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Son quel regno isfortunato

anonimo
Lingua: Italiano



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[non ante 1503]

Poiché, come si sa, quando Maometto non va alla montagna eccetera...ora, lungi da me di paragonarmi al Profeta; però, per quanto riguarda i libri ed i modi più variopinti e peregrini ne' quali essi mi son pervenuti, si può ben dire che quand'io non vada a loro, son loro che vengono a me. A mo' d'esempio: chi avrà mai infilato nello “scambialibro” del parco di Villa Vogel , usualmente occupato da vecchi gialli Mondadori, dismessi libriccini per l'infanzia (or che l'infanzia si diletta generalmente con astrusi marchingegni che rovinano il cervello) , vecchi esemplari della “Collezione Harmony” che han fatto sospirare nonne, mamme e fanciulle e bisunti numeri dell'Urania in cui si diceva che nel 2020 saremmo andati in giro con le automobiline volanti ed avremmo colonizzato remote galassie, un esemplare (in condizioni perfette e rilegato) de La poesia popolare italiana, studj [sic] di Alessandro D'Ancona, edizione del 1906 stampata in Livorno presso Raffaello Giusti, librajo-tipografo? All'improvviso mi son trovato davanti, e proprio mentre passavo curiosando -come sempre con aria svagata e pensierosa assai, il libro con gli studj che, tra le altre cose, fu oggetto di scambi e fitta corrispondenza tra il D'Ancona stesso e Francis James Child poiché esso contiene, tra le tante e tante cose, il testo più completo del Testamento dell'avvelenato (di provenienza comasca), la ballata pan-italiana che ha tutti quei popo' di punti di contatto con il Lord Randal (Child #12) scozzese e che, in ultimissima analisi, è arrivato fino a tale Roberto Dylan -insigne letterato americano che mi dicono appartenere anch'egli alla Legge Mosaica, al pari del D'Ancona.

Insomma, così senza colpo ferire, quel libro, che avrò nominato e citato millanta volte nelle mie avventure con le Child Ballads, ma senza averlo neppur mai visto una volta che sia una, mi è capitato così tra le mani, un pomeriggio d'estate in un parco pubblico, assieme a due o tre vecchissimi albi di Topolino del 1965/66 (mi son preso anche quelli, va da sé). E sono ancora qui a chiedermi chi mai si sarà voluto disfare di quel libro di centoquattordici anni fa, e quali strade abbia percorso fino ad approdare ai miei lidi. Messaggi in qualche bottiglia? Chissà. Fatto sta che, ora, ce lo ho qui davanti a me, 566 pagine, ben rilegato, robustissimo e pesante come un macigno nonostante non sia di grande formato. Carta di prima qualità, assolutamente intatta; e un'autentica miniera che mi sta facendo sobbalzare a ogni pagina.

A pagina 72 del volume, ad esempio, il grande studioso israelita, con il quale devo avere avuto misteriosi legami fin dalla nascita (una via Alessandro D'Ancona si trovava a pochi metri da dove sono nato, e vi abitavano pure degli zii paterni con relative cugine), riporta una composizione popolare che ritiene ”appartenente al 1503, quando il misero regno napoletano era conteso fra Spagnuoli e Francesi”, assieme ad altre poesie e canzoni che riportano alle guerre cinquecentesche sul suolo italiano. Mi son detto che sarebbe abbisognato pur cominciar da qualche parte ad iscavare in quella miniera (da spugna linguistica naturale quale sono, sto incominciando a scrivere e a periodare esattamente come il D'Ancona), ed ecco quindi quell'antico componimento de' primi del Sedicesimo secolo. Secondo una nota del D'Ancona stesso, lo ”fece stampare Francesco di Iacopo della Spera” in un opuscolo che si trova (o si trovava nel 1906) presso la biblioteca Trivulziana di Milano (nota 1 a pagina 73). Poiché nil intemptatum relinquere &c., avvalendomi degli ordierni artifizj son però riuscito a sapere, da una scheda dell'Istituto Centrale per il Catalogo Unico (ICCU), che del componimento, risalente a non prima del 1503, esiste anche una copia stampata a Firenze da Bartolomeo de' Libri (con quel nome lì, mi domando quale altro mestiere volesse e dovesse fare), la qual trovasi presso la Biblioteca Nazionale Centrale. Si trova inoltre nella Gran Rete de' Pescatori un'intera copia trascritta ed archiviata del volume del D'Ancona, contenente il testo che qui si va a riprodurre essendo idoneo alquanto a comparire in questa raccolta; ma si tratta addirittura dell'edizione precedente, dell'anno 1878, stampata sempre in Livorno, ma “coi tipi di Franc. Vigo Editore”. Disgrazia però vuole che tali copie trascritte ed archiviate con que' moderni artifizj della malora le sìeno di costume, ahimè, un tal cimitero di inesattezze e di refusi che farebbe impallidire anche il Père Lachaise parigino o l'avito e diruto cimitero ebraico della vecchia ed infernale città di Praga percorsa dal Golem. Procedo quindi ad una trascrizione del testo cinquecentesco direttamente dai tipi novecenteschi del D'Ancona. [RV]
Son quel Regno isfortunato
Pien di pianto, danni e guerra :
Francia e Spagna in mare e in terra
M'hanno tutto disolato :
Son quel Regno isfortunato.

Prosperai in sommo bene,
Vissi un tempo in santa pace :
Poi cascai in foco e in pene,
Tra le reti, lacci e face. [1]

El magnanimo Ferrando
Del gran sangue di Ragona, [2]
Ebbe Italia al suo comando,
Tremar fece ogni persona :
Poi che morse [3] sua persona
Persi il ramo de l'oliva :
Or più pace non si scriva
Per me tristo disgraziato ;
Son quel Regno isfortunato.

Gli è dieci anni che son gramo,
Che mai pace a me si piega :
Taccherommi [4] a qualche ramo,
Come quello el qual s'annega ;
Se non veggo pace o tregua,
Chiamerò in mare e in terra
El gran Turco con sua guerra,
Come Regno disperato :
Son quel Regno isfortunato.
[1] torce ardenti
[2] Aragona
[3] morì
[4] mi attaccherò, mi appenderò

inviata da Riccardo Venturi - 9/8/2020 - 13:42




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