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Il siluramento dello Sgarallino

Mago Chiò
Lingua: Italiano


Lista delle versioni e commenti


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[1943]

Il piroscafo "Andrea Sgarallino". Isola d'Elba, ca. 1938.
Il piroscafo "Andrea Sgarallino". Isola d'Elba, ca. 1938.


E’ la mattina del 22 settembre 1943. Sei giorni dopo il rovinoso bombardamento che distrugge la città di Portoferraio, all'Isola d'Elba, assieme a tutte le sue installazioni industriali, un siluro tirato da un sottomarino inglese affonda "per errore" il vecchio piroscafo Andrea Sgarallino, che da soli due giorni assicurava anche il servizio passeggeri e merci tra Piombino e il capoluogo elbano dopo essere stato requisito dalla Regia Marina e trasformato in unità militare. Si era soli quattordici giorni dopo l'armistizio dell'otto settembre, alla nave non era ancora stata tolta la bardatura militare ed era piena di gente che tornava a casa, di ex soldati, di abitanti che erano andati in continente per cercare qualcosa da mangiare perché all’Elba, come altrove, si faceva la fame.
Si tratta, insomma, di quello che oggi si definisce uno "spiacevole effetto collaterale". Morirono trecentotrenta persone; praticamente ogni famiglia elbana (compresa la mia) ebbe almeno un morto, quel giorno, sulla maledetta nave.

La tragedia dello "Sgarallino" detiene il triste record del maggior numero di vittime civili perite in mare durante tutte le azioni effettuate nel Mediterraneo nella II guerra mondiale. Ai martiri dello Sgarallino è intitolata una delle principali piazze di Marina di Campo.


Da Questa pagina.
A questa pagina ("Speciale Sgarallino" del quotidiano "Il Tirreno" di Livorno) è scaricabile un articolato e interessantissimo video sul siluramento dello Sgarallino, che consigliamo di visionare sebbene il commento musicale con gli "Adiemus" non sia tra i più appropriati.

Il relitto dello "Sgarallino" a 66 metri di profondità
Il relitto dello "Sgarallino" a 66 metri di profondità
È il 22 settembre 1943, il piroscafo Andrea Sgarallino (varato al nome di un eroe livornese dei moti del 1848 e della spedizione garibaldina dei Mille, di cui parla anche Luciano Bianciardi nei suoi romanzi storici) è salpato da Piombino alla volta di Portoferraio ma non vi approderà mai.
Dopo un periodo durante il quale era stato adattato a servizi militari adottando oltre all’armamento anche la caratteristica livrea mimetica, il 20 settembre lo Sgarallino riprende il servizio civile per permettere il ritorno all’Elba degli oramai ex-militari, degli abitanti e per l’approvvigionamento delle derrate alimentari.
Alle 9.30 lo Sgarallino è oramai in prossimità del porto di Portoferraio, le case elbane sono perfettamente distinguibili, ma altrettanto ben distinguibile è la livrea militare che appare al periscopio del sottomarino inglese Hms Uproar comandato dal capitano Herrik, il quale non ha dubbi nel classificare il piroscafo come nave ausiliara nemica ed emette un ordine.
Sono le 9.49 quando due siluri esplodono sullo Sgarallino e quasi trecento persone perdono la vita a pochi metri da casa.

Una Testimonianza

targaSono trascorsi sessanta anni da quella mattina, e come sempre accade per ogni momento i ricordi sbiadiscono con il trascorrere del tempo come una vecchia fotografia, non nella mente degli elbani però e nemmeno in quelli della signora Marisa Burroni che di quella mattina in cui era bimba appena dodicenne, conserva ricordi indelebili.
Oggi Marisa Burroni è un’attempata signora di 71 anni, madre di Giorgio Benassi (Giotek) un subacqueo che ha partecipato alla nostra immersione sul relitto; dei ricordi quel giorno riportiamo le sue parole: «Avevo 12 anni, abitavo al Forte Stella in quella casa che osservata dalla nave che giunge a Portoferraio sembra attaccata al faro. Dalle finestre della nostra cucina si vedevano arrivare le navi da quando incrociavano il Cavo a quando erano all'altezza del faro di Portoferraio.

Quel mattino un boato immenso proveniente dal mare ci fece correre alle finestre. All'altezza di Nisportino qualcosa era in fiamme, all’inizio non capii cosa stesse accadendo ma lo capirono subito i miei familiari: Hanno silurato lo Sgarallino!. Tutti gli abitanti del Forte Stella si radunarono al muretto sotto casa mia, al muretto dal quale si vede il mare e da lì si poté assistere impietriti al consumarsi della tragedia. Ricordo che la nave era avvolta dalle fiamme e da un denso fumo, dopo pochi minuti le fiamme si spensero e lo Sgarallino era scomparso sotto al mare. Quel giorno infame un vento leggero faceva giungere a tratti le urla di quei disperati. Ricordo che tutti correvano verso il porto e io feci lo stesso. So che i soccorsi partirono molte ore dopo il siluramento perché c’era la paura che quel maledetto sommergibile fosse ancora lì per colpire ancora. Non dimenticherò mai le decine di corpi esanimi distesi dal molo del Gallo fino a quasi la porta di ingresso di Portoferraio. La gente voltava i cadaveri per vedere se riconoscevano amici o parenti mentre alcune donne portavano le lenzuola per coprire quei poveri corpi, ma più di tutto ho chiaro nella mente il corpicino di un bimbo vestito di celeste; che Dio maledica la guerra, tutte le guerre».

Mentre ascoltiamo le parole della signora non è possibile impedire alla mente di volare lontano, immaginare il volto impaurito di una bimba, le grida, dei corpi. La mente vola ma torna fermandosi poco lontano, a sessantasei metri sotto il mare, a una scarpa seminascosta dal fango.


"Mago Chiò" (ovvero “Mago Chiodo”) è un nome mitico all’Isola d’Elba.
Si trattava in origine una figura notissima nella Portoferraio dell'ultimo ventennio del XIX secolo; un barbone analfabeta che voleva a tutti i costi “diventar famoso”. Il suo vero nome era Francesco Grassi; era nato il 1° marzo 1867.

La sua vera, completa e mirabolante storia la si può leggere a questa pagina dal sito di Aldo Cirri.

In occasione della prima visita all'isola d'Elba del celebre pittore macchiaiolo Telemaco Signorini, gli si "mise dietro" per ogni dove, prima accompagnandolo come guida, e poi seguendolo passo passo. Ovunque fosse, Telemaco Signorini era seguito come un ombra da Mago Chiò, che non si accontentava di fare da "mentore" al pittore, ma gli declamava poesie improvvisate e strofe in ottava rima ispirate ad ogni singolo avvenimento, anche il più banale. Signorini, non riuscendo da un lato a liberarsene, e dall'altro intenerito e divertito da quella singolare figura, ne divenne in qualche modo amico; addirittura, "Mago Chiò" lo seguì a Livorno, dove fu immortalato in un celebre quadro del 1881.

Non molto tempo dopo, "Mago Chiò" si suicidò in modo assai singolare per amore di una donna, Eleonora, forse una prostituta. Ma è meglio che leggiate la pagina segnalata. Non voglio dirvi altro per non guastarvi il racconto.

Il nome “Mago Chiò” rimase talmente nella memoria collettiva degli elbani, che praticamente ogni cosa continuò ad essergli attribuita anche ben dopo la sua tragica morte, comprese strofe e stornelli popolari. Si potrebbe tranquillamente affermare che “Mago Chiò” è il “nome collettivo” dell’identità popolare elbana. A questo nome, ancora cinquant’anni dopo la sua morte, mia zia Sebastiana (“Bastiana” o “La Titta”, morta nel 1995) aveva trascritto questa ballata sul siluramento dello Sgarallino; chissà dove l’aveva ascoltata e chi l’aveva veramente scritta. Mia zia aveva l’abitudine di scrivere ogni sorta di cose su dei quaderni a quadretti. Ringrazio mio cugino Renzo Dini che me l’ha fatta avere.

A San Piero in Campo, il caffé sulla Piazza della Chiesa (la stessa dove ogni anno, a fine agosto, si tiene una "Serata De André") si chiama ancora proprio "Mago Chiò".
Se qualcuno ci capita, ci faccia un pensiero.
Il ventidue settembre
partiva da Piombino
ben carico di gente
l' "Andrea Sgarallino"

Il ventidue settembre
ben carico di gente
partiva da Piombino
ched'è sul continente

Erano tutt'a bordo, erano ben stipati
E in più di trecento non sono più tornati

Nel mezzo del canale
che c'era il sole in cielo
qualcun vede qualcosa
movendo l'acqua a pelo

Nel mezzo del canale
passate le tonnare
qualcun vede qualcosa,
non si poté sbagliare.

Erano tutt'a bordo, erano ben stipati
E in più di trecento non sono più tornati

Si sentono le grida
si sentono le urla
si chiama il capitano
e non è certo burla

Si sentono le grida
nessuno è più al sicuro:
"Buttarsi tutt'a mare,
Che sta a arrivà un siluro!"

Erano tutt'a bordo, erano ben stipati
E in più di trecento non sono più tornati

Ma non féciono in tempo,
nessun s'era buttato;
che ci fu l'esplosione
dell'ordigno scoppiato

Ma non féciono in tempo,
nessun s'era salvato;
e per trecentotrenta
il tempo s'è fermato

Erano tutt'a bordo, erano ben stipati
E in più di trecento non sono più tornati

Aspetta aspetta al molo
la gente 'un vé arrivare
la nave di ritorno
e inizia a lagrimare

Aspetta aspetta al molo
la gente ode vociare
che l'Andrea Sgarallino
or giace in fondo al mare

Erano tutt'a bordo, erano ben stipati
E in più di trecento non sono più tornati

"Sia maladetto 'l giorno
che son venuto in terra,
Sia maladetto l'omo
che vòrse (*) questa guerra"

"Sia maladetto l'omo,
sia maladetto Iddio,
ché a bordo c'era mamma
e pur l'amore mio".

Erano a bordo, e non avran domani
Eran più di trecento, ed eran tutti elbani.

(*) volle


Lingua: Francese

Version française – LE TORPILLAGE DU SGARALLINO – Marco Valdo M.I. – 2010
Chanson italienne – Il siluramento dello Sgarallino – Mago Chiò – 1943

Le 22 septembre 1943, le vapeur Andrea Sgarallino (lancé sous le nom d'un héros livournais des événements de 1848 et de l'expédition garibaldienne des Mille, dont parle Luciano Bianciardi dans ses romans historiques) a levé l'ancre de Piombino à destination de Portoferraio, mais il n'y accostera jamais.

Après une période durant laquelle il avait été adapté au service militaire , adoptant outre un armement, la tenue caractéristique des forces navales, le 20 septembre le Sgarallino reprend du service civil pour permettre le retour à l'Elbe des désormais ex-militaires, des habitants et pour l'approvisionnement alimentaire.

À 9 h 30, le Sgarallino est à proximité du port de Portoferraio, les maisons sont distinctement visibles, mais plus encore la livrée militaire du navire qui apparaît dans le périscope du sous-marin anglais Hms Uproar, commandé par le capitaine Herrick lequel n'a aucun doute quant à la nature du vapeur comme navire auxiliaire ennemi et il donne l'ordre. Il est 9 h 49 quand deux torpilles explosent sous le Sgarallino et presque trois cents personnes perdent la vie à quelques mètres de chez elles.

"Mago Chiò" (ou “Mago Chiodo”) est un nom mythique à l'Île d'Elbe. Une figure très connue de Portoferraio du début du XXième siècle; un clochard analphabète qui voulut à tous prix devenir « célèbre ». Son vrai nom était Francesco Grassi; il était né le 1 mars 1867. Il se suicida (au début des années 80) par amour pour une dame, Eleonora, peut-être une prostituée.
Son personnage, ses habitudes, sa fin tragique et romantique ont tenu Mago Chiò dans la mémoire collective des habitants; en quelque sorte, il est entré dans la légende populaire de l'île. À San Piero in Campo, le café sur la place de l'église s'appelle encore aujourd'hui « Mago Chiò ».
LE TORPILLAGE DU SGARALLINO

Le vingt-deux septembre
Partait de Piombino
Bien chargé de gens
L' Andrea Sgarallino

Le vingt-deux septembre
Partait de Piombino
Bien chargé de gens
Venant du contient

Ils étaient tous à bord, ils étaient bien entassés
Et à plus de trois-cents ne sont jamais arrivés

Au milieu du canal
Au grand soleil en plein ciel
Quelqu'un vit quelque chose
Courant à fleur d'eau

Au milieu du canal
Où passent les thonaires
Quelqu'un vit quelque chose
Il ne put s'y tromper.

Ils étaient tous à bord, ils étaient bien entassés
Et à plus de trois-cents ne sont jamais arrivés

On entend les cris
On entend les hurlements
On appelle le capitaine
Et ce n'est pas une blague

On entend les cris
Personne n'est plus en sécurité :
« Tous à la mer,
C'est une torpille ! »

Ils étaient tous à bord, ils étaient bien entassés
Et à plus de trois-cents ne sont jamais arrivés

Mais ils n'eurent pas le temps,
Personne ne s'est jeté;
Ce fut l'explosion
De l'engin mortel

Mais ils n'eurent pas le temps,
Personne ne s'est sauvé;
Et pour trois-cent trente
Le temps s'est arrêté.

Ils étaient tous à bord, ils étaient bien entassés
Et à plus de trois-cents ne sont jamais arrivés

Attendent attendent au mole
Les gens ne voient pas arriver
Le navire de retour
Et commencent à pleurer

Attendent attendent au mole
Les gens se mettent à crier
Que l'Andrea Sgallarino
Git au fond de la mer.

Ils étaient tous à bord, ils étaient bien entassés
Et à plus de trois-cents ne sont jamais arrivés

« Maudit soit le jour
Où je suis venu sur terre,
Maudit soit l'homme
Qui voulut cette guerre ».

« Maudit soit l'homme,
Maudit soit Dieu,
Car à bord il y avait maman
Et aussi mon amour ».

Ils étaient tous à bord, ils étaient bien entassés
Et à plus de trois-cents ne sont jamais arrivés.

inviata da Marco Valdo M.I. - 23/3/2010 - 20:35


Avevo solo tre anni quel maledetto giorno che aspettavo il ritorno di mia madre e di mio padre, ma mi ritrovai orfano, erano a bordo dello Sgarallino.
Oggi ho trovato la poesia sul siluramento e pur nella tristezza di quel ricordo
Vi ringrazio

Pier Luigi Falciani - 17/7/2011 - 14:32


Corre l'obbligo e il piacere di segnalare questa pagina del blog "Du' tuffi nelle stelle, interamente in vernacolo livornese, nella quale si parla dello Sgarallino, del suo siluramento e anche di questa pagina con la ballata su quel tragico fatto. Chiunque ne siano gli autori, li ringraziamo.

CCG/AWS Staff - 5/4/2013 - 07:54


Andrea Sgarallino
La storia e l'affondamento della nave dal blog Con la pelle appesa a un chiodo
28 ottobre 2013
Si tratta della ricostruzione storica più particolareggiata e bella che sia reperibile in Rete. Particolare piacere fa quindi che comprenda il testo di questa ballata popolare che questo sito ha fatto conoscere. [RV]

Tra le 8.30 e le 9 del mattino del 22 settembre 1943 il piroscafo misto Andrea Sgarallino (731 tsl, costruito nel 1930), della Società Anonima di Navigazione Toscana di Livorno, partì da Piombino diretto a Portoferraio per un viaggio di collegamento locale. Catturato dai tedeschi dopo l’armistizio dell’8 settembre, il piroscafo aveva ripreso il servizio civile solo il 21 settembre, per ripristinare i collegamenti tra Piombino e Portoferraio, e questo era il suo secondo viaggio per Portoferraio: in molti, civili e militari smobilitati, attendevano a Piombino per tornare all’Elba, e l’isola necessitava di rifornimenti. La nave aveva a bordo militari smobilitati che rientravano all’Elba e civili che si erano recati a Piombino a rifornirsi (nonché alcuni rifornimenti per l’isola ed anche per le forze di occupazione tedesche), oltre all’equipaggio ed a personale militare tedesco di guardia, ed era al comando del sottotenente di vascello Carmelo Ghersi. Secondo il sopravvissuto Stefano Campodonico, a bordo salirono tra i 200 ed i 250 passeggeri, ma nessuno ne tenne un conto preciso. Mentre la nave costeggiava vicino a Nisporto e Nisportino per avvicinarsi a Portoferraio, intorno alle 9.30 (od alle 9.49) venne colpita da un siluro (per altra fonte due) lanciato dal sommergibile britannico Uproar e rapidamente affondò in fiamme, spezzata in due, pressoché davanti a Portoferraio (tra le punte Nisporto e Falconaia, a 0,7 miglia dalla riva, nelle acque antistanti il promontorio di Monte Grosso), dov’era quasi giunto, nel punto 42° 49’ 57” N e 010° 21’ 35” E (o Lat. 42° 44\991 N e Long. 010° 2F.545 E). Le vittime, a seconda delle fonti, furono circa 300 o 330: pressoché tutte le famiglie elbane persero qualche membro. L’affondamento dello Sgarallino è spesso citato come il peggior disastro navale, per numero di vittime civili, avvenuto in Italia nel corso della guerra. I soccorsi dall’isola partirono il ritardo, per il timore che il sommergibile fosse ancora in agguato e pronto a colpire di nuovo. Contribuì a rendere drammaticamente elevato il numero delle vittime la giornata piovosa, che aveva spinto la maggior parte dei passeggeri a ripararsi sottocoperta.

Lo Sgarallino con il gran pavese, in una foto tratta dal libro “Storia della marineria elbana” di Alfonso Preziosi (g.c. sito mucchioselvaggio.org)
Lo Sgarallino con il gran pavese, in una foto tratta dal libro “Storia della marineria elbana” di Alfonso Preziosi (g.c. sito mucchioselvaggio.org)


Solo quattro o cinque furono i sopravvissuti: il fuochista Stefano Campodonico ed il marinaio Celestino Fusari, che vennero sbalzati fuoribordo dall’esplosione e, non sapendo nuotare, sopravvissero aggrappati ad una tavola galleggiante, un altro marinaio italiano (un cannoniere della Regia Marina) ed uno o due militari tedeschi. Campodonico si trovava di guardia nel locale caldaia quando, dopo circa un’ora di navigazione, era salito in coperta e, dopo aver visto che la nave stava per superare il promontorio di Monte Grosso, si era unito ad un gruppetto di membri dell’equipaggio, tra cui il nostromo Angelo Baldetti: secondo la testimonianza che Campodonico diede nel 1979, Baldetti aveva appena iniziato a parlare, quando si era verificata l’esplosione (una sola, anche se poi, in ospedale, gli fu detto che ve ne erano state due) e Campodonico era stato gettato contro una paratia ed in un locale chiuso (una cunetta a murata), perdendo i sensi, mentre Baldetti aveva gridato di andare tutti a prua. Secondo quanto raccontò nel 1985, invece, il gruppetto stava discutendo circa il rischio di attacchi di sommergibili ed il proposito di fuggire in Corsica, quando era avvenuto un primo scoppio a poppa, che aveva fatto sobbalzare la nave, poi Baldetti aveva gridato di andare a prua e Campodonico si era messo a correre verso prua con gli altri quando una seconda esplosione, ancora più volenta, lo aveva gettato nella cunetta a murata. Campodonico aveva ripreso i sensi poco dopo e, mentre la nave sbandava a sinistra, aveva trovato un salvagente e si era gettato in mare attraverso uno sportello mentre il locale iniziava ad allagarsi, poi aveva nuotato per non essere trascinato dal risucchio ed era riuscito a raggiungere la superficie. Dopo essersi tenuto a galla aggrappato a vari rottami di legno ed al salvagente, aveva infine sovrapposto due boccaporti e vi si era tenuto con una mano, ferita, mentre con l’altra (oppure impiegando una tavoletta a mo’ di remo) aveva cercato di nuotare per impedire al vento di scirocco di portarlo via. Ad un certo punto sopraggiunsero dei MAS, che però non prestarono soccorso ai naufraghi, e dopo alcuni rimorchiatori e pescherecci che raccolsero i pochi superstiti. Il fuochista Campodonico dovette subire l’amputazione della gamba destra all’ospedale di Villa Ottone, a Portoferraio, a causa di una ferita infettatasi, e passò cinque anni in vari ospedali. Campodonico ritenne che la maggior parte delle vittime tra quanti si trovavano in coperta venne uccisa dallo spostamento d’aria o non riuscì a salvarsi per lo stordimento da esso derivante, e molti altri rimasero intrappolati nei locali sottocoperta. Gli fu poi detto, in ospedale, che erano state recuperate undici salme, tra cui quella del comandante Ghersi.

Lo Sgarallino fotografato con armamento e livrea mimetica durante il servizio per la Regia Marina come vedetta foranea F 123. Questo doveva essere l’aspetto della nave al momento dell’affondamento (foto tratta da “Navi mercantili perdute” di Rolando Notarangelo e Gian Paolo Pagano, USMM, Roma 1997)
Lo Sgarallino fotografato con armamento e livrea mimetica durante il servizio per la Regia Marina come vedetta foranea F 123. Questo doveva essere l’aspetto della nave al momento dell’affondamento (foto tratta da “Navi mercantili perdute” di Rolando Notarangelo e Gian Paolo Pagano, USMM, Roma 1997)


Al momento del siluramento, la nave, che fino all’armistizio aveva prestato servizio per la Regia Marina come vedetta foranea con la sigla identificativa F 123, era dipinta con colorazione mimetica ed armata con alcuni cannoni di piccolo calibro e batteva bandiera tedesca: questo ha alimentato ipotesi secondo cui la nave fu affondata “per errore” perché scambiata dal comandante dell’Uproar, tenente di vascello Laurence Edward Herrick, per una nave ausiliaria tedesca. Tali teorie sono da considerarsi errate, perché, se è pur vero che il comandante Herrick ritenne realmente di trovarsi di fronte un cacciasommergibili tedesco (come ricordò il segnalatore dell’Uproar, Gus Britton), è altrettanto vero che anche se lo Sgarallino fosse stato disarmato e con i colori della sua compagnia (dunque identificabile come mercantile in servizio civile) sarebbe stato egualmente attaccato, nell’ambito della guerra totale che imperversava per mare e per terra.

L’affondamento nel ricordo dell’elbana Marisa Burroni (dal sito mucchioselvaggio.org):

«Avevo 12 anni, abitavo al Forte Stella in quella casa che osservata dalla nave che giunge a Portoferraio sembra attaccata al faro. Dalle finestre della nostra cucina si vedevano arrivare le navi da quando incrociavano il Cavo a quando erano all'altezza del faro di Portoferraio. Quel mattino un boato immenso proveniente dal mare ci fece correre alle finestre. All'altezza di Nisportino qualcosa era in fiamme, all’inizio non capii cosa stesse accadendo ma lo capirono subito i miei familiari: Hanno silurato lo Sgarallino! Tutti gli abitanti del Forte Stella si radunarono al muretto sotto casa mia, al muretto dal quale si vede il mare e da lì si poté assistere impietriti al consumarsi della tragedia. Ricordo che la nave era avvolta dalle fiamme e da un denso fumo, dopo pochi minuti le fiamme si spensero e lo Sgarallino era scomparso sotto al mare. Quel giorno infame un vento leggero faceva giungere a tratti le urla di quei disperati. Ricordo che tutti correvano verso il porto e io feci lo stesso. So che i soccorsi partirono molte ore dopo il siluramento perché c’era la paura che quel maledetto sommergibile fosse ancora lì per colpire ancora. Non dimenticherò mai le decine di corpi esanimi distesi dal molo del Gallo fino a quasi la porta di ingresso di Portoferraio. La gente voltava i cadaveri per vedere se riconoscevano amici o parenti mentre alcune donne portavano le lenzuola per coprire quei poveri corpi, ma più di tutto ho chiaro nella mente il corpicino di un bimbo vestito di celeste; che Dio maledica la guerra, tutte le guerre».

Il siluramento dello Sgarallino nel ricordo del segnalatore Gus Britton dell’Uproar (dal libro “Storia della marineria elbana” di Alfonso Preziosi, disponibile in formato pdf sul sito mucchioselvaggio.org, che a sua volta fa riferimento al libro “L’Andrea Sgarallino” di Giuliano Giuliani):

“Quella mattina tutto era tranquillo. Ad un tratto vidi l’operatore all’idrofono agitarsi e richiamare l’attenzione del comandante: un rumore di eliche, seppure molto debole, gli arrivava in cuffia. Risuonò l'allarme e il comandante Herrick ordinò di portarsi immediatamente a quota periscopio. Alcuni attimi più tardi, attraverso la lente di esplorazione, vide la sagoma di una nave in lento avvicinamento. Il comandante Herrick, che da alcuni minuti seguiva attentamente il piroscafo, d’un tratto si voltò verso il primo ufficiale Boyall e ordinò di prepararsi ad attaccare una nave ausiliaria tedesca probabilmente antisommergibile. Dopo il lancio dei siluri l’Uproar si era immediatamente immerso adagiandosi sul fondo... Non si verificò nessun contrattacco, né da parte di navi né da parte di aerei. Il comandante Herrick pensò di non averla colpita. Fu l'operatore idrofonico che confermò che la nave era stata affondata”.

La nave all’ormeggio (g.c. mucchioselvaggio.org)
La nave all’ormeggio (g.c. mucchioselvaggio.org)


Il relitto dello Sgarallino, spezzato in due ed adagiato sul lato sinistro, venne individuato nel luglio 1961 a 66 metri di profondità, davanti a Punta Nisporto. La parte prodiera è integra, mentre da centro nave verso poppa lo scafo è pesantemente danneggiato dalle esplosioni ed il fondale cosparso di lamiere e rottami. Le immersioni sul relitto sono tuttora interdette (a meno di non ottenere il permesso dalla Capitaneria di Porto e dal Comune di Rio Marina), trovandosi il relitto sulla rotta percorsa giornalmente dai traghetti tra Piombino e Portoferraio.

Nel 1962 le lettere bronzee che componevano il nome della nave sullo specchio di poppa, incrostate per la lunga permanenza in acqua, vennero recuperate dai palombari Virgilio e Giovanni Lertora della ditta Fratelli Lertora di Loano, con l’impiego della nave Giovanni Lertora. Il 22 settembre 2001, cinquantottesimo anniversario della strage, il nuovo pontile di Portoferraio è stato intitolato alle vittime del disastro. Anche a Marina di Campo, capoluogo di Campo nell’Elba, una piazza è stata dedicata alla memoria della sciagura: Piazza Vittime del Piroscafo “Sgarallino”. Il 22 settembre 2003, sessantesimo anniversario del disastro, il relitto è stato filmato e vi è stata deposta una targa con l’iscrizione:

22.IX.1943 - 22.IX.2003
IN MEMORIA
ALLE VITTIME DEL PIROSCAFO
"A. SGARALLINO"


Sull’affondamento venne anche composta una ballata ispirata alla canzone “La spigolatrice di Sapri”:

Il ventidue settembre
partiva da Piombino
ben carico di gente
l' "Andrea Sgarallino"

Il ventidue settembre
ben carico di gente
partiva da Piombino
ched'è sul continente

Erano tutt'a bordo, erano ben stipati
E in più di trecento non sono più tornati

Nel mezzo del canale
che c'era il sole in cielo
qualcun vede qualcosa
movendo l'acqua a pelo

Nel mezzo del canale
passate le tonnare
qualcun vede qualcosa,
non si poté sbagliare.

Erano tutt'a bordo, erano ben stipati
E in più di trecento non sono più tornati

Si sentono le grida
si sentono le urla
si chiama il capitano
e non è certo burla

Si sentono le grida
nessuno è più al sicuro:
"Buttarsi tutt'a mare,
Che sta a arrivà un siluro!"

Erano tutt'a bordo, erano ben stipati
E in più di trecento non sono più tornati

Ma non féciono in tempo,
nessun s'era buttato;
che ci fu l'esplosione
dell'ordigno scoppiato

Ma non féciono in tempo,
nessun s'era salvato;
e per trecentotrenta
il tempo s'è fermato

Erano tutt'a bordo, erano ben stipati
E in più di trecento non sono più tornati

Aspetta aspetta al molo
la gente 'un vé arrivare
la nave di ritorno
e inizia a lagrimare

Aspetta aspetta al molo
la gente ode vociare
che l'Andrea Sgarallino
or giace in fondo al mare

Erano tutt'a bordo, erano ben stipati
E in più di trecento non sono più tornati

"Sia maladetto 'l giorno
che son venuto in terra,
Sia maladetto l'omo
che vòrse (*) questa guerra"

"Sia maladetto l'omo,
sia maladetto Iddio,
ché a bordo c'era mamma
e pur l'amore mio".

Erano a bordo, e non avran domani
Eran più di trecento, ed eran tutti elbani.

(*) volle


La poesia “Un amore strappato” dell’elbano Nunzio Marotti, vincitrice del Premio Internazionale Capoliveri Haiku 2008:

Sprofonda e soffia,
nove e quarantanove,
lo Sgarallino.

Speranze offese
d’uomini e donne stanchi
partiti all’alba.

Ad aspettarti
con mano tesa agli occhi
l’umano affetto.

Boato sordo
acqua e sirena e acqua
ondeggiamento.

Poi solo buio.
Or’è silenzio e quiete:
non nel mio cuore

Riccardo Venturi - 10/2/2015 - 15:38


Due o tre cose che so della guerra
di :

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UMBERTO MAZZANTINI

Nato a Marciana Marina il 17/9/1957. Scrive per greenreport.it, dove si occupa soprattutto di biodiversità e politica internazionale, e collabora con La Nuova Ecologia ed ElbaReport. Considerato uno dei maggiori esperti dell’ambiente dell’Arcipelago Toscano, è un punto di riferimento per i media per quantto riguarda la natura e le vicende delle isole toscane. E’ responsabile nazionale Isole Minori di Legambiente e responsabile Mare di Legambiente Toscana. Ex sommozzatore professionista ed ex boscaiolo, ha più volte ricoperto la carica di consigliere e componente della giunta esecutiva del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano.


da: Elbareport - Quotidiano di informazione online dall'Isola d'Elba
6 marzo 2022

Il mi’ babbo Veleno – che un altr’anno avrebbe avuto cent’anni - la guerra l’ha fatta, è stato a Cassino, nascosto come un topo in un convento fortezza sbriciolatosi sotto le bombe alleate. E’ scappato, l’hanno preso i partigiani, è scappato ancora… è stato di nuovo arruolato come mitragliere, ha disertato quando francesi e inglesi (senegalesi e marocchini) hanno liberato l’Elba seminando nuova disperazione, violenze, dolori… perché la guerra finisce ma è la più crudele delle levatrici della Pace.

E a volte la pace effimera di guerre insensate figlia nuovi infiniti dolori, odi che non si placano, ingiustizie che diventano giustizie, a volte il dolore e il pianto umiliato di molti – i perdenti - viene nascosto, taciuto e il dolore di pochi – i vincenti – diventa intollerabile agli occhi del mondo. E’ quel che succede da più di 70 anni nella Palestina dove nacque il portatore di pace e di spada, il pescatore di anime che camminava sul mare dolce di Tiberiade, è quel che succede da ancora più tempo nell’Afghanistan inconquistato che abbiamo riconsegnato ai talebani dopo 20 anni di una guerra crudele, insensata, che ha sperperato vite e migliaia di miliardi di dollari in armi in un Paese affamato e arso, fatto polvere dal cambiamento climatico, da dove scappano profughi che si mischiano a profughi di altre guerre mediorientali e africane, divisi alle frontiere polacche come il grano dal loglio, occhi neri e pelle scura e olivastra da una parte, occhi celesti e pelle bianca dall’altra… Occhi con la stessa disperata paura, pelle sotto la quale scorre lo stesso rosso sangue con il quale l’umanità indifesa ha concimato i campi di battaglia di sabbia o di neve, di foreste soffocanti vietnamite e congolesi o di palazzoni sovietici di Kiev bombardati per ordine di un ex agente del KGB, oppure la case russe del Donbass, da dove centinaia di migliaia di bambini e di donne, con la stessa pelle bianca e gli stessi occhi chiari, sono profughi dall’altra parte di un confine che si sono mangiato i cingoli dei carrarmati.

E’ quel che succede da decenni nelle nostre ex colonie fasciste, dimenticate come facciamo noi italiani che pure abbiamo giorni del ricordo e della memoria. Quel che succede nella ex colonia e poi protettorato italiano della Somalia, dove Andreotti nel 1969 mise al comando con un colpo di stato un ex carabiniere di Firenze, Siad Barre, che si alleò coi sovietici, diventò grande amico di Bettino Craxi e poi venne defenestrato nel 1991, dopo due anni di stragi del suo stesso popolo che l’Italia e il mondo stettero a guardare. La Somalia, dove da 31 anni c’è un’altra guerra civile e tribale che abbiamo cercato maldestramente di sedare inutilmente mandando i paracadutisti della Folgore a fare una nuova guerra coloniale insieme agli americani. Un Afghanistan italiano, un Paese fantasma nel quale milizie jihadiste e governi fantoccio si contendono un deserto di sterpi, capre, pesci del mare, rotte di pirati e discariche di rifiuti tossici e radioattivi made in Italy. Una discarica della nostra storia e della nostra coscienza.

Attaccata alla Somalia frantumata, a nord, c’è l’atro pezzo dell’impero fascista: l’Abissinia che conquistammo bombardando villaggi con l’iprite, sterminando con le mitragliatrici dal cielo e da terra un esercito cristiano armato di zagaglie, cannoneggiando città, facendo mattanze di civili ad Addis Abeba e di monaci nelle loro chiese rupestri, a migliaia, per rappresaglia. L’Etiopia dove ora a Macallè, la capitale del Tigray - dalla quale prese il suo soprannome che lo ha accompagnato fino alla sua morte nel manicomio di Volterra il mi’ zio Oreste - si muore sotto le bombe etiopi ed eritree. L’Eritrea fascista anche nei palazzi del potere, dove si beve il cappuccino e si va al cinematografo, dove l’Italiano è la lingua dell’élite di una delle dittature più feroci e spietate del mondo, che ha trasformato la lotta di liberazione socialista in uno Stato-prigione alleato dell’occidente e delle monarchie assolute del Golfo, in guerra e prigionia che durano dal 1991. In profughi che affogano al largo di Lampedusa.

E poi c’è la Libia, lo scatolone di sabbia che strappammo alla Turchia insieme al Dodecaneso, le isole greche dove nel 1991 Gabriele Salvatores girò uno dei più bei film di pace di sempre: Mediterraneo. La Libia, conquistata col ferro e col fuoco, con decine di migliaia di impiccati, campi di concentramento nel deserto, profughi, bombardamenti, torture, violenze e dolore… La Libia di Muʿammar Muḥammad Abū Minyar ʿAbd al-Salām Aisha Gheddafi, salito al potere nel 1969 con un colpo di Stato militare quasi incruento che scacciò i coloni italiani ma lasciò intatti i nostri interessi petroliferi. Gheddafi amico di Silvio Berlusconi che gli preparava attendamenti beduini e finte conversioni islamiche di legioni di belle donne nel centro di Roma, Gheddafi tradito, bombardato da aerei Nato e italiani che obbedivano ai francesi e agli inglesi, ucciso da milizie islamiste nel 2011, Una morte che sembrava la fine crudele di una dittatura e che invece si è trasformata in 11 anni di sangue, dolore, profughi, decapitazioni, torture, prigionie, rapimenti, violenze, commercio di carne umana che ancora durano. Quello che qualcuno chiama ancora porto sicuro. Un cimitero sottomarino e nel deserto di morti senza nome, dove i becchini sono aguzzini finanziati e armati dall’Italia che pilotano moderne vedette italiane. In cambio di petrolio e gas e di profughi tenuti nei lager, affondati sui gommoni, venduti come ostaggi. La stessa disperazione che guardiamo atterriti in televisione al confine ucraino con l’Europa, solo che in Libia le lacrime scorrono su gote scure, sulla pelle bruciata dal sole e dai gas dei siriani e degli irakeni. L’Iraq, dove abbiamo partecipato come fedeli alleati a una guerra insensata che dura ancora, dove abbiamo mandato a morire soldati che poi abbiamo chiamato eroi per non vergognarci delle nostre bugie. Dell’ennesima guerra per il petrolio ammantata da guerra democratica, giustificata di fronte all’Onu con false prove. Come Putin qualsiasi.

La mi’ mamma Jole, che la guerra l’ha vista da ragazzina, non sapeva niente del mondo, non avrebbe saputo indicare su una cartina geografica la Libia, la Somalia, l’Eritrea, l’Etiopia abissina che dette il nome a suo fratello Macallè, figuriamoci l’Ucraina. Ma al fascismo Jole non ha mai perdonato quello: la guerra, la fame, le sirene nella notte di Roma, la miseria degli elbani, il terrore dei romani, il dolore del lutto. E poi i nomi degli uomini morti sulle lapidi di marmo, come una riparazione di un torto troppo grosso per essere riparato, troppo facile da riparare così, con una corona di fiori e un nastro tricolore.
Se fosse viva la mi’ mamma piangerebbe per i morti in Ucraina, piangerebbe soprattutto per le donne e i bimbi che piangono. Se fosse vivo il mi’ babbo starebbe con il soldato russo prigioniero che piange, troppo piccolo per la sua uniforme di guerriero, spaesato come lo era lui sotto le bombe di Cassino, o il mi’ zio Lampo nella sua nave che affondò centrata da una bomba alleata in un porto dell’Istria. Ma il mi’ babbo e il mi’ zio non parlavano quasi mai della loro guerra: era un dolore represso, una vergogna da scordare, qualcosa da non far sapere ai bimbi, da nascondere ai ragazzi. Sangue e merda. Materia infetta.

Io so molte cose della guerra di oggi, conosco i torti e le ragioni – almeno quelle che ci è dato conoscere – conosco la storia che sprofonda in un medioevo mitico di vichinghi erranti e croci cristiane, ortodosse e uniate. Conosco questo groviglio di storia che arriva a Lenin, Stalin, Kruscev e Gorbaciov, all’ammainarsi della bandiera rossa con la falce e martello e la stella, a Putin e alla rivolta di Maidan dove la bandiera giallo-azzurra dell’indipendenza ucraina si mescolava con le svastiche e i lugubri simboli del passato fascista. Conosco le radici del rancore e della propaganda, delle bugie di guerra, conosco l’origine di questo grumo di sangue e di polvere da sparo rappreso sul quale torreggiano minacciose le centrali nucleari sovietiche come quella esplosa a Chernobyl in un tragico aprile del 1986.

Ma tutto questo scompare di fronte alla disperazione delle donne e dei bimbi, alle lacrime dei vecchi che guardano atterriti e inermi la loro casa sventrata, la loro vita faticosa sparsa nel fango, nella neve sporca, come una cosa che non conta nulla.
Niente può giustificare questo dolore, questa umiliazione, queste lacrime che si chiamano guerra. Niente, se non la fine della guerra, del dolore e delle lacrime. La guarigione è nella geopolitica della pace che gridano dalle piazze i pacifisti inermi, un Papa ferito e solitario, i disertori della violenza. Che griderebbero, se potessero ritornare, i soldati morti invano per regimi e Stati che non esistono più, per un onore che era di altri e che altri hanno disonorato nel sangue.

Che griderebbero, se fossero vivi Veleno, Jole, Macallè, perché alla fine, ai confini che tagliano le nazioni come sciabole e ghigliottine, c’è una parte con cui stare sempre: l’umanità che soffre. Restare umani.

Riccardo Venturi - 9/3/2022 - 18:20




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