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Της Άρτας το γιοφύρι

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Tis 'Artas to giofyri
[?]
Tradizionale / Παραδοσιακό δημοτικό τραγούδι / Traditional / Traditionnel

Arta [Epiro, Grecia]. Il Ponte Ottomano (XVII sec.)
Arta [Epiro, Grecia]. Il Ponte Ottomano (XVII sec.)


Il ponte di Arta esiste sul serio: è un antico ponte in pietra che attraversa il fiume Arachthos nelle vicinanze di Arta, nell'Epiro in Grecia. Arta è ora una città di circa 44.000 abitanti, e sul fiume Arachthos passa anche un moderno ponte riservato al normale traffico; quello vecchio è rimasto un po' più in là, tra i monumenti di questa città le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Ha una storia, Arta, che risale al Paleolitico; il primo insediamento nell'area della città moderna risale però sicuramente al IX secolo a.C. Con il nome di Ambracia, la città di Arta fu fondata dai Corinzi nel VII secolo a.C. Nel 295 a.C. Pirro, quello della “Vittoria di Pirro” e che viene generalmente ricordato come “re dell'Epiro” (propriamente era re dei Molossi), ne fece la sua capitale. Per la prima volta, la città è nominata sotto il nome di Arta nell'anno 1082; nome di origine oscura, la cui etimologia non è mai stata spiegata.

Stando al cronista dell'Epiro Panagiotis Aravantinos, il primitivo ponte di Arta fu costruito in epoca romana; secondo le tradizioni locali, però, il ponte di Arta fu costruito una prima volta quando la città divenne la capitale del Despotato dell'Epiro, probabilmente sotto Michele Ducas (1230-1271). Ma il ponte che si vede ancora oggi è sicuramente di epoca ottomana, ché del ponte ottomano ha tutte le caratteristiche architettoniche: per la sua costruzione si parla degli anni tra il 1602 e il 1606 (secondo altre fonti, il 1613). Quando, nel 1881, la città di Arta fu annessa alla Grecia, il culmine del ponte di Arta rappresentò il punto di confine tra il Regno di Grecia e l'Impero Ottomano; questo fino al 1912.

Sul ponte di Arta e sulla sua costruzione (o su una sua costruzione nel tempo) è fiorita una terribile leggenda che ha dato luogo a una ballata: “Il ponte di Arta” (Της Άρτας το γιοφύρι nel titolo generalmente accettato). La ballata deve avere avuto origine, con tutta probabilità, prima della costruzione del ponte Ottomano: è, infatti, nello stile dei canti Acritici le cui origini risalgono circa al IX secolo della nostra era. Secondo la leggenda, quarantacinque capomastri e sessanta lavoranti, sotto la direzione del capocantiere, non venivano a capo della costruzione del ponte: per una sorta di oscura maledizione, il ponte crollava ogni sera rendendo vane le fatiche di chi lo stava costruendo. Compare quindi un uccello che parla con voce umana al capocantiere: se desidera che il ponte sia finalmente costruito, deve sacrificare la bella e giovane moglie. In pratica: un sacrificio umano in piena regola. Il sacrificio della ragazza viene operato con l'inganno: le viene detto che al marito è caduto l'anello (presumibilmente la fede matrimoniale) nel fiume sotto un pilone, e la sventurata si offre per andare a cercarlo e ritrovarlo. Non fa in tempo: degli operai hanno già cominciato a murarla viva dentro le fondamenta del ponte. Si compie una sventura di famiglia: si viene infatti a sapere che la ragazza è la più giovane di tre sorelle, la prima della quali è stata murata in un ponte sul Danubio, e la mezzana in un ponte sull'Eufrate. Mentre viene murata nel ponte di Arta, la ragazza fa però in tempo a lanciare una tremenda maledizione: il ponte viene maledetto a tremare come una foglia, facendo cadere nel fiume tutti coloro che lo attraversano. Le viene però ricordato che ha un fratello in terra straniera, e che anche lui lo potrebbe attraversare; così lei cambia la maledizione rendendola in un certo qual modo più blanda: se tremano le alte montagne, tremerà anche il ponte; e se cadono gli uccelli predatori, cadranno anche i passanti. Detto questo, gli operai finiscono il loro sporchissimo lavoro e la fanciulla rimane murata nel ponte. Che effetto possa fare, è facilmente intuibile assieme a tutte le sue implicazioni più svariate: dalle monache di clausura cui veniva assicurata la muratura (simbolica ma non troppo) in un convento (da cui il nome delle Murate di Firenze, poi diventato carcere e ora graziosi appartamentini con tanto di piazzette e localini alla moda), ai brividi di un racconto letterario come Il barile di Amontillado di Edgar Allan Poe, con il borioso e volgare italiano Fortunato che viene murato vivo da Montrésor nelle cantine vestito da buffone. Nemo me impune lacessit.

Il tema del sacrificio umano per permettere la costruzione di un'opera (ed il ponte è l'opera per eccellenza, come importanza) impedita da forze oscure è, ovviamente, antichissimo; in più, si potrebbe aggiungere che sull'intera categoria dei muratori (e dei pontieri in particolare) sono gravate da sempre leggende, accuse e maledizioni di connivenza con forze oscure assai e, non di rado, col Diavolo in persona. La segretezza della loro arte e delle tecniche delle varie corporazioni (si pensi solo alla famosa “chiave di volta”, che nel caso di un ponte ad archi è fondamentale) per sfidare le forze della natura, ha fatto sí che tali leggende siano fiorite un po' ovunque. Il sacrificio umano per placare le forze oscure che impediscono una costruzione può senz'altro appartenere al dominio del Primevo, quando l'umanità passò (non dovunque) all'edificazione in muratura; nei Balcani, va detto, è una leggenda che si è mantenuta a lungo. Il poema popolare serbo Зидање Скадара [Zidanje Skadara, “La costruzione di Scutari”], di epoca antecedente alla battaglia di Kosovo Polje (1389), prevede la muratura di alcune donne, vittime sacrificali, nelle fondamenta della città; e così la leggenda romena di Meşterul Manole, Mastro Emanuele, che mura sacrificalmente la propria moglie incinta nelle fondamenta del monastero di Argeş. La leggenda del ponte di Arta sembra però avere dei punti di contatto precisi con una più antica leggenda celtica, secondo la quale Vortigern, il regulo britanno del V secolo che, in definitiva, fu responsabile della “chiamata” delle tribù angle e sassoni dei mitici fratelli “equini” Hengest e Horsa (“Stallone” e “Cavallo”), con l'aiuto (ovviamente di natura magica) di Merlino stava costruendo una torre per difendersi sia da Ambrogio Aureliano (il generale romano britannico che, secondo Gildas, vinse un'importante battaglia contro gli Anglosassoni) che da Uther Pendragon. Proprio come il ponte di Arta, però, a sera la torre crollava ogni giorno. Vortigern fu quindi avvisato che il maleficio poteva essere vinto soltanto sacrificando un bambino, e mischiando il suo sangue alla malta di costruzione.

Mi rendo conto che, quasi senza accorgermente, sto scivolando su temi “cattiasalteschi”; se la dilettissima Cattia, quindi, per caso leggesse questa pagina (anche se non so quanto il suo occhio celtico e nordico possa essere catturato da una cosa scritta in greco -piuttosto arcaico per giunta), mi verrebbe da dire che, in questi giorni pontificali (nel senso letterale del termine: “pontefice” = “costruttore di ponti”), ci ho visto qualche singolare punto di contatto anche col malefico ponticello di Harpens Kraft (il ponte che crolla, le tre sorelle vittime di una maledizione ecc.); chissà. Le leggende popolari europee hanno fatto lunghi, lunghissimi giri. Ma termino con una considerazione attuale assai: se il ponte di Arta, ed altri antichissimi ponti sparsi qua e là per l'Europa, sono ancora in piedi grazie a sacrifici umani, forse un po' la cosa ha funzionato nonostante i protagonisti (e, più che altro le sfortunate protagoniste) non l'abbiano generalmente presa molto bene (e vorrei vedere voialtri e voialtre). Sarebbe stato quindi opportuno applicare tale principio anche ai ponti italiani, che crollano spesso e volentieri. Ad esempio, che so io, per il nuovo “Ponte Genova San Giorgio”, che ha sostituito il Ponte Morandi crollato senz'altro a causa di forze oscure assai, murare nelle sue fondamenta Daniela Santanchè o Giorgia Meloni, che così -peraltro- si sarebbero finalmente e per una volta veramente rese utili alla collettività e al Paese mediante il loro sacrifizio, rispettando al contempo la (senz'altro crudelissima) tradizione che vuole murate dentro un ponte delle donne. Ma la tradizione è ferrea, e murare nel ponte un Briatore, un Feltri o un Sallusti non funzionerebbe (un Salvini, poi, si mangerebbe il ponte con tutte le fondamenta e i piloni). Come dire: supportare il "Modello Genova" con il "Modello Arta", e componendo magari una ballata tradizionale in genovese antico, in cui l'uccello parlante epirota viene sostituito dall'uccellino cinguettante di "Twitter".

Scherzo, naturalmente (forse); ed auguro senz'altro lunga vita alle due simpatiche signore. Ciò detto, (ri)passo per concludere al nostro antico ponte di Arta e alle sue arcate in pietra; è lungo 130 metri e, secondo l'allora metropolita di Arta, Serafim Xenopoulos Vyzandios, a parte i 45 capomastri e i sessanta lavoranti, vi lavorarono anche 1300 operai che nessuna ballata o leggenda nomina. Ed è, chissà, più probabile che le eventuali vittime sul lavoro siano state fra di essi. [RV]
Σαράντα πέντε μάστοροι κι εξήντα μαθητάδες
γιοφύριν εθεμέλιωναν στης Άρτας το ποτάμι.
Ολημερίς το χτίζανε, το βράδυ εγκρεμιζόταν.
Μοιριολογούν οι μάστοροι και κλαιν οι μαθητάδες:
"Αλοίμονο στούς κόπους μας, κρίμα στις δούλεψές μας,
ολημερίς να χτίζουμε το βράδυ να γκρεμιέται."
Πουλάκι εδιάβη κι έκατσε αντίκρυ στό ποτάμι,
δεν εκελάηδε σαν πουλί, μηδέ σαν χηλιδόνι,
παρά εκελάηδε κι έλεγε ανθρωπινή λαλίτσα:
"Αν δε στοιχειώσετε άνθρωπο, γιοφύρι δε στεριώνει,
και μη στοιχειώσετε ορφανό, μη ξένο, μη διαβάτη,
παρά του πρωτομάστορα την όμορφη γυναίκα,
που έρχεται αργά τ' αποταχύ και πάρωρα το γιόμα."
Τ' άκουσ' ο πρωτομάστορας και του θανάτου πέφτει
Πιάνει, μηνάει της λυγερής με το πουλί τ' αηδόνι:
“Αργά ντυθεί, αργά αλλαχτεί, αργά να πάει το γιόμα,
αργά να πάει και να διαβεί της Άρτας το γιοφύρι.”V
Και το πουλι παράκουσε κι αλλιώς επήγε κι είπε:
"Γοργά ντύσου, γοργά άλλαξε, γοργά να πας το γιόμα,
γοργά να πας και να διαβείς της Άρτας το γιοφύρι."

Να τηνε κι εξανάφανεν από την άσπρην στράτα.
Την είδ' ο πρωτομάστορας, ραγίζεται η καρδιά του.
Από μακριά τους χαιρετά κι από κοντά τους λέει:
"Γειά σας, χαρά σας, μάστοροι και σεις οι μαθητάδες,
μα τι έχει ο πρωτομάστορας και είναι βαργιομισμένος;”
"Το δαχτυλίδι το 'πεσε στην πρώτη την καμάρα,
και ποιος να μπει, και ποιος να βγει, το δαχτυλίδι νά 'βρει;"
"Μάστορα, μην πικραίνεσαι κι εγώ να πά σ' το φέρω,
εγώ να μπω, κι εγώ να βγω, το δαχτυλίδι νά 'βρω."
Μηδέ καλά εκατέβηκε, μηδέ στη μέση επήγε,
"Τράβα, καλέ μ' τον άλυσο, τράβα την αλυσίδα
τι όλον τον κόσμο ανάγειρα και τίποτες δεν ήβρα."

Ένας πηχάει με το μυστρί κι άλλος με τον ασβέστη,
παίρνει κι ο πρωτομάστορας και ρίχνει μέγα λίθο.
"Αλίμονο στη μοίρα μας, κρίμα στο ριζικό μας!
Τρεις αδελφάδες ήμαστε, κι οι τρεις κακογραμμένες,
η μια 'χτισε το Δούναβη, κι η άλλη τον Αφράτη
κι εγώ η πλιό στερνότερη της Άρτας το γιοφύρι.
Ως τρέμει το καρυόφυλλο, να τρέμει το γιοφύρι,
κι ως πέφτουν τα δεντρόφυλλα, να πέφτουν οι διαβάτες."

"Κόρη, το λόγον άλλαξε κι άλλη κατάρα δώσε,
πο 'χεις μονάκριβο αδελφό, μη λάχει και περάσει."
Κι αυτή το λόγον άλλαζε κι άλλη κατάρα δίνει:
"Αν τρέμουν τ' άγρια βουνά, να τρέμει το γιοφύρι,
κι αν πέφτουν τ' άγρια πουλιά, να πέφτουν οι διαβάτες,
τί έχω αδελφό στην ξενιτιά, μη λάχει και περάσει.

inviata da Riccardo Venturi - Ελληνικό Τμήμα των ΑΠΤ "Gian Piero Testa" - 30/8/2020 - 21:13



Lingua: Italiano

Traduzione italiana / Μετέφρασε στα ιταλικά / Italian translation / Traduction italienne / Italiankielinen käännös:
Riccardo Venturi, 30-8-2020 21:21

artasyof
Il ponte di Arta

Quantacinque capomastri e sessanta lavoranti
stavan fondando un ponte sopra il fiume di Arta:
Tutto il giorno lo fabbricavano, la sera poi crollava.
Si lagnano i capomastri, piangono i lavoranti :
“Povere le nostre fatiche, peccato per i nostri lavori,
lo fabbrichiamo tutto il giorno, e poi la sera crolla.”
Un uccellino venne, e si sedette al fiume,
non cantava come un uccello, e né come una rondine,
ma cantava e parlava con voce umana:
“Se non ci murate una persona, il ponte non terrà,
e non ci murate un orfano, uno straniero o un viandante,
bensí la bella moglie del capocantiere,
che arriva presto al mattino, e va via troppo tardi la sera.”
Il primo capomastro lo udì, e gli prese un terrore mortale:
prende e tramite l'usignolo manda a dire alla sua snella moglie:
“Che si vesta alla svelta, si cambi veloce e vada via presto a sera,
che vada via presto e attraversi il ponte di Arta.”
L'uccello ubbidì, e quindi andò là e disse:
“Vèstiti alla svelta, càmbiati veloce, vattene via presto a sera,
vattene presto e attraversa il ponte di Arta.”

Ecco che lei compare davanti alla strada bianca.
La vide il capocantiere, e gli si spezza il cuore.
Lei li saluta da lontano, e da vicino gli dice:
“Salve e letizia a voi, capomastri e voi lavoranti,
ma che cos'ha il capocantiere da esser tanto sconvolto?”
“Gli è caduto l'anello sotto il primo pilone,
e chi, chi ci andrà a ritrovar l'anello?”
“Mastro, non ti angustiare, ché io te lo riporto,
ci andrò io, scenderò io a ritrovar l'anello.”
Ma non discese giù, né arrivò a metà,
“Tira la catena, amore, tìrala quella catena,
ché ho cercato dappertutto, ma non ho trovato nulla.”

Uno armeggia con la cazzuola, un altro con la calce,
il capocantiere prende e butta giù un gran pietrone.
“Maledetta la nostra sorte, accidenti al nostro destino!
Eravamo tre sorelle, e tutt' e tre sventurate,
una murata sul Danubio, un'altra sull'Eufrate,
ed io, la più giovane, nel ponte di Arta.
Proprio come trema il garofano, che tremi questo ponte,
e come cadon le foglie degli alberi, cada anche chi vi passa.”

“Ragazza, cambia quel che dici, cambia la tua maledizione,
ché hai un unico fratello; bada che per caso non ci passi.”
E lei cambiò quel che diceva e la sua maledizione:
“Quando tremeranno le montagne selvagge, che tremi anche il ponte,
Quando cadranno gli uccelli selvatici, vi cadano anche i passanti,
ché ho un fratello in terra straniera, che non vi abbia a passare.”

30/8/2020 - 21:21




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