lei, una sera, dopo cena a casa sua, prese la chitarra e mi disse, ti va se suono qualcosa? E mi cambiò la vita.
Una delle canzoni che suonò per me (e per il mio registratore, fortunatamente acceso) era I Hate the Capitalist System – odio il sistema capitalistico – scritta negli anni ’30 da Sara Ogan Gunning, moglie e figlia di minatori di Harlan County, Kentucky. Fu quella registrazione che mi ha aperto gli occhi sulla profondità della lotta di classe negli Stati uniti e mi ha spedito a trascorrere trent’anni a cercare di raccontarla facendo storia orale a Harlan.
Barbara diventò un punto di riferimento nel mondo del folk revival, partecipò ai folk festival di Newport, incise un disco di canzoni popolari (Anthology of American Folk Song, 1959) e continuò a fare blues.
Ma a mano a mano abbatteva le separazioni dei generi musicali : il suo ultimo disco blues prima del cambio di carriera già includeva un classico di Pete Seeger, The Hammer Song; e in un memorabile album col gruppo soul dei Chambers Brothers (1964) entrano tutte le canzoni del movimento dei diritti civili, gospel e soul riversati in note di lotta.
Nel frattempo – quando per i cittadini statunitensi era ancora vietato – aveva partecipato al festival della Canción Protesta a Cuba ed è rimasta legata all’isola per il resto della sua vita (suo figlio Pablo Menéndez è rimasto a Cuba e col suo gruppo Mezcla è una delle voci più innovative e intelligenti della musica cubano contemporanea).
COME Giovanna Marini, come Violeta Parra, anche nei suoi anni più militanti Barbara non dimenticò mai di essere in primo luogo una musicista. Però il tempo premeva, c’era il Vietnam, c’erano le rivolte urbane afroamericane, nasceva il nuovo femminismo, e fare musica era inseparabile dal fare politica e fare cultura. Così andò a cantare, e a inventare e insegnare canzoni contro la guerra, davanti alle basi militari, creando luoghi di incontro (le GI coffee houses, i caffè dei soldati) dove i militari contro la guerra potevano incontrarsi e organizzarsi.
Insieme col suo compagno Irwin Silber (altra voce della sinistra comunista, fondatore e direttore per anni della storica rivista Sing Out!) creò un’etichetta discografica militante che fece conoscere musica e voci di tutti i movimenti antirazzisti e anticoloniali, da Haiti a Porto Rico, dall’Irlanda alle Black Panthers – e persino, in collaborazione coi Dischi del Sole, una antologia di canzoni di lotta italiane, intitolata, naturalmente, Avanti popolo!).
L’album più significativo che pubblicò in quegli anni (e che ripubblicammo coi Dischi del Sole) si chiamava, naturalmente, I Hate the Capitalist System.
LE REGISTRAZIONI di quella sera a casa sua, e altre – con lei e con altri musicisti che mi aveva fatto conoscere – erano confluite in un album, L’America della contestazione (Dischi del Sole, 1969), e le abbiamo ristampate e arricchite di recente in un’altra raccolta (We Shall Not Be Moved, Squilibri 2020).
Da lì, un paio di brani sono stati prelevati addirittura nella colonna sonora dell’Alligatore, la serie tv tratta dai romanzi di Massimo Carlotto).
Riuscimmo a far invitare Barbara alla festa dell’Unità nel 1972 e nel 1973; fino ad anni 2000 inoltrati, le sue tournée europee includevano sempre tappe a Roma ospitate dal Circolo Gianni Bosio.
Ma il momento che ricordo di più è quella sera, credo nel 1973, che organizzai di farla incontrare coi compagni del manifesto nella storica sede di via Pomponazzi. Cantò un po’ di cose, ma a lei e ai compagni interessava soprattutto parlare di politica.
Così, uno dei nostri le chiese: quali sono i movimenti più importanti in quel momento negli Stati Uniti. E lei disse: il movimento delle donne. Ricordo ancora lo sconcerto nei visi dei compagni (quasi tutti maschi): non ci avevano ancora pensato.
Se devo pensare a una canzone che tiene insieme tutta la vita e l’opera di Barbara Dane, non penso tanto a I Hate the Capitalist System, quanto a un blues degli anni ’20, di Ida Cox: Wild Women Don’t Get the Blues – che traduco sempre con “alle cattive ragazze non viene il blues”. Barbara la cantava già in uno dei suoi album degli anni ’50, l’ha cantata al concerto che organizzammo col Bosio a Roma alla Locanda Atlantide nel 2001 e c’è in We Shall Not Be Moved.
Barbara era wild a modo suo: non sfrenata, neanche tanto esibitamente trasgressiva; ma sempre oltre il confine della rispettabilità, del conformismo, del prevedibile, del subalterno.
Anche per questo, quando più di mezzo secolo fa alla sua porta si presentò uno sconosciuto e ingenuo viandante italiano, lo accolse, lo ospitò, gli regalò musica e gli aprì strade e visioni. Indimenticabile.
Mi raccontò una volta Barbara Dane: «Quando decisi di rinunciare a un tour mondiale con Louis Armstrong per dedicarmi alla canzone di lotta e ai movimenti contro il razzismo e la guerra, il mio ormai ex manager mi disse: che peccato, potevi essere la nuova Janis Joplin! E io gli risposi: però io sono viva!».
Barbara Dane è rimasta una voce viva e irresistibile fino all’inizio di questa settimana, quando ci ha lasciati all’età di 97 anni intensi, creativi, generosi.
È stata una delle più straordinarie voci della musica americana dagli anni ’50 fino ad oggi; ed è stata una protagonista della stagione di lotte degli anni ’60 e della ostinata resistenza nei decenni seguenti – e forse proprio per questo relativamente, e ingiustamente, poco conosciuta.
Solo nei suoi ultimi anni ha ricevuto un po’ dei riconoscimenti che meritava.
Fino a poco tempo prima di morire faceva ancora seguitissimi concerti blues a San Francisco, Berkeley e dintorni, aveva appena pubblicato una coinvolgente autobiografia, era uscito un film su di lei e un cd di blues con la pianista Tammy Hall e un doppio cd antologico di tutti i suoi settant’anni di carriera di grande musicista e di insopprimibile militante.
ERA NATA nel 1927 da un famiglia proletaria in un quartiere operaio di Detroit. Era bianca, bionda, occhi azzurri. Nel 1959, Ebony – la rivista che sta al pubblico afroamericano come Life sta al resto d’America – le dedicò un articolo di sette pagine – «Bianca e bionda, tiene vivo il blues» – in cui la riconosceva come la vera erede di Bessie Smith. Incideva per majors discografiche, faceva musica con i maggiori bluesmen e jazzisti afroamericani, da Earl «Fatha» Hines a Lightnin’ Hopkins. Ma aveva un difetto: era comunista. E lo è rimasta fino alla fine.
Quando ho saputo della sua morte, ho pensato a che cosa scrivere qualcosa per ricordarla. Ma mi sono accorto che l’incipit che mi era venuto in mente era esattamente lo stesso che avevo usato pochi mesi fa per Giovanna Marini. Perché Barbara era sia molto diversa da Giovanna, sia anche un po’ come lei: come lei, amava la musica che faceva e aveva una voglia inesausta di condividerla.
Così, anche lei, una sera, dopo cena a casa sua, prese la chitarra e mi disse, ti va se suono qualcosa? E mi cambiò la vita.
Una delle canzoni che suonò per me (e per il mio registratore, fortunatamente acceso) era I Hate the Capitalist System – odio il sistema capitalistico – scritta negli anni ’30 da Sara Ogan Gunning, moglie e figlia di minatori di Harlan County, Kentucky. Fu quella registrazione che mi ha aperto gli occhi sulla profondità della lotta di classe negli Stati uniti e mi ha spedito a trascorrere trent’anni a cercare di raccontarla facendo storia orale a Harlan.
Barbara diventò un punto di riferimento nel mondo del folk revival, partecipò ai folk festival di Newport, incise un disco di canzoni popolari (Anthology of American Folk Song, 1959) e continuò a fare blues.
Ma a mano a mano abbatteva le separazioni dei generi musicali : il suo ultimo disco blues prima del cambio di carriera già includeva un classico di Pete Seeger, The Hammer Song; e in un memorabile album col gruppo soul dei Chambers Brothers (1964) entrano tutte le canzoni del movimento dei diritti civili, gospel e soul riversati in note di lotta.
Nel frattempo – quando per i cittadini statunitensi era ancora vietato – aveva partecipato al festival della Canción Protesta a Cuba ed è rimasta legata all’isola per il resto della sua vita (suo figlio Pablo Menéndez è rimasto a Cuba e col suo gruppo Mezcla è una delle voci più innovative e intelligenti della musica cubano contemporanea).
COME Giovanna Marini, come Violeta Parra, anche nei suoi anni più militanti Barbara non dimenticò mai di essere in primo luogo una musicista. Però il tempo premeva, c’era il Vietnam, c’erano le rivolte urbane afroamericane, nasceva il nuovo femminismo, e fare musica era inseparabile dal fare politica e fare cultura. Così andò a cantare, e a inventare e insegnare canzoni contro la guerra, davanti alle basi militari, creando luoghi di incontro (le GI coffee houses, i caffè dei soldati) dove i militari contro la guerra potevano incontrarsi e organizzarsi.
Insieme col suo compagno Irwin Silber (altra voce della sinistra comunista, fondatore e direttore per anni della storica rivista Sing Out!) creò un’etichetta discografica militante che fece conoscere musica e voci di tutti i movimenti antirazzisti e anticoloniali, da Haiti a Porto Rico, dall’Irlanda alle Black Panthers – e persino, in collaborazione coi Dischi del Sole, una antologia di canzoni di lotta italiane, intitolata, naturalmente, Avanti popolo!).
L’album più significativo che pubblicò in quegli anni (e che ripubblicammo coi Dischi del Sole) si chiamava, naturalmente, I Hate the Capitalist System.
LE REGISTRAZIONI di quella sera a casa sua, e altre – con lei e con altri musicisti che mi aveva fatto conoscere – erano confluite in un album, L’America della contestazione (Dischi del Sole, 1969), e le abbiamo ristampate e arricchite di recente in un’altra raccolta (We Shall Not Be Moved, Squilibri 2020).
Da lì, un paio di brani sono stati prelevati addirittura nella colonna sonora dell’Alligatore, la serie tv tratta dai romanzi di Massimo Carlotto).
Riuscimmo a far invitare Barbara alla festa dell’Unità nel 1972 e nel 1973; fino ad anni 2000 inoltrati, le sue tournée europee includevano sempre tappe a Roma ospitate dal Circolo Gianni Bosio.
Ma il momento che ricordo di più è quella sera, credo nel 1973, che organizzai di farla incontrare coi compagni del manifesto nella storica sede di via Pomponazzi. Cantò un po’ di cose, ma a lei e ai compagni interessava soprattutto parlare di politica.
Così, uno dei nostri le chiese: quali sono i movimenti più importanti in quel momento negli Stati Uniti. E lei disse: il movimento delle donne. Ricordo ancora lo sconcerto nei visi dei compagni (quasi tutti maschi): non ci avevano ancora pensato.
Se devo pensare a una canzone che tiene insieme tutta la vita e l’opera di Barbara Dane, non penso tanto a I Hate the Capitalist System, quanto a un blues degli anni ’20, di Ida Cox: Wild Women Don’t Get the Blues – che traduco sempre con “alle cattive ragazze non viene il blues”. Barbara la cantava già in uno dei suoi album degli anni ’50, l’ha cantata al concerto che organizzammo col Bosio a Roma alla Locanda Atlantide nel 2001 e c’è in We Shall Not Be Moved.
Barbara era wild a modo suo: non sfrenata, neanche tanto esibitamente trasgressiva; ma sempre oltre il confine della rispettabilità, del conformismo, del prevedibile, del subalterno.
Anche per questo, quando più di mezzo secolo fa alla sua porta si presentò uno sconosciuto e ingenuo viandante italiano, lo accolse, lo ospitò, gli regalò musica e gli aprì strade e visioni. Indimenticabile.
Paolo Rizzi - 2024/11/1 - 10:29
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Note for non-Italian users: Sorry, though the interface of this website is translated into English, most commentaries and biographies are in Italian and/or in other languages like French, German, Spanish, Russian etc.
Lyrics and music by Rod Shearman
Testo e musica di Rod Shearman
"The song is called "The Ballad of the Unknown Soldier." I
don't know whether anyone other than Barbara Dane sang it in the U.S.back in those days. Barbara recorded it on Paredon's "What Now People?" Vol. 1. some time in the early seventies. (She first got the song from Peggy Seeger who sent it to her in 1969.) The author, Rod Shearman, is English. Shearman wrote it after seeing a brief item in the Manchester Guardian about an American GI, dressed in sandals and black pajamas, who was found dead behind "enemy" lines. (There had been a number of other stories in the New York Times and other places about GIs who "went over to the other side" in Vietnam. One had to do with a team known as Salt and Pepper -- a Black GI and a white GI, and another solder called Porkchop, who also fought alongside the Vietnamese. Jack Warshaw, an American draft resister who was living in England during the Vietnam War, shortened the original down to seven verses and sang it at least in the Singers' Club and probably other places too. (That's where I first heard it.) When Barbara recorded it she cut it down to five. I don't think it was ever printed anywhere, but you can probably get a copy of "What Now People?" Vol. 1 from Smithsonian-Folkways. Barbara and I donated the entire Paredon catalog to Smithsonian-Folkways about five years ago. I remember Barbara singing this song for active-duty GIs at the various coffee houses the GI support movement set up adjacent to army bases and the chills that would go up and down my spine as she got to the line about the soldier "wearing the black pajamas of the People's NLF" when it finally dawned on the GIs listening exactly what the song's point was. And then she would get them to sing along on the chorus of Ewan MacColl's "Ballad of Ho Chi Minh." Very few people know the incredible story of how songs became a powerful medium through which antiwar GIs could vent their feelings about the Vietnam War. [IS]