I miei fratelli morivano
e io suonavo il pianoforte
col mio lamento e le mie note
compravo il mio ritorno
Il mondo nuovo del ritorno
ha la stessa luna attorno
il mondo nuovo del lamento
stelle senza senso
Sono Euridice e i miei occhi
in fuga come cani con gli spari
ormai non sanno più guardare
lasciatemi lasciatemi andare
Apro gli occhi e ancora il mondo,
il mondo nuovo del ritorno.
C’è chi mi dice è un ospedale
ma tutto, tutto è sempre uguale…
Poi sette volte l'iniezione
la scossa che mi spezza il cuore
per sette volte la mia fine
per sette volte ritornare
Sono Euridice e le mie mani
pendono inerti ai miei fianchi.
Niente lamenti questa notte,
sono una statua, una statua di sale
e io suonavo il pianoforte
col mio lamento e le mie note
compravo il mio ritorno
Il mondo nuovo del ritorno
ha la stessa luna attorno
il mondo nuovo del lamento
stelle senza senso
Sono Euridice e i miei occhi
in fuga come cani con gli spari
ormai non sanno più guardare
lasciatemi lasciatemi andare
Apro gli occhi e ancora il mondo,
il mondo nuovo del ritorno.
C’è chi mi dice è un ospedale
ma tutto, tutto è sempre uguale…
Poi sette volte l'iniezione
la scossa che mi spezza il cuore
per sette volte la mia fine
per sette volte ritornare
Sono Euridice e le mie mani
pendono inerti ai miei fianchi.
Niente lamenti questa notte,
sono una statua, una statua di sale
inviata da Dq82 - 6/10/2018 - 16:13
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Temuto come grido atteso come canto
Dopo Non al denaro non all’amore né al cielo, che la genialità di Fabrizio De André portò all’attenzione del pubblico italiano, questo lavoro si può definire, a buon titolo, l’autentica ‘Spoon River’ italiana. Si parla di morti, questo è chiaro, ma i personaggi coinvolti non sono “morti e basta”. Loro sono morti due volte: la prima volta perché malati ed internati in un manicomio; la seconda volta perché ‘gli ospiti’, i reclusi, di origine ebraica, furono deportati ed uccisi. Tutti i personaggi raccontati nell’album hanno vissuto, o meglio, abitato, nell’isoletta di San Servolo, pittoresca oasi di terra della laguna veneta. Abitavano in una struttura molto antica, adibita a monastero per circa mille anni, ma che nel 1715 venne adibita ad ospedale militare e dopo neanche dieci anni venne trasformata in ‘manicomio’. E con questa destinazione è rimasta, nonostante vari passaggi, fino al 1978 quando fu chiuso definitivamente. In questi 253 anni, in quelle mura, è l’umanità intera che vi è passata e che lì, si è frantumata. Vi abitavano perché qualcuno ve li aveva portati, con la forza, perché ritenuti “matti”, inadatti alla vita sociale, inadatti alla vita, inadatti e basta.
Michele Gazich ha vissuto sull’isola per circa un mese ed ha deciso di leggere quel luogo con gli occhi di oggi ma cercando di andare indietro nel tempo, raccogliendo le storie presenti nelle schede personali delle migliaia di persone che in quel luogo di tormento vennero recluse; cercando di leggere, in quelle carte, l’umanità dolente e sofferente che in quel luogo è transitata, ha vissuto, ha vegetato, ci ha perso la vita. Un’umanità problematica e, magari, non necessariamente malata ma solamente vittima di depressioni, di esaurimenti nervosi, di difficoltà relazionali. Malati o forse solamente ‘disturbati’, oppure semplicemente necessitanti di un piccolo aiuto che, magari, pur richiesto non gli è mai arrivato. Un aiuto che forse li avrebbe aiutati a liberarsi dalle angosce del quotidiano, o almeno a sopportarle, vivendo un’esistenza ‘normale’ (qui sotto una foto d'archivio di qualche anno fa di San Servolo).
Tante le storie raccolte, fatte di dolore e di paure, di angosce e di spaventi, di silenzi e di urla notturne, di fantasmi interiori e di speranze interrotte. Con uno sguardo Gazich, come i reclusi, poteva osservare il mare e l’anelito di libertà racchiuso nell’orizzonte tra il cielo e l’acqua. Con un altro poteva scrutare le mura scrostate e piene di quelle “ombre” che in quel luogo persero la sanità mentale, l’intelletto, l’emozione, la dignità, la vita interiore per essere, in seguito, prelevate e condotte al macello, come capri espiatori di peccati mai commessi.
Per scrivere un album come questo, non poteva essere sufficiente la lettura di uno o più libri, l’osservazione di fotografie, la memoria composta grazie a qualche lontano e consumato articolo di giornale. No, la realtà andava affrontata, guardata negli occhi, con la paura di non poterle resistere. Le foto dei pazienti lì reclusi dovevano essere osservate e penetrate con attenzione, squadrate, interiorizzate. Quegli sguardi assenti, oppure furibondi, dovevano essere portati all’interno del sé più interiore per comprendere, fino in fondo e semmai fosse possibile, come quelle vita sono state spente, lentamente, e con inquietante metodo. Insieme alla visione delle fotografie, Gazich ha letto anche miriadi di cartelle cliniche, tra cui quelle relative alle persone raccontate nelle canzoni, i cui testi sono riportati nel bel libretto che accompagna quest’opera (un plauso al bel lavoro curato da Alice Falchetti).
È evidente che Temuto come grido, atteso come canto non è un album dalle tinte morbide, dai colori pastello, dai toni colmi di tenera poesia, che comunque è presente ma non è mai tenera, anzi… No, in queste canzoni (?) c’è la presenza dell’umanità straziata e crocifissa, c’è la presenza di chi è ”disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima” (Isaia 53,3), c’è la presenza di chi, ancora oggi, prosegue nel reclamare la sua dignità di persona ma non ne possiede più i diritti; c’è l’immagine dell’uomo che viene trasfigurato nello strazio di una vita senza più speranza, senza luce, priva di orizzonti, destinata all’oblio dell’oscurità. C’è l’uomo nella sua immensità negata. C’è l’uomo deturpato ed offeso, senza più neppure la parvenza di una salvezza, seppure lontana, imminente, possibile…
Questo lavoro, lo si sarà compreso, non è certamente di semplice fattura ma intrinsecamente composto da sofferenze e disperazioni, dal male che ha pervaso ogni spazio della vita e che, dopo la sofferente reclusione, ha fatto subire a quegli uomini ed a quelle donne, colpevoli di essere figli di Abramo, la deportazione verso le camere a gas. Un evento che ha piantato, in quei poveri corpi, in quelle devastate menti, un altro chiodo, un'altra lama tagliente penetrata ad offendere il cuore. E, pare una bestemmia dirlo, forse in quel viaggio, in quell’ultimo viaggio, qualcuno di loro avrà anche pensato, forse per un istante, che l’approdo di quel treno, era la libertà. Ma così non fu.
L’album è strutturato in tre parti: un prologo, un gruppo di canzoni dedicato ad alcune persone recluse (i cui nomi sono di fantasia, ma sempre ispirati dalla storia personale di ogni paziente) e un saluto, per un totale di undici brani a comporre un mosaico di prodigiosa suggestione. Ma se ogni persona ha un senso ed un valore, ancor di più lo possiede chi ha vissuto in situazioni difficili, di tormento, di disintegrazione della propria umanità. Tutto comincia da quell’isola, San Servolo, dove il grido dei reclusi nel manicomio si perdeva verso le mura o, talvolta, verso il mare, senza che nessuno potesse ascoltarlo.
isolachenoncera
Entriamo adesso nella decima e penultima traccia. Era una musicista Euridice, nata a Steinheim nell’Ottobre del 1889, cartella n° 1947/126 (nella foto d'archivio un'immagine delle migliaia di faldoni conservati). Suonava il pianoforte e visse quel manicomio come un ritorno all’inferno. Reduce da un campo di sterminio, dove persero la vita tre suoi fratelli, entrò nel manicomio di San Servolo nel Maggio del 1947 dove rimase per neppure due mesi, dimessa dopo essere stata annichilita dagli elettroshock. Ma lei, in effetti, non vide in quella struttura un Ospedale bensì il riperpetuarsi dell’orrore dei campi di sterminio e, probabilmente, annullò il suo spirito per non pensare, per non ricordare… “I miei fratelli morivano e io suonavo il pianoforte. Con il mio lamento e le mie note compravo il mio ritorno…”. Salvata dallo sterminio, probabilmente grazie all’arte musicale che veniva “rubata” ai prigionieri per il piacere degli aguzzini, riprese a morire a San Servolo. “Apro gli occhi e ancora il mondo, il mondo nuovo del ritorno. C’è chi mi dice è un ospedale ma tutto, tutto è sempre uguale…”. Nulla sembra cambiare: sbarre alle finestre, sofferenza, angoscia, grida, reclusione, “Sono Euridice e le mie mani pendono inerti ai miei fianchi. Niente lamenti questa notte, sono una statua, una statua di sale”. Tutto è finito, tutto è perduto. Il suono della viola pare provenga da una sorta di deserto emozionale, perso nel silenzio della speranza che non si vede all’orizzonte. Il pianoforte, il suono soffuso della batteria, il basso che rimbomba come il respiro dell’infinito, allineano note che levigano le parole. Il pianoforte ed il violino si abbracciano creando un’atmosfera di straordinario pathos.