Parlato:
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli né nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando a casa andando per via,
coricandovi alzandovi:
ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
(Primo Levi)
cantato (tempo di valzer):
La Milizia una notte
ci sorprese partigiani
senza soldi e senza armi
l'inesperienza tra le mani.
Un esercito di ariani
con la loro divisa scura
e un fucile tra le mani
non sapeva la paura.
Rinchiusi in un vagone
in un viaggio giù nel fondo
sposammo la paura
scordammo il ritorno.
Quanti anni?
Sano o malato?
La risposta ci salvava.
La risposta ci condannava.
Senza abiti e senza scarpe
ci hanno tolto i capelli
ci hanno tolto i nostri nomi
ci hanno dato calci e sputi.
Ho imparato ad obbedire
a non cercare di fuggire
per uscire c'è solo il vento
che ci accarezza con il suo pianto.
Ogni giorno ricominciare
uscire e lavorare
ammalarsi e guarire
o morire
Quanti anni?
Sano o malato?
La risposta ci salvava.
La risposta ci condannava.
E marciare con il freddo
al ritmo di fanfara
ossa stanche nella nebbia
infreddolite e barcollanti
Mattone su mattone
costruimmo la Buna
cementata con l'odio
il dolore e la paura.
Maledetto anche l'inverno
che ci decima di giorno in giorno
che ci toglie i nostri amici
la speranza del ritorno.
Quanti anni?
Sano o malato?
La risposta ci salvava.
La risposta ci condannava.
Il miracolo una mattina
il freddo che scompariva
un raggio di sole
dava gioia alla mia vita.
E lontano voci amiche
parlavano di salvezza
e vicino i cannoni
sparavano vendetta
I soldati che scappavano
ci uccidevano o ci ignoravano
con il silenzio di chi prega
iniziò la "tregua".
Parlato:
Sognavamo nelle notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo:
Tornare; mangiare; raccontare.
Finché suonava breve sommesso
Il comando dell’alba:
Wstawać;
E si spezzava in petto il cuore.
Ora abbiamo ritrovato la casa,
Il nostro ventre è sazio,
Abbiamo finito di raccontare.
È tempo. Presto udremo ancora
Il comando straniero:
Wstawać.
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli né nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando a casa andando per via,
coricandovi alzandovi:
ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
(Primo Levi)
cantato (tempo di valzer):
La Milizia una notte
ci sorprese partigiani
senza soldi e senza armi
l'inesperienza tra le mani.
Un esercito di ariani
con la loro divisa scura
e un fucile tra le mani
non sapeva la paura.
Rinchiusi in un vagone
in un viaggio giù nel fondo
sposammo la paura
scordammo il ritorno.
Quanti anni?
Sano o malato?
La risposta ci salvava.
La risposta ci condannava.
Senza abiti e senza scarpe
ci hanno tolto i capelli
ci hanno tolto i nostri nomi
ci hanno dato calci e sputi.
Ho imparato ad obbedire
a non cercare di fuggire
per uscire c'è solo il vento
che ci accarezza con il suo pianto.
Ogni giorno ricominciare
uscire e lavorare
ammalarsi e guarire
o morire
Quanti anni?
Sano o malato?
La risposta ci salvava.
La risposta ci condannava.
E marciare con il freddo
al ritmo di fanfara
ossa stanche nella nebbia
infreddolite e barcollanti
Mattone su mattone
costruimmo la Buna
cementata con l'odio
il dolore e la paura.
Maledetto anche l'inverno
che ci decima di giorno in giorno
che ci toglie i nostri amici
la speranza del ritorno.
Quanti anni?
Sano o malato?
La risposta ci salvava.
La risposta ci condannava.
Il miracolo una mattina
il freddo che scompariva
un raggio di sole
dava gioia alla mia vita.
E lontano voci amiche
parlavano di salvezza
e vicino i cannoni
sparavano vendetta
I soldati che scappavano
ci uccidevano o ci ignoravano
con il silenzio di chi prega
iniziò la "tregua".
Parlato:
Sognavamo nelle notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo:
Tornare; mangiare; raccontare.
Finché suonava breve sommesso
Il comando dell’alba:
Wstawać;
E si spezzava in petto il cuore.
Ora abbiamo ritrovato la casa,
Il nostro ventre è sazio,
Abbiamo finito di raccontare.
È tempo. Presto udremo ancora
Il comando straniero:
Wstawać.
envoyé par Fabio - 12/10/2005 - 20:04
Langue: allemand
Versione tedesca di Riccardo Venturi
Deutsche Fassung von Riccardo Venturi
21 febbraio / 21. Februar 2006
Deutsche Fassung von Riccardo Venturi
21 febbraio / 21. Februar 2006
OB DIES EIN MENSCH SEI
Gesprochen
Ihr, die ihr gesichert lebt
in behaglicher Wohnung
Ihr, die abends beim Heimkehren
warme Speise findet und vertraute Gesichter
denket ob dies ein Mensch sei
der schuftet im Schlamm,
der Frieden nicht kennt,
der kämpft um halben Brot
der stirbt auf ein Ja oder Nein.
Denket, ob dies eine Frau sei,
die kein Haar hat und keinen Namen
die zum Erinnern keine Kraft mehr hat,
leer die Augen und kalt ihr Schoß
wie im Winter die Kröte.
denket, daß solches gewesen ist:
es sollen sein diese Worte in eurem Herzen.
Ihr sollt über sie sinnen, wenn ihr sitzt
in einem Hause, wenn ihr geht auf euren Wegen
wenn ihr euch niederlegt und wenn ihr aufsteht
ihr sollt sie einschärfen euren Kindern.
Oder eure Wohnstatt soll verbrechen,
Krankheit soll euch niederringen,
eure Kinder sollen das Antlitz von euch wenden.
(Primo Levi)
Gesungen im Walzertakt
Die Miliz überrumpelte uns
eine Nacht als Partisanen
ohne Geld und ohne Waffen
in unsren Händen die Unerfahrenheit
Eine Streitmacht von Ariern
mit ihrer dunklen Uniform
und Gewehren in den Händen
könnte keine Furcht wissen.
Verschlossen in einem Wagen
bei Reise nach dem Tiefsten
nahmen wir die Furcht zur Frau,
für uns keine Heimkehr mehr.
Wie alt?
Gesund oder krank?
Eine Antwort könnte uns retten.
Eine Antwort könnte uns verdammen.
Ohne Kleider, ohne Schuhe
haben sie uns das Haar entzogen
haben sie uns des Namens beraubt
haben sie auf uns mit Fußtritten gespuckt.
Ich hab’ gelernt zu gehorchen,
und keine Flucht zu versuchen.
Wollen wir los, gibt’s nur den Wind
der uns mit seinem Leid streichelt.
Jeden Tag wieder auf,
heraus zur Arbeit hin
erkranken und genesen
oder sterben
Wie alt?
Gesund oder krank?
Eine Antwort könnte uns retten.
Eine Antwort könnte uns verdammen.
Im Frost marschieren wir
im Takt von der Fanfare
frierend und mit totmüden Knochen
taumelten wird im Nebel
Ziegel auf Ziegel
bauten wir die Buna
mit Haß und Furcht
und Leid als Zement
Verflucht sei auch der Winter
der uns von Tag zu Tag dezimiert
der uns unserer Freunde beraubt
und aller Hoffnung in der Rückkehr.
Wie alt?
Gesund oder krank?
Eine Antwort könnte uns retten.
Eine Antwort könnte uns verdammen.
Einen Morgen, das Wunder.
Die Kälte verschwand.
Ein Sonnenstrahl
gab meinem Leben Licht.
Und weitaus sprachen
freundliche Stimmen von Rettung,
und näher gaben Kanonen
die Rache ab
Die Soldaten in Flucht
erschossen uns oder liessen uns weg
mit der Stille der Betenden
fing die “Waffenruhe” an.
Gesprochen
In den gräßlichen Nächten
hatten wir dichte Gewaltträume
mit Seele und Körper geträumt:
Zurückkommen. Essen. Erzählen.
Bis ein kurzer, leiser Befehl
bei Tagesanbruch erklang:
Wstawać;
und uns brach das Herz in der Brust.
Nun sind wir heimgekehrt,
haben wir satt gegessen,
haben wir zu Ende erzählt.
Es ist die Zeit. Bald hören wir nochmals
den fremden Befehl:
Wstawać.
Gesprochen
Ihr, die ihr gesichert lebt
in behaglicher Wohnung
Ihr, die abends beim Heimkehren
warme Speise findet und vertraute Gesichter
denket ob dies ein Mensch sei
der schuftet im Schlamm,
der Frieden nicht kennt,
der kämpft um halben Brot
der stirbt auf ein Ja oder Nein.
Denket, ob dies eine Frau sei,
die kein Haar hat und keinen Namen
die zum Erinnern keine Kraft mehr hat,
leer die Augen und kalt ihr Schoß
wie im Winter die Kröte.
denket, daß solches gewesen ist:
es sollen sein diese Worte in eurem Herzen.
Ihr sollt über sie sinnen, wenn ihr sitzt
in einem Hause, wenn ihr geht auf euren Wegen
wenn ihr euch niederlegt und wenn ihr aufsteht
ihr sollt sie einschärfen euren Kindern.
Oder eure Wohnstatt soll verbrechen,
Krankheit soll euch niederringen,
eure Kinder sollen das Antlitz von euch wenden.
(Primo Levi)
Gesungen im Walzertakt
Die Miliz überrumpelte uns
eine Nacht als Partisanen
ohne Geld und ohne Waffen
in unsren Händen die Unerfahrenheit
Eine Streitmacht von Ariern
mit ihrer dunklen Uniform
und Gewehren in den Händen
könnte keine Furcht wissen.
Verschlossen in einem Wagen
bei Reise nach dem Tiefsten
nahmen wir die Furcht zur Frau,
für uns keine Heimkehr mehr.
Wie alt?
Gesund oder krank?
Eine Antwort könnte uns retten.
Eine Antwort könnte uns verdammen.
Ohne Kleider, ohne Schuhe
haben sie uns das Haar entzogen
haben sie uns des Namens beraubt
haben sie auf uns mit Fußtritten gespuckt.
Ich hab’ gelernt zu gehorchen,
und keine Flucht zu versuchen.
Wollen wir los, gibt’s nur den Wind
der uns mit seinem Leid streichelt.
Jeden Tag wieder auf,
heraus zur Arbeit hin
erkranken und genesen
oder sterben
Wie alt?
Gesund oder krank?
Eine Antwort könnte uns retten.
Eine Antwort könnte uns verdammen.
Im Frost marschieren wir
im Takt von der Fanfare
frierend und mit totmüden Knochen
taumelten wird im Nebel
Ziegel auf Ziegel
bauten wir die Buna
mit Haß und Furcht
und Leid als Zement
Verflucht sei auch der Winter
der uns von Tag zu Tag dezimiert
der uns unserer Freunde beraubt
und aller Hoffnung in der Rückkehr.
Wie alt?
Gesund oder krank?
Eine Antwort könnte uns retten.
Eine Antwort könnte uns verdammen.
Einen Morgen, das Wunder.
Die Kälte verschwand.
Ein Sonnenstrahl
gab meinem Leben Licht.
Und weitaus sprachen
freundliche Stimmen von Rettung,
und näher gaben Kanonen
die Rache ab
Die Soldaten in Flucht
erschossen uns oder liessen uns weg
mit der Stille der Betenden
fing die “Waffenruhe” an.
Gesprochen
In den gräßlichen Nächten
hatten wir dichte Gewaltträume
mit Seele und Körper geträumt:
Zurückkommen. Essen. Erzählen.
Bis ein kurzer, leiser Befehl
bei Tagesanbruch erklang:
Wstawać;
und uns brach das Herz in der Brust.
Nun sind wir heimgekehrt,
haben wir satt gegessen,
haben wir zu Ende erzählt.
Es ist die Zeit. Bald hören wir nochmals
den fremden Befehl:
Wstawać.
Langue: anglais
Versione inglese di Riccardo Venturi
English version by Riccardo Venturi
30 gennaio / January 30, 2007
English version by Riccardo Venturi
30 gennaio / January 30, 2007
IF IT IS A MAN
Recited:
You who live safe
In your warm houses,
You who find, returning in the evening,
Hot food and friendly faces:
Consider if this is a man
Who works in the mud
Who does not know peace
Who fights for a scrap of bread
Who dies because of a yes or a no.
Consider if this is a woman,
Without hair and without name
With no more strength to remember,
Her eyes empty and her womb cold
Like a frog in winter.
Meditate that this came about:
I commend these words to you.
Carve them in your hearts
At home, in the street,
Going to bed, rising;
Repeat them to your children,
Or may your house fall apart,
May illness impede you,
May your children turn their faces from you.
(Primo Levi)
sung (in waltz time):
The troops, one night,
caught us as partisans
without a penny, without weapons
with inexperience in our hands.
A whole army of Aryans
with their dark uniform
and a gun in their hands,
they could not be afraid.
Shut up in a wagon
for a trip to the bottom
we embraced fear,
we gave up hope to return.
How old are you?
Are you healthy or ill?
The answer could save us.
The answer could deem us.
Without dress, without shoes
they took our hair off
they took our names off
they kicked us, spat at us.
I learnt to obey
and not to try to flee.
Our only way out is the wind
caressing us with its tears.
Back again every day:
getting out, working
getting ill, getting over
or dying
How old are you?
Are you healthy or ill?
The answer could save us.
The answer could deem us.
Marching in the cold
to military rhythm
our bones so tired, so cold,
staggering in the mist
Brick over brick
we built Buna
cemented with hate,
with pain, with fear.
May winter, too, be cursed
decimating us every day
depriving us from our friends
and from any hope to come back.
How old are you?
Are you healthy or ill?
The answer could save us.
The answer could deem us.
And, one morning, the miracle:
the cold suddenly vanished
in a sunray bearing
happiness into my life.
In the distance, friendly voices
told us of salvation
while the guns nearby
were thundering revenge
The soldiers in their flight
killed us or ignored us.
In the silence of prayers
the "truce" had its beginning.
Recited:
In the cruel night did we dream
thick and violent dreams,
dreamt in body and soul:
coming back; eating; telling.
Until, in a low voice, a sharp
command resounded in the dawn:
Wstawać;
and the heart broke in the breast.
Now we have come back home,
we have eaten our fill,
we have told everything.
It is time. Soon we shall hear again
the foreign command:
Wstawać.
Recited:
You who live safe
In your warm houses,
You who find, returning in the evening,
Hot food and friendly faces:
Consider if this is a man
Who works in the mud
Who does not know peace
Who fights for a scrap of bread
Who dies because of a yes or a no.
Consider if this is a woman,
Without hair and without name
With no more strength to remember,
Her eyes empty and her womb cold
Like a frog in winter.
Meditate that this came about:
I commend these words to you.
Carve them in your hearts
At home, in the street,
Going to bed, rising;
Repeat them to your children,
Or may your house fall apart,
May illness impede you,
May your children turn their faces from you.
(Primo Levi)
sung (in waltz time):
The troops, one night,
caught us as partisans
without a penny, without weapons
with inexperience in our hands.
A whole army of Aryans
with their dark uniform
and a gun in their hands,
they could not be afraid.
Shut up in a wagon
for a trip to the bottom
we embraced fear,
we gave up hope to return.
How old are you?
Are you healthy or ill?
The answer could save us.
The answer could deem us.
Without dress, without shoes
they took our hair off
they took our names off
they kicked us, spat at us.
I learnt to obey
and not to try to flee.
Our only way out is the wind
caressing us with its tears.
Back again every day:
getting out, working
getting ill, getting over
or dying
How old are you?
Are you healthy or ill?
The answer could save us.
The answer could deem us.
Marching in the cold
to military rhythm
our bones so tired, so cold,
staggering in the mist
Brick over brick
we built Buna
cemented with hate,
with pain, with fear.
May winter, too, be cursed
decimating us every day
depriving us from our friends
and from any hope to come back.
How old are you?
Are you healthy or ill?
The answer could save us.
The answer could deem us.
And, one morning, the miracle:
the cold suddenly vanished
in a sunray bearing
happiness into my life.
In the distance, friendly voices
told us of salvation
while the guns nearby
were thundering revenge
The soldiers in their flight
killed us or ignored us.
In the silence of prayers
the "truce" had its beginning.
Recited:
In the cruel night did we dream
thick and violent dreams,
dreamt in body and soul:
coming back; eating; telling.
Until, in a low voice, a sharp
command resounded in the dawn:
Wstawać;
and the heart broke in the breast.
Now we have come back home,
we have eaten our fill,
we have told everything.
It is time. Soon we shall hear again
the foreign command:
Wstawać.
Langue: français
Versione francese di Riccardo Venturi
Version française de Riccardo Venturi
23 febbraio / 23 février 2006
Version française de Riccardo Venturi
23 febbraio / 23 février 2006
SI C'EST UN HOMME
Parlé
Vous qui vivez en toute quiétude
Bien au chaud dans vos maisons,
Vous qui trouvez le soir en rentrant
La table mise, des visages amis,
Considérez si c'est un homme
Que celui qui peine dans la boue,
Qui ne connaît pas de repos,
Qui se bat pour un quignon de pain,
Qui meurt pour un oui ou pour un non.
Considérez si c'est une femme
Que celle qui a perdu son nom et ses cheveux,
Et jusqu'à la force de se souvenir,
Les yeux vides et le sein froid
Comme une grenouille en hiver.
N'oubliez pas que cela fut,
Non, ne l'oubliez pas:
Gravez ces mots dans votre cœur.
Pensez-y chez vous, dans la rue,
En vous couchant, en vous levant;
Répétez-les à vos enfants.
Ou que votre maison s'écroule,
Que la maladie vous accable,
Que vos enfants se détournent de vous.
(Primo Levi)
Chanté (à temps de valse ):
Une nuit, la Milice
nous surprit en partisans
sans argent, sans armes,
l'inexpérience dans la main.
Une armée d'ariens
à l'uniforme sombre
et les fusils à la main
ne savait pas la peur.
Enfermés dans un wagon
pour un voyage au fond
nous épousâmes la peur,
nous oubliâmes le retour.
Quel âge as-tu?
Es-tu sain ou malade?
Une réponse, et nous étions sauvés.
Une réponse, et nous étions perdus.
Sans vêtements ni chaussures
ils nous ont ôté nos cheveux
ils nous ont ôté nos noms,
il nous ont battus, craché dessus.
J'ai appris à obéir
et à ne pas chercher la fuite.
Pour en sortir il n'y que le vent
qui nous caresse avec ses larmes.
Chaque jour, recommencer,
sortir, travailler dur
tomber malade et guérir
ou mourir
Quel âge as-tu?
Es-tu sain ou malade?
Une réponse, et nous étions sauvés.
Une réponse, et nous étions perdus.
Et marcher dans le froid
au temps de la fanfare,
les os fatigués dans le brouillard
en chancelant transis de froid
Brique après brique
nous bâtîmes la Buna
cimentée avec la haine,
la peur, la peine.
Maudit soit l'hiver, aussi,
qui nous fauche jour après jour,
qui nous enlève nos amis
et tout espoir dans le retour.
Quel âge as-tu?
Es-tu sain ou malade?
Une réponse, et nous étions sauvés.
Une réponse, et nous étions perdus.
Un matin, le miracle.
Le froid disparut.
Un rayon de soleil
donna lumière à ma vie.
Loin, des voix amies
disaient qu'on était saufs,
près de là, les canons
tiraient des coups de vengeance.
Les soldats en fuite
nous tuaient ou ignoraient.
Le silence des prières,
c'était le début de la "trève".
Parlé:
Nous faisions, dans les nuits atroces,
des rêves denses et violents,
nous rêvions en corps et âme:
revenir; manger; raconter.
Jusqu'au moment où résonnait
sec, étouffé, l'ordre de l'aube:
Wstawać;
Et le cœur se brisait dans la poitrine.
Maintenant, nous sommes chez nous,
nous avons mangé à notre faim,
nous avons tout raconté.
Il est temps. Nous entendrons bientôt
encore l'ordre étranger:
Wstawać.
Parlé
Vous qui vivez en toute quiétude
Bien au chaud dans vos maisons,
Vous qui trouvez le soir en rentrant
La table mise, des visages amis,
Considérez si c'est un homme
Que celui qui peine dans la boue,
Qui ne connaît pas de repos,
Qui se bat pour un quignon de pain,
Qui meurt pour un oui ou pour un non.
Considérez si c'est une femme
Que celle qui a perdu son nom et ses cheveux,
Et jusqu'à la force de se souvenir,
Les yeux vides et le sein froid
Comme une grenouille en hiver.
N'oubliez pas que cela fut,
Non, ne l'oubliez pas:
Gravez ces mots dans votre cœur.
Pensez-y chez vous, dans la rue,
En vous couchant, en vous levant;
Répétez-les à vos enfants.
Ou que votre maison s'écroule,
Que la maladie vous accable,
Que vos enfants se détournent de vous.
(Primo Levi)
Chanté (à temps de valse ):
Une nuit, la Milice
nous surprit en partisans
sans argent, sans armes,
l'inexpérience dans la main.
Une armée d'ariens
à l'uniforme sombre
et les fusils à la main
ne savait pas la peur.
Enfermés dans un wagon
pour un voyage au fond
nous épousâmes la peur,
nous oubliâmes le retour.
Quel âge as-tu?
Es-tu sain ou malade?
Une réponse, et nous étions sauvés.
Une réponse, et nous étions perdus.
Sans vêtements ni chaussures
ils nous ont ôté nos cheveux
ils nous ont ôté nos noms,
il nous ont battus, craché dessus.
J'ai appris à obéir
et à ne pas chercher la fuite.
Pour en sortir il n'y que le vent
qui nous caresse avec ses larmes.
Chaque jour, recommencer,
sortir, travailler dur
tomber malade et guérir
ou mourir
Quel âge as-tu?
Es-tu sain ou malade?
Une réponse, et nous étions sauvés.
Une réponse, et nous étions perdus.
Et marcher dans le froid
au temps de la fanfare,
les os fatigués dans le brouillard
en chancelant transis de froid
Brique après brique
nous bâtîmes la Buna
cimentée avec la haine,
la peur, la peine.
Maudit soit l'hiver, aussi,
qui nous fauche jour après jour,
qui nous enlève nos amis
et tout espoir dans le retour.
Quel âge as-tu?
Es-tu sain ou malade?
Une réponse, et nous étions sauvés.
Une réponse, et nous étions perdus.
Un matin, le miracle.
Le froid disparut.
Un rayon de soleil
donna lumière à ma vie.
Loin, des voix amies
disaient qu'on était saufs,
près de là, les canons
tiraient des coups de vengeance.
Les soldats en fuite
nous tuaient ou ignoraient.
Le silence des prières,
c'était le début de la "trève".
Parlé:
Nous faisions, dans les nuits atroces,
des rêves denses et violents,
nous rêvions en corps et âme:
revenir; manger; raconter.
Jusqu'au moment où résonnait
sec, étouffé, l'ordre de l'aube:
Wstawać;
Et le cœur se brisait dans la poitrine.
Maintenant, nous sommes chez nous,
nous avons mangé à notre faim,
nous avons tout raconté.
Il est temps. Nous entendrons bientôt
encore l'ordre étranger:
Wstawać.
Langue: espagnol
Versione spagnola di Sergio Menéndez Gayol
Versión española de Sergio Menéndez Gayol
24 febbraio 2006 / 24. febrero 2006
Versión española de Sergio Menéndez Gayol
24 febbraio 2006 / 24. febrero 2006
SI ESTO ES UN HOMBRE
Hablado:
Vosotros que vivís seguros
en vuestras abrigadas casas,
vosotros que encontráis al volver por la noche
la comida caliente y los rostros amigos:
considerad si esto es un hombre
que trabaja en el fango,
que no conoce la paz,
que lucha por medio pan,
que muere por un sí o un no.
Considerad si esto es una mujer,
sin cabellos ni nombre,
ya sin fuerzas para recordar
vacíos los ojos y frío el vientre
como una rana en invierno.
Meditad que esto así ha sido,
os entrego estas palabras,
esculpidlas en vuestro corazón,
estando en casa, andando por las calles,
acostándoos, levantándoos,
repetidlas a vuestros hijos.
Oh, que se derrumbe vuestra casa,
la enfermedad os inhabilite,
vuestros hijos os nieguen su mirada.
(Primo Levi)
Cantado (a tiempo de vals):
La Milicia una noche
nos sorprendió partisanos
sin dinero y sin armas
la inexperiencia entre las manos.
Un ejército de arios
con su uniforme oscuro
y un fusil entre las manos
no conocía el miedo.
Encerrados en un vagón
en un viaje hacia el abismo
esposamos el temor
olvidamos el retorno.
¿ Cuántos años ?
¿ Sano o enfermo ?
La respuesta nos salvaba.
La respuesta nos condenaba.
Sin ropas y sin zapatos
nos han quitado el cabello,
nos han quitado los nombres
nos han dado patadas y escupitajos.
He aprendido a obedecer
a no intentar escapar
para huir sólo está el viento
que nos acaricia con su llanto
Cada día recomenzar
salir y trabajar
enfermar y sanar
o morir.
¿ Cuántos años ?
¿ Sano o enfermo ?
La respuesta nos salvaba.
La respuesta nos condenaba.
Y marchar con el frío
a ritmo de banda
huesos cansados en la niebla
helados y vacilantes.
Ladrillo sobre ladrillo
construimos la Buna
cimentado con el odio
el dolor y nuestro miedo.
Maldito sea el invierno
que nos diezma día a día
que se lleva a los amigos,
la esperanza del regreso.
¿ Cuántos años ?
¿ Sano o enfermo ?
La respuesta nos salvaba.
La respuesta nos condenaba.
El milagro una mañana,
el frío desaparecía
un rayo de Sol
daba alegría a mi vida.
Y lejos voces amigas
hablaban de salvación
y cercanos los cañones
que disparaban venganza.
Los soldados que escapaban
nos mataban o ignoraban
con el silencio de quien reza
comenzó la "tregua"
Hablado:
Soñábamos en las noches feroces
sueños densos y violentos
soñados en cuerpo y alma:
retornar, comer, contar.
Hasta que sonaba breve sumisa
la orden de la mañana:
Wstawać.
Y se quebraba en el pecho el corazón.
Ahora hemos recuperado la casa,
nuestro vientre está saciado.
Hemos acabado de contarlo.
Es la hora.
Pronto oiremos de nuevo
la orden extranjera:
Wstawać.
Hablado:
Vosotros que vivís seguros
en vuestras abrigadas casas,
vosotros que encontráis al volver por la noche
la comida caliente y los rostros amigos:
considerad si esto es un hombre
que trabaja en el fango,
que no conoce la paz,
que lucha por medio pan,
que muere por un sí o un no.
Considerad si esto es una mujer,
sin cabellos ni nombre,
ya sin fuerzas para recordar
vacíos los ojos y frío el vientre
como una rana en invierno.
Meditad que esto así ha sido,
os entrego estas palabras,
esculpidlas en vuestro corazón,
estando en casa, andando por las calles,
acostándoos, levantándoos,
repetidlas a vuestros hijos.
Oh, que se derrumbe vuestra casa,
la enfermedad os inhabilite,
vuestros hijos os nieguen su mirada.
(Primo Levi)
Cantado (a tiempo de vals):
La Milicia una noche
nos sorprendió partisanos
sin dinero y sin armas
la inexperiencia entre las manos.
Un ejército de arios
con su uniforme oscuro
y un fusil entre las manos
no conocía el miedo.
Encerrados en un vagón
en un viaje hacia el abismo
esposamos el temor
olvidamos el retorno.
¿ Cuántos años ?
¿ Sano o enfermo ?
La respuesta nos salvaba.
La respuesta nos condenaba.
Sin ropas y sin zapatos
nos han quitado el cabello,
nos han quitado los nombres
nos han dado patadas y escupitajos.
He aprendido a obedecer
a no intentar escapar
para huir sólo está el viento
que nos acaricia con su llanto
Cada día recomenzar
salir y trabajar
enfermar y sanar
o morir.
¿ Cuántos años ?
¿ Sano o enfermo ?
La respuesta nos salvaba.
La respuesta nos condenaba.
Y marchar con el frío
a ritmo de banda
huesos cansados en la niebla
helados y vacilantes.
Ladrillo sobre ladrillo
construimos la Buna
cimentado con el odio
el dolor y nuestro miedo.
Maldito sea el invierno
que nos diezma día a día
que se lleva a los amigos,
la esperanza del regreso.
¿ Cuántos años ?
¿ Sano o enfermo ?
La respuesta nos salvaba.
La respuesta nos condenaba.
El milagro una mañana,
el frío desaparecía
un rayo de Sol
daba alegría a mi vida.
Y lejos voces amigas
hablaban de salvación
y cercanos los cañones
que disparaban venganza.
Los soldados que escapaban
nos mataban o ignoraban
con el silencio de quien reza
comenzó la "tregua"
Hablado:
Soñábamos en las noches feroces
sueños densos y violentos
soñados en cuerpo y alma:
retornar, comer, contar.
Hasta que sonaba breve sumisa
la orden de la mañana:
Wstawać.
Y se quebraba en el pecho el corazón.
Ahora hemos recuperado la casa,
nuestro vientre está saciado.
Hemos acabado de contarlo.
Es la hora.
Pronto oiremos de nuevo
la orden extranjera:
Wstawać.
envoyé par Riccardo Venturi - 24/2/2006 - 11:08
Langue: espéranto
Versione in esperanto di Nicola Ruggiero.
La poesia di Primo Levi è stata tradotta da Luigi Tadolini ed è apparsa nella rivista "L'Esperanto" nel marzo 2005.
Segue la mia traduzione non ritmica. NR
Segue la mia traduzione non ritmica. NR
ĈU ĈI TIU ESTAS VIRO
Parolita
Vi kiuj sekure vivas
en viaj tepidaj hejmoj,
vi kiuj, je l’ vespera reveno, trovas
la varman nutraĵon kaj amikajn vizaĝojn:
konsideru ĉu ĉi tiu estas viro
kiu laboras en la koto
kiu ne konas pacon
kiu batalas por duona panbulo
kiu mortas pro “jes” aŭ “ne”.
Konsideru ĉu ĉi tiu estas virino
sen hararo kaj sen propra nomo
eĉ sen plua memorkapablo.
Malplenaj la okuloj kaj malvarma la ventro
samkiel rano dumvintre.
Meditu pri la fakto, ke ĉi tio vere okazis:
ĉi tiujn vortojn al vi mi ordonas,
ilin gravuru en via koro
kiam vi restas hejme aŭ promenas survoje,
kiam vi kuŝiĝas aŭ ellitiĝas;
ilin ripetu al viaj gefiloj.
Aŭ via domo neniiĝu,
malsano vin malhelpu en la movoj
viaj naskitoj tordu for de vi sian vizaĝon.
(Primo Levi)
kantata (valsa tempo):
La Trupo dum nokto
nin trovis partizanoj
sen mono kaj sen armiloj
kaj sensperteco en la manoj.
Armeo el arjoj
kun ilia uniformo malhela
kaj fusilo en la manoj
ne konis la timon.
Enfermitaj en vagono
en vojaĝo en la fundon
ni aliĝis al la timo
kaj forgesis la revenon.
Kiom aĝa?
Ĉu sana aŭ malsana?
La respondo nin savis.
La respondo nin kondamnis.
Sen vestoj kaj sen ŝuoj
ili senigis nin je niaj haroj
ili senigis nin je niaj nomoj
ili donis al ni nur piedfrapojn kaj kraĉojn
Mi lernis obei,
ne strebi forfuĝi,
por eliri restas nur la vento
kiu nin karesas per sia ploro.
Ĉiun tagon rekomenci
eliri kaj laboradi
malsaniĝi kaj resaniĝi
aŭ morti
Kiom aĝa?
Ĉu sana aŭ malsana?
La respondo nin savis.
La respondo nin kondamnis.
Kaj marŝi kun la frosto
je la ritmo fanfara
ostoj lacaj en la nebulo
frostigitaj kaj ŝancelaj
Briko post briko
ni konstruis la Bunan
betonita per la malamo
la doloro kaj la timo.
Malbenita ankaŭ la vintro
kiu nin ekstermis tagon post tago,
kiu forpelis niajn amikojn
la esperon de la reveno.
Kiom aĝa?
Ĉu sana aŭ malsana?
La respondo nin savis.
La respondo nin kondamnis.
La miraklo iam matene
la frosto kiu malaperis
radio de suno
donis ĝojon al mia vivo.
Kaj malproksime voĉoj amikaj
parolis pri savo
kaj proksime la kanonoj
pafadis la venĝon
La soldatoj kiuj forkuris
nin mortigis aŭ nin ignoris
kun la silento de tiu kiu preĝas
komenciĝis la "militpaŭzo".
Parolita:
Ni sonĝis en la noktoj sovaĝaj
sonĝojn densajn kaj perfortajn
sonĝitaj kun animo kaj korpo:
reveni; manĝi; rakonti.
Ĝis kiam sonis mallonga mallaŭta
la ordono de la tagiĝo:
Wstawać.
Kaj disŝiriĝis en brusto la koro.
Nun ni retrovis la hejmon,
nia ventro satiĝis,
ni finis rakonti.
Estas tempo. Baldaŭ ni aŭdos ankoraŭ
la fremdan ordonon:
Wstawać.
Parolita
Vi kiuj sekure vivas
en viaj tepidaj hejmoj,
vi kiuj, je l’ vespera reveno, trovas
la varman nutraĵon kaj amikajn vizaĝojn:
konsideru ĉu ĉi tiu estas viro
kiu laboras en la koto
kiu ne konas pacon
kiu batalas por duona panbulo
kiu mortas pro “jes” aŭ “ne”.
Konsideru ĉu ĉi tiu estas virino
sen hararo kaj sen propra nomo
eĉ sen plua memorkapablo.
Malplenaj la okuloj kaj malvarma la ventro
samkiel rano dumvintre.
Meditu pri la fakto, ke ĉi tio vere okazis:
ĉi tiujn vortojn al vi mi ordonas,
ilin gravuru en via koro
kiam vi restas hejme aŭ promenas survoje,
kiam vi kuŝiĝas aŭ ellitiĝas;
ilin ripetu al viaj gefiloj.
Aŭ via domo neniiĝu,
malsano vin malhelpu en la movoj
viaj naskitoj tordu for de vi sian vizaĝon.
(Primo Levi)
kantata (valsa tempo):
La Trupo dum nokto
nin trovis partizanoj
sen mono kaj sen armiloj
kaj sensperteco en la manoj.
Armeo el arjoj
kun ilia uniformo malhela
kaj fusilo en la manoj
ne konis la timon.
Enfermitaj en vagono
en vojaĝo en la fundon
ni aliĝis al la timo
kaj forgesis la revenon.
Kiom aĝa?
Ĉu sana aŭ malsana?
La respondo nin savis.
La respondo nin kondamnis.
Sen vestoj kaj sen ŝuoj
ili senigis nin je niaj haroj
ili senigis nin je niaj nomoj
ili donis al ni nur piedfrapojn kaj kraĉojn
Mi lernis obei,
ne strebi forfuĝi,
por eliri restas nur la vento
kiu nin karesas per sia ploro.
Ĉiun tagon rekomenci
eliri kaj laboradi
malsaniĝi kaj resaniĝi
aŭ morti
Kiom aĝa?
Ĉu sana aŭ malsana?
La respondo nin savis.
La respondo nin kondamnis.
Kaj marŝi kun la frosto
je la ritmo fanfara
ostoj lacaj en la nebulo
frostigitaj kaj ŝancelaj
Briko post briko
ni konstruis la Bunan
betonita per la malamo
la doloro kaj la timo.
Malbenita ankaŭ la vintro
kiu nin ekstermis tagon post tago,
kiu forpelis niajn amikojn
la esperon de la reveno.
Kiom aĝa?
Ĉu sana aŭ malsana?
La respondo nin savis.
La respondo nin kondamnis.
La miraklo iam matene
la frosto kiu malaperis
radio de suno
donis ĝojon al mia vivo.
Kaj malproksime voĉoj amikaj
parolis pri savo
kaj proksime la kanonoj
pafadis la venĝon
La soldatoj kiuj forkuris
nin mortigis aŭ nin ignoris
kun la silento de tiu kiu preĝas
komenciĝis la "militpaŭzo".
Parolita:
Ni sonĝis en la noktoj sovaĝaj
sonĝojn densajn kaj perfortajn
sonĝitaj kun animo kaj korpo:
reveni; manĝi; rakonti.
Ĝis kiam sonis mallonga mallaŭta
la ordono de la tagiĝo:
Wstawać.
Kaj disŝiriĝis en brusto la koro.
Nun ni retrovis la hejmon,
nia ventro satiĝis,
ni finis rakonti.
Estas tempo. Baldaŭ ni aŭdos ankoraŭ
la fremdan ordonon:
Wstawać.
envoyé par Nicola Ruggiero - 3/2/2007 - 22:02
Langue: hébreu
La versione in lingua ebraica della prima parte del testo, da questa pagina. Una versione completa sarà preparata in seguito.
הזהו אדם?
אתם היושבים באין מחריד
במִשכנות מבטחים;
אתם המוצאים מאכל חם ופני ידיד
בשובכם הביתה עם דמדומים:
התבוננו וראו הזהו אדם
העובד בביצה הקרה;
הוא, שאינו יודע מנוחה ונלחם
למען פת-לחם זעירה.
שבעבור "כן" או "לא" לבן-מוות היה.
התבוננו וראו האם אִשה היא זאת.
בת בלי שֵם ובלא שיער;
שלא נותר בה עוד כוח לזכור,
שעיניה ריקות וצונן חיקה
כצפרדע ביום חורף וכפור.
הרהרו וזִכרו כי כל זאת אירע
והיו הדברים האלה:
אשר אנוכי מצווכם
לחקוק בלבבכם.
ושיננתם אותם לבניכם
בשבתכם בבית בלכתכם בדרך,
בשכבכם ובקומכם.
והיה כי תדוֹמוּ - יאבדו בתיכם
ויך בכם החולי מכף רגל עד קדקוד.
ויהפכו מכם פניהם יוצאי חלציכם, עוד.
אתם היושבים באין מחריד
במִשכנות מבטחים;
אתם המוצאים מאכל חם ופני ידיד
בשובכם הביתה עם דמדומים:
התבוננו וראו הזהו אדם
העובד בביצה הקרה;
הוא, שאינו יודע מנוחה ונלחם
למען פת-לחם זעירה.
שבעבור "כן" או "לא" לבן-מוות היה.
התבוננו וראו האם אִשה היא זאת.
בת בלי שֵם ובלא שיער;
שלא נותר בה עוד כוח לזכור,
שעיניה ריקות וצונן חיקה
כצפרדע ביום חורף וכפור.
הרהרו וזִכרו כי כל זאת אירע
והיו הדברים האלה:
אשר אנוכי מצווכם
לחקוק בלבבכם.
ושיננתם אותם לבניכם
בשבתכם בבית בלכתכם בדרך,
בשכבכם ובקומכם.
והיה כי תדוֹמוּ - יאבדו בתיכם
ויך בכם החולי מכף רגל עד קדקוד.
ויהפכו מכם פניהם יוצאי חלציכם, עוד.
envoyé par Riccardo Venturi - 26/12/2007 - 02:54
Il 27 gennaio scorso è stata la "Giornata della memoria". Giornata della memoria per la Shoah, per il Porrajmos, per tutte le circostanze che hanno portato agli stermini di masse di uomini per opera di altri uomini. Si parla spesso di "follia", e anche noi, in questo sito, abbiamo spesso fatto ricorso a questa parola; ma la follia non spiega tutto, non è e non deve essere un "mot passepartout". Crediamo, anzi, che questo termine, seppure in gran parte appropriato, non debba coprire quali siano state le vere cause degli stermini, dei Lager, delle aberrazioni razziali e razziste; tanto più adesso, in un'epoca come la nostra, dove esse sembrano riemergere. Magari mascherate, magari sotto nomi diversi da quelli di un tempo, ma pur sempre della stessa intima natura. La "follia" non deve far dimenticari altri termini, dalla precisa valenza; in primo luogo, "fascismo" e "nazismo". Perché è dal fascismo e dal nazismo, e da tutto il loro retroterra ideologico, culturale, politico e finanziario, che tutto ciò è nato. Dai deliri di superiorità che riecheggiano anche adesso nelle parole di esponenti politici eletti nei parlamenti "democratici". Dal disprezzo per il diverso, per lo "straniero", per l'altro. Contro tutto questo è necessario non abbassare mai la guardia.
Qualcuno potrebbe ragionevolmente stupirsi che proprio noi, in questo sito, non abbiamo celebrato la "Giornata della memoria". A chi eventualmente si ponesse questa domanda, rispondiamo che non ne abbiamo nessun bisogno. Tutto questo sito è costituito, in ogni sua pagina, in ogni sua parola, dalla memoria e dall'impegno costante perché essa non vada mai perduta. Tutti i giorni, per noi, sono "giornate della memoria".
Ciononostante, questo intervento vuole idealmente ricollegarsi in modo preciso alla giornata da poco trascorsa. Un intervento che avviene volutamente su una pagina che riteniamo significativa. Una pagina in cui il celebre scrittore, reduce e testimone diretto degli orrori dei Lager nazisti, si incontra con lo sconosciuto gruppo di ragazzi che mettono in musica le sue parole; ed è una cosa importantissima, dal valore incommensurabile. Non il famoso artista, ma dei giovani qualsiasi che, nel loro grandissimo piccolo, hanno sentito la necessità di ricordare, di affidare la loro opposizione a delle parole capaci di esprimerla, compiendo così il più elementare e il più importante degli atti di trasmissione e rinnovamento della memoria. A questi ragazzi è necessario dire: grazie.
Lo facciamo, in modo più consistente, riportando un brano dello stesso Primo Levi. Si tratta di una parte dell'appendice che egli scrisse nel novembre del 1976 per l'edizione scolastica di "Se questo è un uomo", rispondendo alle domande che più frequentemente gli venivano rivolte dai lettori studenti. Abbiamo scelto una domanda semplicissima, e per un motivo ben preciso.
Da parte dei fantasmi che riemergono, ovverossia dai nipoti e nipotini ideali degli sterminatori nazifascisti, che adesso rialzano la cresta magari cercando di rifarsi una verginità, magari proponendosi come "nuovi" (avrete notato quanto spesso è presente l'aggettivo "nuovo" nei nomi dei gruppi del genere: "Ordine Nuovo", "Forza Nuova" ecc.) quando invece sono sempre la stessa vecchia, vecchissima genìa di topi di fogna e di assassini, si assiste da tempo al cosiddetto "computo dei morti". Ci hanno sempre i "gulag" e le "foibe" in bocca, questi signorini; ci hanno sempre gli "orrori del comunismo" da cercare di contrapporre al loro passato in realtà mai passato. E come sbraitano, e come puntano il dito! Come tentano di zittire le voci che ancora si alzano per ammonire, per dire che la storia potrebbe ripetersi (e quante volte, del resto, si è già ripetuta in tutto il mondo)! Si dice che la storia sia "maestra di vita"; è uno stupido luogo comune. Se davvero la storia fosse maestra di vita, queste persone non dovrebbero più esistere. Invece esistono ancora. Invece sfilano ancora per le nostre città. Hanno solo, e non sempre, cambiato nome e colore di facciata. Hanno sostituito, e non sempre, gli ebrei con gli "islamici", con gli extracomunitari, con i diversi di qualsiasi tipo.
Con questo non intendiamo certamente sminuire l'orrore né dei gulag, né di qualsiasi altro tipo di Lager istituito dagli stati (e spesso da stati "fari di democrazia": cos'è Guantánamo?). Lungi da noi. Semplicemente desideriamo specificare certe cose, ed in maniera molto chiare, non fraintendibile. Lo facciamo, appunto, affidandoci alle parole di Primo Levi. Non c'è nient'altro da aggiungere, se non che riprendo le sue parole da un'edizione preparata per "Famiglia Cristiana". [RV]
"Perché lei parla soltanto dei Lager tedeschi, e non anche di quelli russi?"
"Come ho scritto nel rispondere alla prima domanda, alla parte del giudice preferisco quella del testimone: ho da portare una testimonianza, quella delle cose che ho subite e viste. I miei libri non sono libri di storia: nello scriverli mi sono rigorosamente limitato a riportare i fatti di cui avevo esperienza diretta, escludendo quelli che ho appreso più tardi da libri o giornali. Ad esempio, noterete che non ho citato le cifre del massacro di Auschwitz, e neppure ho descritto i dettagli delle camere a gas e dei crematori: infatti non conoscevo questi dati quando ero in Lager, e li ho appresi soltanto dopo, quando tutto il mondo li ha appresi.
Per questo stesso motivo non parlo generalmente dei lager russi: per mia fortuna non ci sono stato, e non potrei che ripetere le cose che ho letto, cioè quelle che sanno tutti coloro che a questo argomento si sono interessati. È chiaro che tuttavia con questo non voglio né posso sottrarmi al dovere, che ha ogni uomo, di farsi un giudizio e di formulare un'opinione. Accanto ad evidenti somiglianze, fra i Lager sovietici e i Lager nazisti mi pare di poter osservare sostanziali differenze.
La principale differenza consiste nella finalità. I Lager tedeschi costituiscono qualcosa di unico nella pur sanguinosa storia dell'umanità: all'antico scopo di eliminare o terrificare gli avversari politici, affiancavano uno scopo moderno e mostruoso, quello di cancellare dal mondo interi popoli e culture. A partire press'a poco dal 1941 essi diventano gigantesche macchine di morte: camere a gas e crematori erano stati deliberatamente progettati per distruggere vite e corpi umani sulla scala dei milioni; l'orrendo primato spetta ad Auschwitz, con 24.000 morti in un solo giorno, nell'agosto 1944. I campi sovietici non erano e non sono certo luoghi in cui il soggiorno sia gradevole, ma in essi, neppure negli anni più oscuri dello stalinismo, la morte dei prigionieri non veniva espressamente ricercata: era un incidente assai frequente, e tollerato con brutale indifferenza, ma sostanzialmente non voluto; insomma, un sottoprodotto dovuto alla fame, al freddo, alle infezioni, alla fatica. In questo lugubre confronto tra due modelli di inferno bisogna ancora aggiungere che nei Lager tedeschi, in generale, si entrava per non uscirne: non era previsto alcun termine altro che la morte. Per contro, nei campi sovietici un termine è sempre esistito: al tempo di Stalin i "colpevoli" venivano talvolta condannati a pene lunghissime (anche quindici o venti anni) con spaventosa leggerezza, ma una sia pur lieve speranza di libertà sussisteva.
Da questa sostanziale differenza scaturiscono le altre. I rapporti fra guardiani e prigionieri, in Unione Sovietica, sono meno disumani: appartengono tutti allo stesso popolo, parlano la stessa lingua, non sono "superuomini" e "sottouomini" come sotto il nazismo. I malati, magari male, vengono curati; davanti a un lavoro troppo duro è pensabile una protesta, individuale o collettiva; le punizioni corporali sono rare e non troppo crudeli; è possibile ricevere da casa lettere e pacchi con viveri; la personalità umana, insomma, non viene denegata e non va totalmente perduta. Per contro, almeno per quanto riguarda gli ebrei e gli zingari, nei Lager tedeschi la strage era pressoché totale: non si fermava neppure davanti ai bambini, che furono uccisi nelle camere a gas a centinaia di migliaia, cosa unica fra tutte le atrocità della storia umana. Come conseguenza generale, le quote di mortalità sono assai diverse per i due sistemi. In Unione Sovietica pare che nei periodi più duri la mortalità si aggirasse sul 30 per cento, riferito a tutti gli ingressi, e questo è certamente un dato intollerabilmente alto; ma nei Lager tedeschi la mortalità era del 98 per cento.
Mi pare molto grave la recente innovazione sovietica secondo cui alcuni intellettuali dissenzianti vengono sbrigativamente dichiarati pazzi, rinchiusi in istituti psichiatrici, e sottoposti a "cure" che non solo provocano crudeli sofferenze, ma distorcono e indeboliscono le funzioni mentali. Ciò dimostra che il dissenso viene temuto: non è più punito, ma si cerca di demolirlo con i farmaci (o con la paura dei farmaci). Forse questa tecninca non è molto diffusa (pare che questi ricoverati politici, nel 1975, non superassero il centinaio), ma è odiosa, perché comporta un uso abietto della scienza, ed una prostituzione imperdonabile da parte dei medici che si prestano così servilmente ad assecondare i voleri dell'autorità. Essa mette in luce un estremo disprezzo per il confronto democratico e le libertà civili.
Per contro, e per quanto riguarda appunto l'aspetto quantitativo, resta da notare che, in Unione Sovietica, il fenomeno Lager appare attualmente in declino. Sembra che intorno al 1950 i prigionieri politici fossero milioni; secondo i dati di Amnesty International (un'associazione apolitica che si prefigge di soccorrere tutti i prigionieri politici, in tutti i paesi e indipendentemente dalle loro opinioni) essi sarebbero oggi (1976) circa diecimila.
In conclusione, i campi sovietici rimangono pur sempre una manifestazione deplorevole di illegalità e di disumanità. Essi non hanno niente a che vedere col socialismo, ed anzi, sul socialismo sovietico spiccano come una brutta macchia; sono piuttosto da considerarsi una barbarica eredità dell'assolutismo zarista, di cui i governi sovietici non hanno saputo o voluto liberarsi. Ma chi legge le Memorie di una casa morta, scritte da Dostoevskij nel 1862, non stenta a riconoscere gli stessi lineamenti carcerati descritti da Sol'ženicyn cento anni dopo. Ma è possibile, anzi facile, rappresentarsi un socialismo senza Lager: in molte parti del mondo è stato realizzato. Un nazismo senza Lager invece non è pensabile.
Qualcuno potrebbe ragionevolmente stupirsi che proprio noi, in questo sito, non abbiamo celebrato la "Giornata della memoria". A chi eventualmente si ponesse questa domanda, rispondiamo che non ne abbiamo nessun bisogno. Tutto questo sito è costituito, in ogni sua pagina, in ogni sua parola, dalla memoria e dall'impegno costante perché essa non vada mai perduta. Tutti i giorni, per noi, sono "giornate della memoria".
Ciononostante, questo intervento vuole idealmente ricollegarsi in modo preciso alla giornata da poco trascorsa. Un intervento che avviene volutamente su una pagina che riteniamo significativa. Una pagina in cui il celebre scrittore, reduce e testimone diretto degli orrori dei Lager nazisti, si incontra con lo sconosciuto gruppo di ragazzi che mettono in musica le sue parole; ed è una cosa importantissima, dal valore incommensurabile. Non il famoso artista, ma dei giovani qualsiasi che, nel loro grandissimo piccolo, hanno sentito la necessità di ricordare, di affidare la loro opposizione a delle parole capaci di esprimerla, compiendo così il più elementare e il più importante degli atti di trasmissione e rinnovamento della memoria. A questi ragazzi è necessario dire: grazie.
Lo facciamo, in modo più consistente, riportando un brano dello stesso Primo Levi. Si tratta di una parte dell'appendice che egli scrisse nel novembre del 1976 per l'edizione scolastica di "Se questo è un uomo", rispondendo alle domande che più frequentemente gli venivano rivolte dai lettori studenti. Abbiamo scelto una domanda semplicissima, e per un motivo ben preciso.
Da parte dei fantasmi che riemergono, ovverossia dai nipoti e nipotini ideali degli sterminatori nazifascisti, che adesso rialzano la cresta magari cercando di rifarsi una verginità, magari proponendosi come "nuovi" (avrete notato quanto spesso è presente l'aggettivo "nuovo" nei nomi dei gruppi del genere: "Ordine Nuovo", "Forza Nuova" ecc.) quando invece sono sempre la stessa vecchia, vecchissima genìa di topi di fogna e di assassini, si assiste da tempo al cosiddetto "computo dei morti". Ci hanno sempre i "gulag" e le "foibe" in bocca, questi signorini; ci hanno sempre gli "orrori del comunismo" da cercare di contrapporre al loro passato in realtà mai passato. E come sbraitano, e come puntano il dito! Come tentano di zittire le voci che ancora si alzano per ammonire, per dire che la storia potrebbe ripetersi (e quante volte, del resto, si è già ripetuta in tutto il mondo)! Si dice che la storia sia "maestra di vita"; è uno stupido luogo comune. Se davvero la storia fosse maestra di vita, queste persone non dovrebbero più esistere. Invece esistono ancora. Invece sfilano ancora per le nostre città. Hanno solo, e non sempre, cambiato nome e colore di facciata. Hanno sostituito, e non sempre, gli ebrei con gli "islamici", con gli extracomunitari, con i diversi di qualsiasi tipo.
Con questo non intendiamo certamente sminuire l'orrore né dei gulag, né di qualsiasi altro tipo di Lager istituito dagli stati (e spesso da stati "fari di democrazia": cos'è Guantánamo?). Lungi da noi. Semplicemente desideriamo specificare certe cose, ed in maniera molto chiare, non fraintendibile. Lo facciamo, appunto, affidandoci alle parole di Primo Levi. Non c'è nient'altro da aggiungere, se non che riprendo le sue parole da un'edizione preparata per "Famiglia Cristiana". [RV]
"Come ho scritto nel rispondere alla prima domanda, alla parte del giudice preferisco quella del testimone: ho da portare una testimonianza, quella delle cose che ho subite e viste. I miei libri non sono libri di storia: nello scriverli mi sono rigorosamente limitato a riportare i fatti di cui avevo esperienza diretta, escludendo quelli che ho appreso più tardi da libri o giornali. Ad esempio, noterete che non ho citato le cifre del massacro di Auschwitz, e neppure ho descritto i dettagli delle camere a gas e dei crematori: infatti non conoscevo questi dati quando ero in Lager, e li ho appresi soltanto dopo, quando tutto il mondo li ha appresi.
Per questo stesso motivo non parlo generalmente dei lager russi: per mia fortuna non ci sono stato, e non potrei che ripetere le cose che ho letto, cioè quelle che sanno tutti coloro che a questo argomento si sono interessati. È chiaro che tuttavia con questo non voglio né posso sottrarmi al dovere, che ha ogni uomo, di farsi un giudizio e di formulare un'opinione. Accanto ad evidenti somiglianze, fra i Lager sovietici e i Lager nazisti mi pare di poter osservare sostanziali differenze.
La principale differenza consiste nella finalità. I Lager tedeschi costituiscono qualcosa di unico nella pur sanguinosa storia dell'umanità: all'antico scopo di eliminare o terrificare gli avversari politici, affiancavano uno scopo moderno e mostruoso, quello di cancellare dal mondo interi popoli e culture. A partire press'a poco dal 1941 essi diventano gigantesche macchine di morte: camere a gas e crematori erano stati deliberatamente progettati per distruggere vite e corpi umani sulla scala dei milioni; l'orrendo primato spetta ad Auschwitz, con 24.000 morti in un solo giorno, nell'agosto 1944. I campi sovietici non erano e non sono certo luoghi in cui il soggiorno sia gradevole, ma in essi, neppure negli anni più oscuri dello stalinismo, la morte dei prigionieri non veniva espressamente ricercata: era un incidente assai frequente, e tollerato con brutale indifferenza, ma sostanzialmente non voluto; insomma, un sottoprodotto dovuto alla fame, al freddo, alle infezioni, alla fatica. In questo lugubre confronto tra due modelli di inferno bisogna ancora aggiungere che nei Lager tedeschi, in generale, si entrava per non uscirne: non era previsto alcun termine altro che la morte. Per contro, nei campi sovietici un termine è sempre esistito: al tempo di Stalin i "colpevoli" venivano talvolta condannati a pene lunghissime (anche quindici o venti anni) con spaventosa leggerezza, ma una sia pur lieve speranza di libertà sussisteva.
Da questa sostanziale differenza scaturiscono le altre. I rapporti fra guardiani e prigionieri, in Unione Sovietica, sono meno disumani: appartengono tutti allo stesso popolo, parlano la stessa lingua, non sono "superuomini" e "sottouomini" come sotto il nazismo. I malati, magari male, vengono curati; davanti a un lavoro troppo duro è pensabile una protesta, individuale o collettiva; le punizioni corporali sono rare e non troppo crudeli; è possibile ricevere da casa lettere e pacchi con viveri; la personalità umana, insomma, non viene denegata e non va totalmente perduta. Per contro, almeno per quanto riguarda gli ebrei e gli zingari, nei Lager tedeschi la strage era pressoché totale: non si fermava neppure davanti ai bambini, che furono uccisi nelle camere a gas a centinaia di migliaia, cosa unica fra tutte le atrocità della storia umana. Come conseguenza generale, le quote di mortalità sono assai diverse per i due sistemi. In Unione Sovietica pare che nei periodi più duri la mortalità si aggirasse sul 30 per cento, riferito a tutti gli ingressi, e questo è certamente un dato intollerabilmente alto; ma nei Lager tedeschi la mortalità era del 98 per cento.
Mi pare molto grave la recente innovazione sovietica secondo cui alcuni intellettuali dissenzianti vengono sbrigativamente dichiarati pazzi, rinchiusi in istituti psichiatrici, e sottoposti a "cure" che non solo provocano crudeli sofferenze, ma distorcono e indeboliscono le funzioni mentali. Ciò dimostra che il dissenso viene temuto: non è più punito, ma si cerca di demolirlo con i farmaci (o con la paura dei farmaci). Forse questa tecninca non è molto diffusa (pare che questi ricoverati politici, nel 1975, non superassero il centinaio), ma è odiosa, perché comporta un uso abietto della scienza, ed una prostituzione imperdonabile da parte dei medici che si prestano così servilmente ad assecondare i voleri dell'autorità. Essa mette in luce un estremo disprezzo per il confronto democratico e le libertà civili.
Per contro, e per quanto riguarda appunto l'aspetto quantitativo, resta da notare che, in Unione Sovietica, il fenomeno Lager appare attualmente in declino. Sembra che intorno al 1950 i prigionieri politici fossero milioni; secondo i dati di Amnesty International (un'associazione apolitica che si prefigge di soccorrere tutti i prigionieri politici, in tutti i paesi e indipendentemente dalle loro opinioni) essi sarebbero oggi (1976) circa diecimila.
In conclusione, i campi sovietici rimangono pur sempre una manifestazione deplorevole di illegalità e di disumanità. Essi non hanno niente a che vedere col socialismo, ed anzi, sul socialismo sovietico spiccano come una brutta macchia; sono piuttosto da considerarsi una barbarica eredità dell'assolutismo zarista, di cui i governi sovietici non hanno saputo o voluto liberarsi. Ma chi legge le Memorie di una casa morta, scritte da Dostoevskij nel 1862, non stenta a riconoscere gli stessi lineamenti carcerati descritti da Sol'ženicyn cento anni dopo. Ma è possibile, anzi facile, rappresentarsi un socialismo senza Lager: in molte parti del mondo è stato realizzato. Un nazismo senza Lager invece non è pensabile.
Riccardo Venturi - 29/1/2007 - 01:46
"Forse quel che è avvenuto (l'Olocausto) non può essere compreso, poiché capire è quasi giustificare. Noi non possiamo comprenderlo, ma possiamo e dobbiamo comprendere da dove sia nato, ed essere vigili. Se comprendere è impossibile, sapere è necessario, poiché ciò che è accaduto può accadere ancora, le coscienze umane possono essere sedotte e di nuovo oscurate, ed anche le nostre coscienze."
Su youtube abbiamo creato un video con una sequenza di immagini scritti e poesie
Karadell Myspace
Karadell sito
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Fabio - 24/10/2009 - 11:37
Oggi è il Giorno della Memoria
Ricordiamo l’Olocausto di sei milioni di ebrei (o cinque milioni, o quattro milioni e mezzo, a seconda dei diversi criteri di computo, ma ha tutto sommato poca importanza viste le cifre) per mano dei nazisti.
Il mondo ha cominciato ufficialmente a ricordarsene soltanto nel 1978, quando l’allora presidente statunitense Jimmy Carter, istituendo la Commissione presidenziale sull’Olocausto, fece presente che forse era il caso di cominciare a ricordarsene.
In Israele – ovviamente – ci arrivarono molto prima, nel 1951, ed il 27 Nisan, giorno del calendario ebraico dedicato al Yom HaShoah, al Ricordo, non è solo per ricordare quanti furono assassinati in massa nei campi di sterminio ma anche coloro che resistettero, come i protagonisti della rivolta nel ghetto di Varsavia.
In Italia – noi arriviamo sempre dopo tutti – il Giorno della Memoria è stato istituito ufficialmente solo nel 2000…
Io qui vorrei ricordare che tanti altri morirono non meno atrocemente degli ebrei in quegli stessi campi:
- almeno 3 di quei 5,7 milioni di soldati russi catturati dai nazisti tra il 1941 e il 1945, un numero altrettanto impressionante, specie se si pensa che dei 235.000 militari anglo-americani internati “solo” 8.348 morirono nel corso della prigionia. Il trattamento riservato agli “sporchi bolscevichi” fu di speciale riguardo…
- oltre 1,1 milioni di “triangoli rossi”, i prigionieri per motivi politici internati tra il 1933 e il 1945, e costoro – come il piccolo grande Erich Mühsam – insieme a “devianti”, omosessuali, disabili e malati di mente, furono le cavie dell’agghiacciante laboratorio concentrazionario nazista per la “purificazione” della razza…
- tra i 200.000 ed il mezzo milione di zingari, il cui Olocausto, il Porrajmos rimane ancora oggi in gran parte misconosciuto…
- tra 70.000 e 250.000 “vite non degne di essere vissute”, disabili e malati di mente che, nell’ambito del cosiddetto programma “Aktion T4”, furono sterminati da efficientissime equipe costituite da volenterosi medici, infermieri, poliziotti e manovali della morte, personale preparato, capace e devoto alla causa tra il quale, non a caso, furono selezionati i futuri responsabili dei campi di sterminio… Solo qualche settimana fa, nel Tirolo austriaco, è stata scoperta una fossa comune con i resti di 220 di questi “indegni di vivere” …
- tra i 5.000 e i 15.000 “triangoli rosa”, gli omosessuali…
- 2.500 testimoni di Geova, perseguitati solo perché il loro integralismo religioso implicava l’obbedienza esclusiva a Dio e non ad altri, fosse anche lo Stato nazista, e massacrati nei campi perchè in nome del “Non Uccidere” rifiutavano di svolgere qualsiasi lavoro che sospettassero avere a che fare con l’economia di guerra…
- … per non parlare dei milioni (2-3) di polacchi non ebrei e di slavi (1-2) fatti crepare nel corso del tentativo di “Eindeutschung”, la germanizzazione dei territori occupati attuata attraverso le esecuzioni di massa, l’imprigionamento, la deportazione ed il lavoro forzato degli “stranieri” in Germania…
(I numeri citati – in gran parte oggetto ancora oggi di numerose diatribe tra gli esperti – sono estrapolati soprattutto dal bel saggio di Claudio Vercelli, ricercatore presso l’Istituto di studi storici Gaetano Salvemini di Torino ed esperto della storia dei sistemi concentrazionari nel 900, intitolato “Tanti Olocausti – La deportazione e l’internamento nei campi nazisti”, pubblicato nel 2005.)
Ricordiamo l’Olocausto di sei milioni di ebrei (o cinque milioni, o quattro milioni e mezzo, a seconda dei diversi criteri di computo, ma ha tutto sommato poca importanza viste le cifre) per mano dei nazisti.
Il mondo ha cominciato ufficialmente a ricordarsene soltanto nel 1978, quando l’allora presidente statunitense Jimmy Carter, istituendo la Commissione presidenziale sull’Olocausto, fece presente che forse era il caso di cominciare a ricordarsene.
In Israele – ovviamente – ci arrivarono molto prima, nel 1951, ed il 27 Nisan, giorno del calendario ebraico dedicato al Yom HaShoah, al Ricordo, non è solo per ricordare quanti furono assassinati in massa nei campi di sterminio ma anche coloro che resistettero, come i protagonisti della rivolta nel ghetto di Varsavia.
In Italia – noi arriviamo sempre dopo tutti – il Giorno della Memoria è stato istituito ufficialmente solo nel 2000…
Io qui vorrei ricordare che tanti altri morirono non meno atrocemente degli ebrei in quegli stessi campi:
- almeno 3 di quei 5,7 milioni di soldati russi catturati dai nazisti tra il 1941 e il 1945, un numero altrettanto impressionante, specie se si pensa che dei 235.000 militari anglo-americani internati “solo” 8.348 morirono nel corso della prigionia. Il trattamento riservato agli “sporchi bolscevichi” fu di speciale riguardo…
- oltre 1,1 milioni di “triangoli rossi”, i prigionieri per motivi politici internati tra il 1933 e il 1945, e costoro – come il piccolo grande Erich Mühsam – insieme a “devianti”, omosessuali, disabili e malati di mente, furono le cavie dell’agghiacciante laboratorio concentrazionario nazista per la “purificazione” della razza…
- tra i 200.000 ed il mezzo milione di zingari, il cui Olocausto, il Porrajmos rimane ancora oggi in gran parte misconosciuto…
- tra 70.000 e 250.000 “vite non degne di essere vissute”, disabili e malati di mente che, nell’ambito del cosiddetto programma “Aktion T4”, furono sterminati da efficientissime equipe costituite da volenterosi medici, infermieri, poliziotti e manovali della morte, personale preparato, capace e devoto alla causa tra il quale, non a caso, furono selezionati i futuri responsabili dei campi di sterminio… Solo qualche settimana fa, nel Tirolo austriaco, è stata scoperta una fossa comune con i resti di 220 di questi “indegni di vivere” …
- tra i 5.000 e i 15.000 “triangoli rosa”, gli omosessuali…
- 2.500 testimoni di Geova, perseguitati solo perché il loro integralismo religioso implicava l’obbedienza esclusiva a Dio e non ad altri, fosse anche lo Stato nazista, e massacrati nei campi perchè in nome del “Non Uccidere” rifiutavano di svolgere qualsiasi lavoro che sospettassero avere a che fare con l’economia di guerra…
- … per non parlare dei milioni (2-3) di polacchi non ebrei e di slavi (1-2) fatti crepare nel corso del tentativo di “Eindeutschung”, la germanizzazione dei territori occupati attuata attraverso le esecuzioni di massa, l’imprigionamento, la deportazione ed il lavoro forzato degli “stranieri” in Germania…
(I numeri citati – in gran parte oggetto ancora oggi di numerose diatribe tra gli esperti – sono estrapolati soprattutto dal bel saggio di Claudio Vercelli, ricercatore presso l’Istituto di studi storici Gaetano Salvemini di Torino ed esperto della storia dei sistemi concentrazionari nel 900, intitolato “Tanti Olocausti – La deportazione e l’internamento nei campi nazisti”, pubblicato nel 2005.)
Bartleby - 27/1/2011 - 11:08
La farfalla
poesia di Tonino Guerra dalla raccolta "Il polverone"
Contento, proprio contento
sono stato molte volte nella vita
ma più di tutte quando
mi hanno liberato in Germania
che mi sono messo a guardare una farfalla
senza la voglia di mangiarla.
poesia di Tonino Guerra dalla raccolta "Il polverone"
Contento, proprio contento
sono stato molte volte nella vita
ma più di tutte quando
mi hanno liberato in Germania
che mi sono messo a guardare una farfalla
senza la voglia di mangiarla.
daniela -k.d.- - 2/4/2013 - 22:21
I Karadell nel finale usano un commando in polacco: "Wstawać!" (anche se lo pronunciano male), che vuol dire: "Alzarsi!" o "Alzatevi!" o "Sveglia!". Vorrei precisare che, come spiega lo stesso Levi nel filmato qui sotto, gli aguzzini al campo di sterminio erano spesso polacchi – EBREI E CRISTIANI – e lui non riusciva a capirli, perché a parte il loro linguaggio rozzo e pieno di bestemie, parlavano yiddish o polacco.
Krzysiek Wrona - 6/5/2017 - 21:41
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Il brano è stato ispirato dal famoso libro di Primo Levi. In particolare, si tratta della poesia, scritta dallo stesso Levi, un cui frammento funge da exergo all'opera in prosa stessa. Si veda il commento.
Primo Levi (Torino, 31 luglio 1919 - 11 aprile 1987), è stato uno scrittore italiano autore di memorie, racconti, poesie e romanzi.
Nel 1934 si iscrive al liceo classico Massimo d'Azeglio di Torino, noto per aver ospitato docenti illustri e oppositori del fascismo come Augusto Monti, Franco Antonicelli, Umberto Cosmo, Zino Zini, Norberto Bobbio, Fernanda Pivano e molti altri. Per qualche mese ha Cesare Pavese come insegnante di italiano.
Nel 1937 si diploma e si iscrive ad un corso di laurea in Chimica presso l'Università di Torino. Nel 1938 entrano in vigore le leggi razziali, che introducono gravi discriminazioni a danno della popolazione «di razza ebraica». Gli ebrei perdono il diritto di iscriversi all'università, ma con un'eccezione: a chi è già iscritto ed ha già completato il primo anno di corso viene concesso di proseguire gli studi. All'epoca Primo Levi è uno studente del secondo anno.
Le leggi razziali hanno un determinante influsso indiretto sul suo percorso universitario ed intellettuale. Levi si rende progressivamente conto di amare la Fisica più della Chimica, fino ad arrivare a prendere in considerazione un cambio di facoltà. Tuttavia, in quanto ebreo, non gli è permessa la possibilità di farlo: l'unica opzione che le leggi razziali gli concedono è di terminare il corso di laurea già iniziato. Levi è in regola con gli esami, ma ha difficoltà a trovare un relatore per la sua tesi; si laurea comunque nel 1941 a pieni voti e con lode, con una tesi in fisica. Il diploma di laurea riporta la precisazione «di razza ebraica».
Le leggi razziali del regime fascista lo costringono di fatto, in quanto ebreo, a lavori saltuari. La sua breve esperienza in un nucleo partigiano locale si conclude con l'arresto da parte della milizia fascista a Brusson, nel 1943, e la detenzione al campo di raccolta di Fossoli. Nel febbraio del 1944 viene consegnato dai fascisti italiani ai nazisti e deportato ad Auschwitz (per l'esattezza nel campo Auschwitz III - Monowitz), come "Häftling" (letteralmente prigioniero) numero 174517.
Dopo un primo periodo di lavori forzati generici, lavora nei laboratori chimici della "Buna", fabbrica dedicata alla produzione di gomma sintetica. Ammalandosi di scarlattina, scampa fortunosamente alla marcia di evacuazione di Auschwitz poco prima della liberazione del campo da parte dell'Armata Rossa. Viene liberato il 27 gennaio del 1945, anche se il suo rimpatrio avverrà solo nell'ottobre successivo.
Rientrato a Torino, trova lavoro presso una ditta di produzione di vernici di cui in seguito assumerà la direzione fino al pensionamento, dedicando via via sempre più tempo alla scrittura.
Dalla sua esperienza nel lager nazista nascono "Se questo è un uomo", il racconto della sua prigionia, tradotto in numerose lingue - tedesco incluso - seguito, decenni più tardi, da "I sommersi e i salvati", testo in cui Levi cerca di analizzare con distacco la sua esperienza, confrontando l'universo concentrazionario nazista con universi simili (quello sovietico in primis, dai racconti di Aleksandr Solženicyn) cercando radici comuni e differenze.
Dai ricordi del suo viaggio di ritorno in Italia nasce "La tregua", diario di un viaggio dagli accenti picareschi attraverso la devastata Europa post-bellica. Tornato finalmente a casa, a Torino, continua a sentire il dovere bruciante di raccontare, di descrivere l'indescrivibile, di far confrontare l'uomo con quello che l'uomo è capace di fare.
Benché sia il racconto della sua esperienza nel lager a dargli la fama, Levi ha cercato successivamente di svincolarsi da questa eredità, ampliando i confini del suo scrivere. Ha scritto molti racconti in cui l'osservazione della natura e l'impatto della scienza e della tecnica sulla quotidianità diventano lo spunto per situazioni fantascientifiche.
Suo è anche il personaggio di Faussone, l'operaio specializzato trasfertista di "La chiave a stella", che rappresenta quel gran numero di tecnici italiani che hanno lavorato in giro per il mondo a seguito dei grandi progetti di ingegneria civile portati avanti dall'industria italiana dell'epoca (anni Sessanta e Settanta).
Affronta anche la storia degli ebrei del centroeuropa nel romanzo "Se non ora, quando?".
Un esempio abbastanza rappresentativo dei temi della sua opera è la raccolta di racconti "Il sistema periodico", in cui episodi biografici e racconti di fantasia vengono associati ciascuno ad un elemento chimico.
L'11 aprile del 1987 Primo Levi muore, forse suicida, gettandosi o cadendo dalla tromba delle scale della sua casa di Torino. Dirà di lui Claudio Toscani: «L'ultimo appello di Primo Levi non dice non dimenticatemi, bensì non dimenticate»..
Al ritorno in Italia, Levi scrisse "Se questo è un uomo di getto", con l'incubo di non essere creduto. Infatti nel clima di ricostruzione del dopoguerra non c'era la volontà di riaffacciarsi sull'orrore appena terminato e nel 1947 l'editore Einaudi rifiutò il manoscritto. Levi riuscì a trovare un editore, De Silva, che ne stampò appena duemilacinquecento copie, di cui soltanto millecinquecento vendute, soprattutto a Torino, nonostante la buona recensione di Italo Calvino su L'Unità.
Levi, convinto del suo fallimento come scrittore, si dedicò con impegno alla sola professione di chimico per quasi dieci anni, lavorando per per una ditta di Settimo Torinese che produceva vernici. Nel 1956, a una mostra, trovò finalmente in un gruppo di ragazzi gli ascoltatori attenti che gli erano mancati e riprese coraggio. Questa volta Einaudi decise di pubblicare il libro, che da allora fu ristampato e tradotto in molte lingue del mondo (compreso il tedesco). Riprese a scrivere e la Einaudi pubblicò tutti i suoi lavori, che incominciarono ad ottenere riconoscimenti in Italia e all'estero: La tregua vinse la prima edizione del Premio Campiello, nel 1963. Nel 1979 il romanzo La chiave a stella vinse il Premio Strega, mentre nel 1982 Se non ora, quando il Premio Viareggio.
Nel 1997, a dieci anni dalla scomparsa, il regista Francesco Rosi ha tratto dal romanzo "La tregua" un film interpretato dall'americano John Turturro.
Alla festa del Cinema di Roma dell'ottobre 2006 è stato presentato il documentario "La strada di Levi". Il film di Davide Ferrario e Marco Belpoliti ripercorre ai nostri giorni l'avventuroso itinerario compiuto da Levi durante il ritorno dal Lager. Filo conduttore del documentario sono le citazioni tratte da "La tregua".
Vi invitiamo a visitare il sito dei Karadell, sul quale sono presenti tra l'altro le traduzioni contenute in questa pagina, con un link diretto. Forse con colpevole ritardo, vorremmo ringraziare i Karadell e l'amico Fabio con un abbraccio, e con una foto che ritrae il gruppo in concerto.