Ἀρκαδία IV- ᾩδαί
Α' - ΩΔΗ ΤΡΙΤΗ
Τὰ ἡφαίστεια
Τὰ ἡφαίστεια
θ'
Αὐγεριναὶ τοῦ ἡλίου
ἀκτῖνες, τί προβαίνετε;
Τάχα ἀγαπάει νὰ βλέπῃ
ἔργα ληστῶν τὸ μάτι
τῶν οὐρανίων;
κε'
Ὦ Ἕλληνες, ὦ θεῖαι
ψυχαὶ πού εἰς τοὺς μεγάλους
κινδύνους φανερώνετε
ἄκαμπτον ἐνέργειαν
καὶ ὑψηλὴν φύσιν !
κζ'
Πῶς, πῶς τῆς ταλαιπώρου
πατρίδος δὲν πασχίζετε
νὰ σώσητε τὸν στέφανον
ἀπό τὰ χέρια ἀνόσια
ληστῶν τοσούτων;
κη'
Εἶναι πολλὰ τὰ πλήθη των
καὶ τρομερά εἰς τὴν ὄψιν,
ἀλλ' ἕνας Ἕλλην δύναται.
Ἕνας ἄνδρας γενναῖος
νὰ τὰ σκορπίσει.
2. ΩΔΗ ΤΕΤΑΡΤΗ
Εἰς Σάμον
Εἰς Σάμον
α'
Ὅσοι τὸ χάλκαιον χέρι
βαρὺ φόβου αἰσθάνονται,
ζυγὸν δουλείας ἂς ἔχωσι
θέλει αρετὴ καὶ τόλμην
ἡ ἐλευθερία.
β'
Αὐτὴ (καὶ ὁ μύθος κρύπτει
νοῦν ἀληθείας) ἐπτέρωσε
τὸν Ἴκαρον καὶ ἂν ἔπεσεν
ὁ πτερωθείς κι ἐπνίγη
θαλασσωμένος.
γ'
Ἀφ΄ὑψηλὰ ὅμως ἔπεσε
καὶ ἀπέθανεν ἐλεύθερος.
Ἂν γένῃς σφάγιον ἅτιμον
ἑνός τυράννου, νόμιζε
φρικτὸν τὸν τάφον.
3. ΩΔΗ ΕΚΤΗ
Αἱ εὐχαί
Αἱ εὐχαί
α'
Τῆς θαλάσσης καλήτερα
φουσκωμένα τὰ κύματα
νὰ πνίξουν τὴν πατρίδα μου
ὡσὰν ἀπελπισμένη
ἔρημον βάρκαν.
β'
Στὴν στεριάν, στὰ νησιά,
καλήτερα μία φλόγα
νὰ ἰδῶ παντοῦ χυμένην
τρώγουσαν πόλεις, δάση,
λαοὺς καὶ ἐλπίδας.
γ'
Καλήτερα, καλήτερα
διασκορπισμένοι οἱ Ἕλληνες
νὰ τρέχωσι τὸν κόσμον
με ἐξαπλωμένην χεῖρα
ψωμοζητοῦντες.
ιε'
Τὸ ξίφος σφίγξατ' Ἕλληνες,
τὰ ὀμμάτια σας σηκώσατε
ἰδοῦ εἰς τοὺς οὐρανούς
προστάτης ὁ Θεός
μόνος σας εἶναι.
ις'
Κι ἄν ὁ Θεὸς καὶ τ' ἄρματα
μᾶς λείψωσι καλήτερα
πάλιν νὰ χρεμετίσωσι
ς'τὸν Κιθαιρώνα Τούρκων
ἄγριαι φοράδες.
ιζ'
Παρὰ ... ἆ! ὅσον εἶναι
τυφλὴ καὶ σκληροτέρα
ἡ τυρρανὶς τοσοῦτον
ταχυτέρως ἀνοίγονται
σωτήριοι θύραι.
envoyé par Gian Piero Testa - 12/4/2010 - 11:09
Langue: italien
Versione italiana di Gian Piero Testa
Andreas Kalvos
di Gian Piero Testa
di Gian Piero Testa
Andreas Kalvos ( Ἀνδρέας Κάλβος) non fu né capito né amato dai suoi contemporanei della madre patria; e rimase in una sorta di limbo fino a quando, solamente alla fine del XIX sec., l'indiscusso vate Kostìs Palamàs diede la sveglia ai suoi connazionali: avevano avuto un gran poeta, e “manco lo sapeveno”.
Kalvos era nato nel 1792 a Zante, terra veneziana allora, ed era stato trascinato appena decenne a Livorno dal padre Giannetto Zaneto Calvo (Ioannis Kalvos), un tipo di scavezzacollo che, dopo essere stato al soldo della Serenissima e dopo avere sposato una signorina “zakinthinià” di notabile famiglia, per campare del suo si era dato a traffici estemporanei, e un bel giorno aveva mandato a quel paese, a un tempo, l’intemerata moglie e le sacre sponde di Zacinto sua. A Livorno, Andreas cominciò a diventare Italiano: con gli studi classici, greco, latino e via dicendo, e con le prime prove poetiche: un Inno a Napoleone – il quale nel frattempo si stava nomando due secoli l’un contro l’altro armati - che, rifiutato dall’autore, è ormai dato per perso.
Poi, defunto il padre e defunti anche gli scarsi quattrini che quegli riusciva a raggranellare alla ventura, era andato a Firenze, un po’ perché là il clima culturale era molto migliore che nel bailamme globalizzato e imbastardito di Livorno, un po’ perché, se voleva campare e intanto anche poetare, un lavoro di penna doveva pur cercarselo. A Firenze aveva incontrato, e ne era diventato amico, un suo paesano parecchio più anziano di lui, e già patriota, poeta e letterato di gran nome e di gran vaglia: Nikolaos “Ugo” Foscolo, che aveva già scritto addirittura un immortale carme Dei Sepolcri e in quel periodo risiedeva a Bellosguardo, frequentava il salotto della nobile Albany e il talamo della Magiotti, e scriveva le Grazie e la tragedia Ricciarda. Anche Kalvos, scrisse in lingua italiana tre tragedie di argomento classico, sulle orme dell’amico, tragediografo non eccelso lui pure. Del Foscolo diventò segretario, sodale e discepolo artistico e politico. Ma era già quasi il 1813, l’anno di Lipsia e del ritorno in Italia degli Austriaci. I due non erano abbastanza cattolici apostolici e romani perché gli si “slargàss el coeur” per quel ritorno degl’Italiani alla santa fede, ritorno del resto un po’ troppo accelerato dal “santo aspèrges del bastun” todesco, come annotava Carlo Porta: molto meglio esportarsi in Svizzera.
Il Foscolo, rifiutatosi di collaborare alle lettere austriache, andò subito a Zurigo; mentre il Calvo/Kalvos, meno conosciuto e quindi meno esposto alle insidiose seduzioni dei nuovi padroni, aspettò Waterloo, e, preso atto dei definitivi deliberati della Storia, raggiunse l’amico-maestro nel 1815. Colà gli arrivò la notizia che la Madre, la quale da quattordici anni aveva perso qualsiasi traccia dei figli (e loro di Lei) suo dì tardo traendo era giunta al porto di sua quiete: travolto dalla commozione, il Kalvos le dedicò un' Ode alla Morte, poi pubblicata con le altre nove di I Lyra nel 1824. Di lì, l’anno seguente i due amici partirono per la libera Inghilterra (la stessa che il Foscolo a suo tempo aveva sperato di sottomettere in armi, partenza tutti da Boulogne: ma poi ‘un si fece). Senza più i genitori che, praticamente, non aveva mai avuto, Andreas si liberò anche di quel genitore putativo che gli era divenuto l’amico Ugo: fu rottura, nel 1817; e ciascuno andò per la sua strada. Ma in Andreas rimasero incorporati tutti gli umori foscoliani, che oramai aveva assorbito. Da letterato che era, nella nuova patria visse di lettere, insegnando greco latino e italiano, traducendo in inglese tutto quello che gli arrivava a tiro, compresi certi testi religiosi che aggiunsero note in più al suo repertorio di citazioni poetiche.
Si intromise anche nella gran questione della lingua dei Greci, che sempre più divampava sia in patria sia nella diaspora, argomentando tra l’altro contro la pronunzia erasmiana, in auge tra i classicisti europei, con ragioni che non sembrano molto apprezzate dagli esperti. Soprattutto attese alla composizione di una grammatica neogreca e a quella di un dizionario neogreco-inglese. Ebbe un matrimonio con una britanna vergine, sfortunato per la prematura morte di lei e di una figlioletta appena nata, e un amore infelice, per il quale sembra abbia tentato un suicidio, alla Jacopo Ortis .
Nel 1820 ritorna sui suoi passi e lo ritroviamo a Firenze, adepto di una vendita carbonara. Poi a Genova, a insegnare lingue straniere e a tentare una traduzione dell’Iliade in neogreco. Siamo così giunti all’ “Icosi-èna”, il 1821, l’anno fatale della rivolta dei Greci contro i Turchi. Stavolta non è l’ennesima fiammata destinata a estinguersi in breve, tra scorrerie di klefti e di armatoli e orribili rappresaglie albanesi o turche. Stavolta c’è l’esempio dei Serbi, e c’è pure un’ organizzazione, la “Filikì Eterìa”, a guidare la danza. Anche una parte della Chiesa Ortodossa sembra abbastanza convinta, anche perché ferita dalla fresca impiccagione del Patriarca costantinopolitano. Se non tutti i vescovi, certamente il clero basso e molti monasteri soffiano esplicitamente sulla rivolta. E anche ci sono sponde internazionali – quella russa, soprattutto, cui aveva aperto le porte il tradimento inglese di pochi anni prima, quando ai Turchi si era ribellato l’albanese Alì Pascià e i Greci del Suli avevano combattuto, solo per finire miseramente nell’imbuto di Parga. E ci sono le simpatie di quell’opinione pubblica europea la quale incomincia ad accorgersi che la tirannide del Bonaparte e quella dei sovrani restaurati non erano esattamente la stessa cosa, e non intende perdere questa occasione di universalizzare, picchiando sull’esecrata testa del Turco, la lotta per la libertà e l’indipendenza nazionale in cui sono impegnati i Greci, eredi dei fondatori della democrazia: ma non solo loro. E’ giunto il momento che anche il letterato cosmopolita Kalvos diventi poeta, riprenda la sua identità di Greco, e si unisca alla lotta patriottica.
Tale fu il contesto in cui Kalvos mise mano alle sue Ὠιδαί, le sue «Odi», grazie alle quali intendeva farsi maestro di lingua e di stile e mentore di virtù civili per il suo “Ghenos”, la sua ritrovata Stirpe. Un primo gruppo di dieci fu pubblicato a Genova nel 1824, con il titolo di Ἡ Λύρα, « I Lyra» e, subito tradotto in francese, suscitò oltralpe grande ammirazione. Così il poeta si trasferì a Parigi, dove attese alla composizione di un secondo gruppo, sempre di dieci odi e concluso nel 1826, che ha il titolo di Τὰ Λυρικά, «Ta Lyrikà». Come san Paolo scriveva lettere alle prime comunità cristiane, Kalvos scrisse alcune odi indirizzate esplicitamente alle comunità greche degli Ioni e dei Samii, dei Sulioti.. E’ da questo duplice corpo di Odi che Theodorakis trasse, nel confino di Zatuna, i testi per esortare i connazionali a proseguire un’antica lotta, quella eterna dei liberi contro i tiranni.
Pensando che Kalvos non ebbe gran peso ai suoi tempi, non certo come il connazionale Dionisio Solomòs, mi viene da sottolineare lo strano fatto per cui questo poeta è stato molto più capito dai posteri che non dai suoi contemporanei. Non ci fu solo Theodorakis ad aggrapparsi a lui per ricaricarsi, come Greco e come combattente antifascista, nel bel mezzo della dittatura, quando tutto, intorno, sembrava compromesso. Anche al poeta Elytis – è lui stesso che lo rievoca – venne in mente Andreas Kalvos, come una sorgente a cui si doveva ritornare, nel momento in cui il fronte albanese sul quale combatteva stava per essere travolto nel 1941: anzi, nel momento esatto in cui stava aspettando sul proprio corpo il colpo finale, per essere intempestivamente uscito allo scoperto con il suo reparto, finendo sotto il fuoco amico dell’artiglieria greca. In quelle due ore di angoscia, attaccò a recitarsi versi dell’antico poeta e a pensare che dovesse essere recuperato per creare un nuovo ethos del suo popolo.
Un’altra lezione Andreas aveva appreso dall’ex amico Nikolaos “Ugo”: che le “libere carte” valgono, comunque, meno dell’“altamente oprare”. Tema ricorrente tra i Poeti, quando ci sarebbe da menar le mani, e loro ci sanno fare solo con la penna: “Si mi pluma valiera tu pistola...”, scrisse anche Machado al Comandante Listèr. E Kalvos riceveva le notizie del “ghenos” sanguinante ma sempre in armi e in mezzo alle fiamme, udiva parlare del gran poeta Byron che sbarcava, onoratissimo, a Missolungi per impugnare “kariofìli” e “yatagani” (e prendendosi invece la malaria) per farla fuori anche lui, “tsekouri ke fotià”, (“fiamme e scuri”) coi Turchi maledetti. Doveva anche lui passare all’azione, dopo aver tanto esortato a versare il sangue, e perciò veleggiò fino a Nafplion, città, porto e fortezza liberata dai barbari fin dal 1821 grazie alla mente tattica di Kolokotronis e alla mano di Staikos Staikopoulos, che di slancio aveva portato i suoi pallikari fino in cima al Palamidi. Nafplion in quel momento era sede del governo provvisorio e sarebbe poi diventata la capitale – provvisoria – del nuovo Stato repubblicano affidato al conte riformatore Ioannis Kapodistrias, finché questi non fu eliminato a coltellate.
Sbarcato a Nafplion alla fine del Luglio 1826, il Kalvos capì subito due cose: che di quel mezzo straniero piovuto dall’Europa dove aveva scritto versi un po’ in italiano e un po’ in greco, ma non era né Byron né Solomòs, nessuno sapeva che farsene, e che i dirigenti del Santo Agone erano ormai avvelenati dalla loro interna lotta politica e sociale, oltre che dalle gelosie tipiche dei militari (quando la vittoria è vicina), o dagli scaricabarile (quando lo è la sconfitta). La vittoria, in realtà, non era molto lontana, e sarebbe arrivata per l’equivoco in cui incapparono il 20 Ottobre 1827 a Navarino-Pylos gli ammiragli delle grandi potenze, che inopinatamente mandarono a picco la flotta turco-egiziana: ma la sensazione generale era che in quel momento fosse assai più vicino un disastro completo. Il governo di Istanbul si era appellato al pascià d’Egitto, Muhamad Alì, che aveva mandato il figlio Ibrahim Pascià con una immensa fanteria, dotata di formidabile artiglieria e sostenuta da una flotta imponente. L'eroe marinaro Maioùlis non riusciva più a controllare il mare; e rapidamente i Greci perdevano terreno. Anche Missolungi non ce la faceva più a resistere all’assedio e invano aspettava aiuti proprio da Nafplion.
Giunti a quel punto assai critico, i dirigenti politici e militari avevano fatto le viste di sospendere gli ormai spietati conflitti intestini, sempre pronti a sfociare in episodi di guerra civile, e avevano anche fatto uscire il popolarissimo Kolokotronis dalla cella sul Palamidi dove lo tenevano rinchiuso a marcire in attesa di un’esecuzione capitale che, però, non avevano il coraggio di eseguire (la stessa cosa si sarebbe ripetuta qualche anno dopo, durante la reggenza; e lo stesso metodo sarebbe stato utilizzato nel tentativo di eliminare l’altro grande comandante popolare, Yannis Makriyannis: tali erano ormai gli umori che dividevano chi guidava la lotta, perché la guerra contro il Turco conteneva in sé un implacabile scontro di classe tutto interno ai Greci stessi): ma ciò non bastava a dissimulare la realtà di conflitti difficilmente sanabili.
Di fronte all’indifferenza riservata alla sua poesia e all’offerta del suo braccio, e di fronte allo spettacolo dei dissensi che dilaniavano chi aveva la responsabilità della guerra, Kalvos, sdegnato e amareggiato, girò i tacchi e, pur non abbandonando la Grecia, andò a risiedere a Corfù, tenuta saldamente dagli Inglesi. Lì riprese la sua attività di uomo di lettere e di scuola, dedicandosi all’insegnamento nell’Accademia delle Ionie e, da un certo momento, dirigendo il locale Ginnasio. Scriveva su giornali dell’isola: ma non sembra abbia davvero partecipato alla vita politica, né a quella culturale. Nello stesso periodo, a Corfù, risiedeva anche Solomòs: e pare che non si siano mai incontrati, neanche per un boccalino di ouzo o una partitina a tavli in qualche taverna del porto. Non c’è neppure traccia di sue relazioni con gli intellettuali di cui le Sette Isole Ionie, mai cadute sotto il dominio ottomano, abbondavano e che, con i Fanarioti, unica e vera borghesia dell’Impero all’altro estremo dell’Ellenismo, costituirono la prima generazione dell’intellighenzia della nuova Grecia. Dopo il lungo soggiorno a Corfù, nel 1852 Kalvos decise di ritornare in Inghilterra. Andò a stare a Louth, si risposò con un’Inglese, e, fino alla morte avvenuta nel 1869, insegnò in un collegio per fanciulle.
Mal apprezzato in patria, Kalvos fu esaltato dagli europei filelleni. Solo nel 1889 fu rivelato ai suoi connazionali da Kostìs Palamàs. (GPT)
Arcadia IV - Odi
Α. - ODE TERZA
I vulcani
I vulcani
9.
O raggi mattutini
del sole a che avanzate?
Forse veder compiacesi
opre di tai briganti
lo sguardo dei celesti ?
25.
O Greci miei, o anime
divine, che nei grandi
perigli palesate
vigore inesauribile
e altissima natura !
27
Come come potete l’anima
non dar che salvi il serto
alla percossa patria
da man sacrilega
di simili briganti ?
28.
Sono lor turbe innumeri
e terribili a vedersi,
ma un Greco può da solo,
un uomo sol che valga,
mandarle scompigliate.
B. - ODE QUARTA
A Samo
A Samo
1.
Quanti la pesa e bronzea
man di spavento sentono
s’abbian di servaggio il giogo:
virtù e coraggio vuole
la libertà.
2.
Fu lei a dar ali ad Icaro
(un vero il mito cela):
non cal se cadde alato
e ruinando in mare
in quello si affogò:
3.
Però che di somma altezza
ei cadde e morì libero.
Se mai tu di tiranno ti rendi armento vile
pensa qual spaventevole
tomba la tua sarà.
Α. - ODE SESTA
I voti
I voti
1.
E’ meglio che del mare
l’onde rigonfie anneghino
tutta la patria mia
se sua barca disperando
abbandonata lasci.
2
Nell’isole e in terraferma
meglio ch’io veda un fuoco
tratto per ogni luogo,
città e foreste a rodere
e popoli e speranze.
3
Meglio, sì meglio sia
che gli Elleni dispersi
meglio che a man protesa
tutta la terra corrano
pregando per un pane.
15.
Il ferro stringeste, Greci -
levaste in alto gli occhi -
ecco – negli alti cieli
è solamente Iddio
il vostro protettore.
16.
Se fosse ch’anco le armi
ne vengan meno, oh meglio
che rïedano a nitrire
sul Turco Citerone
le indomite giumente.
17.
Pure... ove più inesorabile
ahi di tiranno il giogo
e quanto più cieco sia,
tanto più preste s'aprono
le porte di salvezza.
envoyé par Gian Piero Testa - 12/4/2010 - 15:16
Arrivati alle "Odi Arcadiche" di Kalvos, mi è preso un impeto: ma come, un greco che sta prima a Livorno e bazzica spesso Firenze, con la sua paginona lasciata lì anch'essa da due anni...?!? E osi labellarti Ρικάρντος Βεντούρης, tu? Giammai! E, allora, cominciamo subito col riportare il testo delle Odi al più rigoroso πολυτονικόν, ché sicuramente il Kalvos, o Calvo, sarebbe inorridito nel leggere i suoi versi senza spiriti e accenti nella più pura tradizione classica. E i congiuntivi sono con gli iota sottoscritti, perdiana. Leggendo Kalvos, mi sono accorto (con parecchio piacere, devo dirlo) che la sua lingua non è dissimile a quella che sto usando per la traduzione di Procurad'e moderare; la "kalvizzerò" ancora di più, se possibile.
Ρικάνρντος Βεντούρης - 4/5/2012 - 15:16
Sempre a distanza di due anni vorrei sottolineare qui la traduzione del nostro Gian Piero Testa, che ha reso Kalvos in perfetti versi foscoliani (beh, di Foscolo Kalvos era conterraneo e fu amico, almeno fino a una certa data; infine, come il Foscolo, morì esule in terra inglese). Chapeau a gpt.
Riccardo Venturi - 4/5/2012 - 15:50
Posso, Riccardo? Credo che ᾯδαι così scritto sia schietto greco antico, non neogreco sia pur purificato, che dovrebbe, da ᾡδή, dare il plurale ᾡδαί (come è nel titolo della pagina), pronuncia "odé". Anche di Ἀρκάδια andrebbe spostato l'accento: Ἀρκαδία.
I miei versi foscoliani non sono perfetti; e alcuni zoppicano di brutto...: ma era una pàtina che ci voleva, secondo me, e così ci ho provato.
I miei versi foscoliani non sono perfetti; e alcuni zoppicano di brutto...: ma era una pàtina che ci voleva, secondo me, e così ci ho provato.
Gian Piero Testa - 5/5/2012 - 19:47
Ma guarda Gian Piero che me ne ero già accorto, visto che è ᾡδαί anche in greco antico attico; semplicemente avevo fatto un errore, può scappare :-P Comunque me ne ero accorto dopo una decina di minuti e ho corretto subito...
Riccardo Venturi - 6/5/2012 - 00:33
Guarda che un ᾯδαι e due Ἀρκάδια continuano in questo momento a mostrarsi, Ἀρκάδια nel titolo generale e in quello preposto ai testi, e ᾯδαι in quello dei testi.
Gian Piero Testa - 6/5/2012 - 09:52
Di quelli non mi ero accordo e provvedo immediatamente a correggere...ecco, ora dovrebbe essere tutto a posto!
Riccardo Venturi - 6/5/2012 - 11:08
Scusate se mi inserisco, ma Odai non deve avere spirito dolce?
Un saluto.
Un saluto.
Vasiloukos - 4/9/2015 - 12:20
Nuova canzone di Mikis (parole e musica), presentata ieri presso edizioni Eumaros, Atene.
https://www.youtube.com/watch?v=apXBKafKvlw
https://www.youtube.com/watch?v=apXBKafKvlw
Andrea - 24/2/2016 - 16:24
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Στίχοι: Ανδρέας Κάλβος, Γένεβα και Παρίσι, 1824 - 1826
Μουσική: Μίκης Θεοδωράκης, άνοιξη του 1969, Ζάτουνα
Πρώτη εκτέλεση: Μαρία Φαραντούρη και Μίκης Θεοδωράκης, Λονδίνο 1971
Συμπεριλήφθηκε στο δίσκο «Τραγούδια του Αγώνα»
Versi di Andreas Kalvos, Genova e Parigi, 1824 - 1826
Composizione: Primavera del 1969, Zatuna
Incisione: Maria Farandouri e Mikis Theodorakis, Londra 1961
E’compresa nel disco: «Canzoni della lotta», 1971
Il poeta Andreas Kalvos (Andrea Calvo in italiano, 1792-1869). Si tratta probabimente di un'immagine spuria, dato che non se ne conosce alcun ritratto noto in vita.
Ο ποιητής Ανδρέας Κἀλβος (1792-1860). Πρόκειται πιθανόν για ψευδή εικόνα, εφόσον δεν υπάρχει γνωστό πορτραίτο του.
Se le stazioni di questo calvario lasciarono molti segni sul suo corpo e nel suo spirito, a sua volta il musicista di segni, e molti, ne lasciò nello stesso periodo nella politica e nella cultura del suo paese e del mondo. In ognuna di queste tappe, infatti, egli riuscì a comporre musica, su versi propri o di altri poeti contemporanei ( Seferis, Eleftheriou, Anagnostakis e altri) e anche - ed è il caso di Andreas Kalvos - di un poeta del passato: musica che prendeva le mosse e si intrideva della situazione politica e personale in atto, ma pur sempre capace di cogliere nodi universali, tanto è vero che ancora si può dire tutta ascoltabile: e, infatti, è tuttora ascoltata. Musica che, sfuggita alle perquisizioni dei carcerieri, raggiunse l’Europa e il resto del mondo, contribuendo all’isolamento dei Colonnelli golpisti.
Le ragioni della scelta di alcune delle Ὠιδαί di Andreas Kalvos («Odi» pubblicate nel 1824 e nel 1826), per il IV ciclo delle numerose “Arcadie” composte durante il confino di Zàtuna, è facilmente intuibile. Kalvos era stato un poeta civile, oltre che uno dei fondatori della lingua letteraria neogreca, (sia pur con scelte meno coerenti, tra “katharévoussa” e “dhimòtikì”, di quelle di Solomòs): e si era speso per incitare gli Elleni alla rivolta contro il dominio ottomano, sferzandone le meschinità e le viltà, e ammonendoli del prezzo altissimo della libertà, e del dovere imposto dalla stessa loro storia di riconquistarla. Fin troppo trasparente l’allusione ai Colonnelli, quando il testo di Kalvos parla dell’impossibilità che i Greci continuino a sopportare quei briganti (“ληστές”) dei Turchi.
Certo, musicare un testo così datato fu un’altra delle arditezze artistiche e politiche di Theodorakis, dopo quella di avere dato ritmi di danza popolare all’ “Epitafios” di Yannis Ritsos (1960) e di avere irreversibilmente radicato il difficile “To Axion Estì” di Elytis nell’anima del suo popolo (1964). A me non sembra – ma mi posso sbagliare - che altri musicisti greci, prima di lui, siano andati tanto indietro nella letteratura nazionale a cercare testi per le proprie canzoni. Altri l’avrebbero poi seguito su questa strada: e AWS già da qualche tempo ha nel suo repertorio i “Liberi Assediati” (1828-1844) di Dionisios Solomòs, su musica di Yannis Markopoulos (1977). Teniamo conto, in tema di arditezza, che musicare negli anni Sessanta del secolo scorso delle Odi di un contemporaneo (oltre che amico, per un certo periodo) del Foscolo, era come se qualche musicista di casa nostra avesse estratto canzoni popolari, non dico dai “Sepolcri”, ma dal Berchet o dal Manzoni: «Era sopito l’esule»...o «Soffermàti su l’arida sponda...» su un ritmo americano sono francamente inimmaginabili se non a fini di dissacrazione. (Ciò nonostante, mi è occorso di ascoltare un Edoardo Bennato che, in forma di ballata, canta una contaminazione tra il Berchet del “Giuramento di Pontida” e il Manzoni del “Marzo 1821” con voce dissimulante quella di Francesco Guccini: fatto, questo, chi mi fa pensare a un’ intenzione ironica del combattivo cantautore).
Il fatto è che, da noi, il melodramma, di fatto borghese ma di aspirazioni nazionali e popolari, aveva già compiuto quel che doveva fare, e che la nostra lingua, nell’ Ottocento, fu esclusivamente letteraria, essendo a noi praticamente mancata una koinè popolare italiana; mentre in Grecia il melodramma è apparso assai tardi, verso il 1916, con Manolis Kalomiris. E, sentendone il bisogno, e avvantaggiati dal fatto che la lingua dei fondatori non è poi così lontana da quella di oggi, i Greci sono riusciti a surrogarlo in tempi relativamente recenti mediante la musica popolare d’arte, che, tra l’altro, là, è ben collegata con il passato musicale, sia di divertimento, sia di lotta politica e sociale, sia di liturgia ecclesiastica. Ma un coraggioso che cominciasse, pur ci voleva: e credo –credo – che Theodorakis sia stato l’iniziatore (GPT).