Odore di morte, odore di merda, disinfettante
Odore di morte, odore di merda, disinfettante
Solo un istante tu che mi guardi cerco il tuo sguardo
Solo un istante tu che mi guardi cerco il tuo sguardo
Solo un istante tu che mi guardi cerco il tuo sguardo
Con i miei occhi dentro i tuoi occhi che guardano il mio corpo
Con i miei occhi dentro i tuoi occhi che guardano il mio corpo
Con i miei occhi dentro i tuoi occhi che guardano il mio corpo
Con i miei occhi dentro i tuoi occhi che guardano il mio corpo
Con i miei occhi dentro i tuoi occhi che guardano il mio corpo
Con i miei occhi dentro i tuoi occhi che guardano il mio corpo
Il mio corpo che ha perso la sua bellezza cerca le tue mani
Il mio corpo che ha perso la sua bellezza cerca le tue mani
Il mio corpo che ha perso la sua bellezza cerca le tue mani
Il mio corpo ha perso la sua bellezza e cerca le tue mani
Mani che lavano il mio corpo che ha perso la sua bellezza
Mani che lavano il mio corpo che ha perso la sua bellezza
Mani che lavano il mio corpo che ha perso la sua bellezza
Ci benedicono con l'acqua come i preti
come fanno i preti
Non voglio la tua acqua, non voglio il tuo Dio.
Voglio il tuo sguardo, i tuoi occhi le tue mani
Io che non ho più viso, non ho più mani
io che non ho più viso, non ho più occhi
tagliatemi i capelli
chiudete i cancelli
tagliatemi i capelli
chiudete i cancelli
tagliatemi i capelli
chiudete i cancelli
tagliatemi i capelli
chiudete i cancelli
L'isola è immobile mentre il mare danza
L'isola è immobile mentre il mare danza
L'isola è immobile mentre il mare danza
L'isola è immobile mentre il mare danza
L'isola è immobile
L'isola è immobile
L'isola è immobile mentre il mare danza
L'isola è immobile mentre il mare danza
L'isola è immobile
L'isola è immobile immobile immobile
L'isola è immobile
L'isola è immobile immobile immobile
L'isola è immobile mentre il mare danza
L'isola è immobile mentre il mare danza
L'isola è immobile mentre il mare danza
L'isola è immobile mentre il mare danza
Odore di morte, odore di merda, disinfettante
Solo un istante tu che mi guardi cerco il tuo sguardo
Solo un istante tu che mi guardi cerco il tuo sguardo
Solo un istante tu che mi guardi cerco il tuo sguardo
Con i miei occhi dentro i tuoi occhi che guardano il mio corpo
Con i miei occhi dentro i tuoi occhi che guardano il mio corpo
Con i miei occhi dentro i tuoi occhi che guardano il mio corpo
Con i miei occhi dentro i tuoi occhi che guardano il mio corpo
Con i miei occhi dentro i tuoi occhi che guardano il mio corpo
Con i miei occhi dentro i tuoi occhi che guardano il mio corpo
Il mio corpo che ha perso la sua bellezza cerca le tue mani
Il mio corpo che ha perso la sua bellezza cerca le tue mani
Il mio corpo che ha perso la sua bellezza cerca le tue mani
Il mio corpo ha perso la sua bellezza e cerca le tue mani
Mani che lavano il mio corpo che ha perso la sua bellezza
Mani che lavano il mio corpo che ha perso la sua bellezza
Mani che lavano il mio corpo che ha perso la sua bellezza
Ci benedicono con l'acqua come i preti
come fanno i preti
Non voglio la tua acqua, non voglio il tuo Dio.
Voglio il tuo sguardo, i tuoi occhi le tue mani
Io che non ho più viso, non ho più mani
io che non ho più viso, non ho più occhi
tagliatemi i capelli
chiudete i cancelli
tagliatemi i capelli
chiudete i cancelli
tagliatemi i capelli
chiudete i cancelli
tagliatemi i capelli
chiudete i cancelli
L'isola è immobile mentre il mare danza
L'isola è immobile mentre il mare danza
L'isola è immobile mentre il mare danza
L'isola è immobile mentre il mare danza
L'isola è immobile
L'isola è immobile
L'isola è immobile mentre il mare danza
L'isola è immobile mentre il mare danza
L'isola è immobile
L'isola è immobile immobile immobile
L'isola è immobile
L'isola è immobile immobile immobile
L'isola è immobile mentre il mare danza
L'isola è immobile mentre il mare danza
L'isola è immobile mentre il mare danza
L'isola è immobile mentre il mare danza
inviata da Dq82 - 6/10/2018 - 16:07
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Temuto come grido atteso come canto
Dopo Non al denaro non all’amore né al cielo, che la genialità di Fabrizio De André portò all’attenzione del pubblico italiano, questo lavoro si può definire, a buon titolo, l’autentica ‘Spoon River’ italiana. Si parla di morti, questo è chiaro, ma i personaggi coinvolti non sono “morti e basta”. Loro sono morti due volte: la prima volta perché malati ed internati in un manicomio; la seconda volta perché ‘gli ospiti’, i reclusi, di origine ebraica, furono deportati ed uccisi. Tutti i personaggi raccontati nell’album hanno vissuto, o meglio, abitato, nell’isoletta di San Servolo, pittoresca oasi di terra della laguna veneta. Abitavano in una struttura molto antica, adibita a monastero per circa mille anni, ma che nel 1715 venne adibita ad ospedale militare e dopo neanche dieci anni venne trasformata in ‘manicomio’. E con questa destinazione è rimasta, nonostante vari passaggi, fino al 1978 quando fu chiuso definitivamente. In questi 253 anni, in quelle mura, è l’umanità intera che vi è passata e che lì, si è frantumata. Vi abitavano perché qualcuno ve li aveva portati, con la forza, perché ritenuti “matti”, inadatti alla vita sociale, inadatti alla vita, inadatti e basta.
Michele Gazich ha vissuto sull’isola per circa un mese ed ha deciso di leggere quel luogo con gli occhi di oggi ma cercando di andare indietro nel tempo, raccogliendo le storie presenti nelle schede personali delle migliaia di persone che in quel luogo di tormento vennero recluse; cercando di leggere, in quelle carte, l’umanità dolente e sofferente che in quel luogo è transitata, ha vissuto, ha vegetato, ci ha perso la vita. Un’umanità problematica e, magari, non necessariamente malata ma solamente vittima di depressioni, di esaurimenti nervosi, di difficoltà relazionali. Malati o forse solamente ‘disturbati’, oppure semplicemente necessitanti di un piccolo aiuto che, magari, pur richiesto non gli è mai arrivato. Un aiuto che forse li avrebbe aiutati a liberarsi dalle angosce del quotidiano, o almeno a sopportarle, vivendo un’esistenza ‘normale’ (qui sotto una foto d'archivio di qualche anno fa di San Servolo).
Tante le storie raccolte, fatte di dolore e di paure, di angosce e di spaventi, di silenzi e di urla notturne, di fantasmi interiori e di speranze interrotte. Con uno sguardo Gazich, come i reclusi, poteva osservare il mare e l’anelito di libertà racchiuso nell’orizzonte tra il cielo e l’acqua. Con un altro poteva scrutare le mura scrostate e piene di quelle “ombre” che in quel luogo persero la sanità mentale, l’intelletto, l’emozione, la dignità, la vita interiore per essere, in seguito, prelevate e condotte al macello, come capri espiatori di peccati mai commessi.
Per scrivere un album come questo, non poteva essere sufficiente la lettura di uno o più libri, l’osservazione di fotografie, la memoria composta grazie a qualche lontano e consumato articolo di giornale. No, la realtà andava affrontata, guardata negli occhi, con la paura di non poterle resistere. Le foto dei pazienti lì reclusi dovevano essere osservate e penetrate con attenzione, squadrate, interiorizzate. Quegli sguardi assenti, oppure furibondi, dovevano essere portati all’interno del sé più interiore per comprendere, fino in fondo e semmai fosse possibile, come quelle vita sono state spente, lentamente, e con inquietante metodo. Insieme alla visione delle fotografie, Gazich ha letto anche miriadi di cartelle cliniche, tra cui quelle relative alle persone raccontate nelle canzoni, i cui testi sono riportati nel bel libretto che accompagna quest’opera (un plauso al bel lavoro curato da Alice Falchetti).
È evidente che Temuto come grido, atteso come canto non è un album dalle tinte morbide, dai colori pastello, dai toni colmi di tenera poesia, che comunque è presente ma non è mai tenera, anzi… No, in queste canzoni (?) c’è la presenza dell’umanità straziata e crocifissa, c’è la presenza di chi è ”disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima” (Isaia 53,3), c’è la presenza di chi, ancora oggi, prosegue nel reclamare la sua dignità di persona ma non ne possiede più i diritti; c’è l’immagine dell’uomo che viene trasfigurato nello strazio di una vita senza più speranza, senza luce, priva di orizzonti, destinata all’oblio dell’oscurità. C’è l’uomo nella sua immensità negata. C’è l’uomo deturpato ed offeso, senza più neppure la parvenza di una salvezza, seppure lontana, imminente, possibile…
Questo lavoro, lo si sarà compreso, non è certamente di semplice fattura ma intrinsecamente composto da sofferenze e disperazioni, dal male che ha pervaso ogni spazio della vita e che, dopo la sofferente reclusione, ha fatto subire a quegli uomini ed a quelle donne, colpevoli di essere figli di Abramo, la deportazione verso le camere a gas. Un evento che ha piantato, in quei poveri corpi, in quelle devastate menti, un altro chiodo, un'altra lama tagliente penetrata ad offendere il cuore. E, pare una bestemmia dirlo, forse in quel viaggio, in quell’ultimo viaggio, qualcuno di loro avrà anche pensato, forse per un istante, che l’approdo di quel treno, era la libertà. Ma così non fu.
L’album è strutturato in tre parti: un prologo, un gruppo di canzoni dedicato ad alcune persone recluse (i cui nomi sono di fantasia, ma sempre ispirati dalla storia personale di ogni paziente) e un saluto, per un totale di undici brani a comporre un mosaico di prodigiosa suggestione. Ma se ogni persona ha un senso ed un valore, ancor di più lo possiede chi ha vissuto in situazioni difficili, di tormento, di disintegrazione della propria umanità. Tutto comincia da quell’isola, San Servolo, dove il grido dei reclusi nel manicomio si perdeva verso le mura o, talvolta, verso il mare, senza che nessuno potesse ascoltarlo.
isolachenoncera
Mentre il mare danza è la stringata narrazione di una vita: quella di una donna di settant’anni che venne deporta nel campo di concentramento della risiera di San Sabba. Una donna, cartella n° 1940/182, battezzata con la forza e dalla forza ostile annichilita. Una donna senza più punti di riferimento se non i pessimi ricordi di una vita consegnata al dolore, alla sofferenza, infine alla morte. È una persona che ha bisogno di aiuto (“Il mio corpo che ha perso la sua bellezza cerca le tue mani”), ma le mani che riceve non portano beneficio, non alleviano il dolore bensì portano un sigillo non richiesto, un battesimo non cercato (“Non voglio la tua acqua, non voglio il tuo Dio. Voglio il tuo sguardo, i tuoi occhi le tue mani…”). Alla spasmodica ricerca di una umanità che non troverà mai, nel frattempo troviamo la consapevolezza che “L’isola è immobile mentre il mare danza…” ed ogni via di fuga è preclusa. Se non quella estrema. Il suono è imponente fin dalle prime battute, con la sezione ritmica che è d’ausilio alle melodie costruite dal violino e dal pianoforte. Il suono è scuro e contribuisce a costruire una sorta di “buco nero emozionale” nell’ascolto del brano. Poi tutto si acquieta, si tranquillizza, si calma e c’è spazio per il suono languido del violino e del pianoforte, che si rende docile e tenue. Ma questo clima dura poco perché le minacce incombono… tutto è perduto, questa è la consapevolezza, e la musica riprende scura e minacciosa ed il canto ricorda che “L’isola è immobile”, e quindi anche il tempo lo è, anche la vita lo è.