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Sabra and Shatila

Legend
Lingua: Inglese

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[1982]
Sabra and Shatila

Lyrics and music/ Testo e musica / النص والموسيقى / Paroles et musique / טקסט ומוזיקה / Sanat ja sävel :
Legend (of Jersey)
Performed by / Interpreti / مطرب / Interprétée par / זמרן / Laulavat :
Legend
Album / الألبوم/ אלבום :
1. [1982] EP Frontline 2. [1998] ''Retroshock 1981-1984'' 3. [2002] Anthology

Azzawi Sabra and Shatila Massacre


Di canzoni su Sabra and Shatila ce ne sono ben poche se si tengono in considerazione le proporzioni dell’eccidio, le conseguenze, le implicazioni. Una rimozione ? Sarebbe segno che le responsabilità vanno al di là degli autori materiali , dei fiancheggiatori e della cabina di regia. Il brano ce lo dice con poche parole.
E’ una canzone messa da parte, avrebbe meritato più attenzione. Forse la band che la lanciò, la Legend (di Jersey, diversa dall’omonima del Kent) non raccolse molte simpatie in quanto “metallara”. E’ stata più riservata di altre band anche per la provenienza insulare e non si è preoccupata di correre dietro alle mode e fare cassa. Nella musica, nella voce, nel ritmo dei bassi e della batteria, i suoni si fanno lamento e invocazione di dolore anche per le nostre contraddizioni. Il genere è il NWOBHM (New Wave of British Heavy Metal) , in voga dagli anni ’80.
La canzone fu lanciata con un cd nell’82. Fu riproposta sia nel ’98 sia nel 2002 nell’album Anthology, traccia #11
La formazione della band all’epoca dei fatti era la seguente: Peter Haworth alla chitarra, Neil Haworth al basso, David Whitley alla batteria e Mike Lezala cantante.

Sabra and Shatila Map



ALLE VITTIME DI SABRA E SHATILA
15-18 Settembre 1982, 33°51′46″N 35°29′54″E , 800÷3000 vittime

Non-giorni, Non-luoghi, Non-persone

"Furono le mosche a farcelo capire...". Inizia così la descrizione di Robert Fisk , autorevole reporter che all'epoca dei fatti era corrispondente dal Medioriente per il Times. Fu tra i primi ad entrare nei campi libanesi di Sabra e Shatila per dare conto del massacro dei rifugiati Palestinesi che ebbe luogo dalle 18 di giovedì 16 alle 13 di sabato 18 Settembre 1982. Una mattanza pianificata, protratta giorno e notte per 43 ore. La stragrande maggioranza delle vittime furono civili inermi, donne, bambini, neonati, anziani, giovani, e persino le bestie, trucidati in modo efferato dopo avere subito stupri, torture e mutilazioni. Massacrarono in silenzio, per lo più con i coltelli, in modo che la prossima vittima non venisse a conoscenza della sorte della precedente.
L’esercito israeliano che presidiava gli ingressi di Sabra e Shatila impedì a chiunque , stampa internazionale, Croce Rossa internazionale e Mezza Luna Rossa libanese , di entrare. Le vittime secondo fonti militari israeliane furono tra 700 e 800. Invece secondo gli accertamenti basati su 17 liste di atti ufficiali e sull’incrocio dei dati la cifra è di 1.390. Seguendo criteri basati su modelli analitici e statistiche basate sui riscontri da fosse, cimiteri e quant’altro la stima su cui convergono tali modelli di diversa impostazione è intorno a 3.000. La discrepanza tra le stime è correlata alla classificazione dei dispersi. Un resoconto molto dettagliato degli avvenimenti e ampiamente documentato, dopo anni di indagini, che riporta liste di nomi , statistiche, criteri di accertamento, testimonianze dirette e foto è quello della ricercatrice libanese Bayan Nuwayhed al-Hout “Sabra and Shatila” .

Gli esecutori materiali furono le milizie cristiano-falangiste (Kataeb) guidate da Elie Hobeika con la copertura totale delle forze israeliane, ad esse alleate, comandate sul posto dal Ministro della Difesa in persona , il generale Ariel Sharon. Fu impiegata la 96^ Divisione (oggi 98^ Paracadutisti ), comandata dal generale Amos Yaron. Gli israeliani indicarono ai falangisti quando entrare nei campi e quando ritirarsi, illuminarono di notte i campi con i bengala ; Sharon e i suoi ufficiali seguirono (o diressero ?) le azioni dei carnefici dalla terrazza di un edificio di sei piani, a 200 m dal lato SO di Shatila (vedi mappa). Tutte le comunicazioni da e per i campi furono intercettate dagli israeliani nel quartier generale della 96^ Divisione , in cui i falangisti avevano il loro ufficio di collegamento.

Gli uni agirono all'insegna del Nuovo Testamento, gli altri in nome del Vecchio. Il messaggio biblico, l'annuncio evangelico, le visioni messianiche dei Profeti, il Deuteronomio furono profanati e oscurati, stravolti e trasformati in un feticcio identitario da idolatrare, sanguinario e implacabile, volto ad eleggere la morte sopra la vita. Ricorreva peraltro in quei giorni Rosh Hashanah , la solennità ebraica di capodanno che apre un periodo di dieci giorni penitenziali a monte dello Yom Kippur. A Rosh Hashanah il suono dello Shofar sollecita la rinascita spirituale ed il ritorno verso la giustizia attraverso la teshuvà [pentimento] ; la preghiera è ispirata a Michea 7,19 :

ישוב ירחמנו יכבש עונתינו
תשליך במצלות ים כל־חטאותם׃

“Avrà di nuovo pietà di noi, calpesterà le nostre iniquità.
Tu getterai i nostri peccati nelle profondità del mare.”


Non si sa in quali abissi gli uni violentarono Cristo, non si sa come continuarono ad invocare la Madonna di Jounieh dopo averne violato l'immagine nelle donne inermi dei campi, non si sa come poterono alzare lo sguardo al cospetto delle loro mogli, figlie e sorelle. Gli altri fecero di Yahweh un mercante di morte, abbandonarono l’Alleanza per un nuovo e più insidioso vitello d’oro. Perseguitati , braccati e sterminati sino a pochi decenni addietro, aiutarono, pianificarono ed assistettero al massacro ; non si sa come fecero a rimuovere, prima, durante e anche dopo l’eccidio, la memoria della Shoah e delle atrocità nei campi di sterminio nazisti e nei ghetti.

L' Assemblea dell' Onu nella 108^ seduta plenaria del 16/12/1982 stabilì con la risoluzione A/RES/37/123 D che il massacro fu un atto di genocidio ("Resolves that the massacre was an act of genocide”). La risoluzione fu approvata con 123 voti favorevoli e 22 astenuti, tra gli astenuti Israele e l’Italia. La Risoluzione integrale , l'esito della votazione e il verbale integrale della 108^ sessione si possono consultare e scaricare qui : General Assembly-- Thirty-Seventh Session Resolution 37/123 D English pdf sh.38, The situation in the Middle East : resolution / adopted by the General Assembly , General Assembly, 37th session

Per accertare le responsabilità furono istituite due commissioni: la MacBride dall'Onu e la Kahan dal governo israeliano, istituita anche a seguito di massicce manifestazioni di protesta in Israele. Tra forti ostacoli e contestazioni, diede atto delle responsabilità dei vertici israeliani soltanto in termini di "negligenze" a livello individuale , escludendo le complicità . Di fatto nessuno degli esecutori né dei responsabili indiretti fu condannato penalmente né in Libano né in Israele. Nel 2002 Elie Hobeika si dichiarò pronto a deporre in Belgio contro Sharon come criminale di guerra, ma fu ucciso poco dopo da un’auto-bomba. I killer sono rimasti ignoti. Una sorte analoga toccò ad altri due falangisti pentiti.
Il rapporto della commissione Kahan consta di un testo, un’Appendice A pubblicabile ed un’appendice B tuttora secretata per “motivi di sicurezza”. Il rapporto è qui.

Appena un anno fa, grazie al prof. William Quandt ed alle ricerche del dr Seth Anziska si sono potuti conoscere alcuni stralci dell’appendice B. Contengono la prova delle intese tra israeliani e falangisti per “ripulire la città dai terroristi” come parte di un’agenda più ampia volta a cambiare la demografia del Libano. Insomma , nella lettura più blanda, i vertici israeliani sapevano da tempo delle intenzioni dei falangisti. Questa fonte di conoscenza storica è qui: Sabra and Shatila: New Revelations. L’articolo contiene anche una foto che mostra dei falangisti che vale la pena vedere.

Circa le responsabilità dirette e volontarie del governo israeliano nel massacro non ci sono ancora prove legali incontrovertibili. Il “non potevano non sapere” può non essere sufficiente per attribuire responsabilità senza il beneficio del dubbio, ma il giudizio storico non di parte si può dare. Citiamo a margine altre prove consolidate: l’addestramento di falangisti in Israele, le riunioni in Israele tra il capo dell’intelligence militare israeliana Yehoshua Saguy e dirigenti della Falange, i silenzi del direttore dei Servizi israeliani, Nahum Admoni, pienamente al corrente dei piani dei falangisti (anche se il Mossad fu molto meno oltranzista dell’intelligence militare), l’incontro, rimasto a lungo segreto, nel ranch di Sharon, a Havat Shikmim nel Negev, tra i vertici militari israeliani e Bachir Gemayel durante l’occupazione di Beirut.
Il libro citato dà conto anche di gravi contraddizioni e lacune che emergono dal rapporto Kahan.

La narrazione di Fisk in “Pity the Nation”, ormai entrato a far parte della letteratura mondiale, è una testimonianza diretta particolarmente significativa ed una fonte storica. Se ne riporta uno stralcio del cap.11.

[Riccardo Gullotta]



Robert Fisk da “Pity the Nation” cap.11
Il massacro dei Palestinesi nei campi di Sabra e Chatila 16-18 Settembre 1982

Sabra Shatila


Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti. Se stavamo fermi a scrivere, si insediavano come un esercito – a legioni – sulla superficie bianca dei nostri taccuini, sulle mani, le braccia, le facce, sempre concentrandosi intorno agli occhi e alla bocca, spostandosi da un corpo all’altro, dai molti morti ai pochi vivi, da cadavere a giornalista, con i corpicini verdi, palpitanti di eccitazione quando trovavano carne fresca sulla quale fermarsi a banchettare.
Se non ci muovevamo abbastanza velocemente, ci pungevano. Perlopiù giravano intorno alle nostre teste in una nuvola grigia, in attesa che assumessimo la generosa immobilità dei morti. Erano servizievoli quelle mosche, costituivano il nostro unico legame fisico con le vittime che ci erano intorno, ricordandoci che c’è vita anche nella morte. Qualcuno ne trae profitto. Le mosche sono imparziali. Per loro non aveva nessuna importanza che quei corpi fossero stati vittime di uno sterminio di massa. Le mosche si sarebbero comportate nello stesso modo con un qualsiasi cadavere non sepolto. Senza dubbio, doveva essere stato così anche nei caldi pomeriggi durante la Peste nera.
All’inizio non usammo la parola massacro. Parlammo molto poco perché le mosche si avventavano infallibilmente sulle nostre bocche. Per questo motivo ci tenevamo sopra un fazzoletto, poi ci coprimmo anche il naso perché le mosche si spostavano su tutta la faccia. Se a Sidone l’odore dei cadaveri era stato nauseante, il fetore di Shatila ci faceva vomitare. Lo sentivamo anche attraverso i fazzoletti più spessi. Dopo qualche minuto, anche noi cominciammo a puzzare di morto.

Erano dappertutto, nelle strade, nei vicoli, nei cortili e nelle stanze distrutte, sotto i mattoni crollati e sui cumuli di spazzatura. Gli assassini – i miliziani cristiani che Israele aveva lasciato entrare nei campi per «spazzare via i terroristi» – se n’erano appena andati. In alcuni casi il sangue a terra era ancora fresco. Dopo aver visto un centinaio di morti, smettemmo di contarli. In ogni vicolo c’erano cadaveri – donne, giovani, nonni e neonati – stesi uno accanto all’altro, in quantità assurda e terribile, dove erano stati accoltellati o uccisi con i mitra. In ogni corridoio tra le macerie trovavamo nuovi cadaveri. I pazienti di un ospedale palestinese erano scomparsi dopo che i miliziani avevano ordinato ai medici di andarsene. Dappertutto, trovavamo i segni di fosse comuni scavate in fretta. Probabilmente erano state massacrate mille persone; e poi forse altre cinquecento.
Mentre eravamo lì, davanti alle prove di quella barbarie, vedevamo gli israeliani che ci osservavano. Dalla cima di un grattacielo a ovest – il secondo palazzo del viale Camille Chamoun – li vedevamo che ci scrutavano con i loro binocoli da campo, spostandoli a destra e a sinistra sulle strade coperte di cadaveri, con le lenti che a volte brillavano al sole, mentre il loro sguardo si muoveva attraverso il campo. Loren Jenkins continuava a imprecare. Pensai che fosse il suo modo di controllare la nausea provocata da quel terribile fetore. Avevamo tutti voglia di vomitare. Stavamo respirando morte, inalando la putredine dei cadaveri ormai gonfi che ci circondavano. Jenkins capì subito che il ministro della Difesa israeliano avrebbe dovuto assumersi una parte della responsabilità di quell’orrore. «Sharon!» gridò. «Quello stronzo di Sharon! Questa è un’altra Deir Yassin.»
Sabra Shatila
Quello che trovammo nel campo palestinese di Shatila alle dieci di mattina del 18 settembre 1982 non era indescrivibile, ma sarebbe stato più facile da raccontare nella fredda prosa scientifica di un esame medico. C’erano già stati massacri in Libano, ma raramente di quelle proporzioni e mai sotto gli occhi di un esercito regolare e presumibilmente disciplinato. Nell’odio e nel panico della battaglia, in quel paese erano state uccise decine di migliaia di persone. Ma quei civili, a centinaia, erano tutti disarmati. Era stato uno sterminio di massa, un’atrocità, un episodio – con quanta facilità usavamo la parola «episodio» in Libano – che andava ben oltre quella che in altre circostanze gli israeliani avrebbero definito una strage terroristica. Era stato un crimine di guerra.
Jenkins, Tveit e io eravamo talmente sopraffatti da ciò che avevamo trovato a Shatila che all’inizio non riuscivamo neanche a renderci conto di quanto fossimo sconvolti. Bill Foley dell’Ap era venuto con noi. Mentre giravamo per le strade, l’unica cosa che riusciva a dire era «Cristo santo!». Avremmo potuto accettare di trovare le tracce di qualche omicidio, una dozzina di persone uccise nel fervore della battaglia; ma nelle case c’erano donne stese con le gonne sollevate fino alla vita e le gambe aperte, bambini con la gola squarciata, file di ragazzi ai quali avevano sparato alle spalle dopo averli allineati lungo un muro. C’erano neonati – tutti anneriti perché erano stati uccisi più di ventiquattro ore prima e i loro corpicini erano già in stato di decomposizione – gettati sui cumuli di rifiuti accanto alle scatolette delle razioni dell’esercito americano, alle attrezzature mediche israeliane e alle bottiglie di whisky vuote.

Dov’erano gli assassini? O per usare il linguaggio degli israeliani, dov’erano i «terroristi»? Mentre andavamo a Shatila avevamo visto gli israeliani in cima ai palazzi del viale Camille Chamoun, ma non avevano cercato di fermarci. In effetti, eravamo andati prima al campo di Burj al-Barajne perché qualcuno ci aveva detto che c’era stato un massacro. Tutto quello che avevamo visto era un soldato libanese che inseguiva un ladro d’auto in una strada. Fu solo mentre stavamo tornando indietro e passavamo davanti all’entrata di Shatila che Jenkins decise di fermare la macchina. «Non mi piace questa storia» disse. «Dove sono finiti tutti? Che cavolo è quest’odore?»
Appena superato l’ingresso sud del campo, c’erano alcune case a un piano circondate da muri di cemento. Avevo fatto tante interviste in quelle casupole alla fine degli anni settanta. Quando varcammo la fangosa entrata di Shatila vedemmo che tutte quelle costruzioni erano state fatte saltare in aria con la dinamite. C’erano bossoli sparsi a terra sulla strada principale. Vidi diversi candelotti di traccianti israeliani, ancora attaccati ai loro minuscoli paracadute. Nugoli di mosche aleggiavano tra le macerie, branchi di predoni che avevano annusato la vittoria.
In fondo a un vicolo sulla nostra destra, a non più di cinquanta metri dall’entrata, trovammo un cumulo di cadaveri. Erano più di una dozzina, giovani con le braccia e le gambe aggrovigliate nell’agonia della morte. A tutti avevano sparato a bruciapelo, alla guancia: la pallottola aveva portato via una striscia di carne fino all’orecchio ed era poi entrata nel cervello. Alcuni avevano cicatrici nere o rosso vivo sul lato sinistro del collo. Uno era stato castrato, i pantaloni erano strappati sul davanti e un esercito di mosche banchettava sul suo intestino dilaniato.
Avevano tutti gli occhi aperti. Il più giovane avrà avuto dodici o tredici anni. Portavano jeans e camicie colorate, assurdamente aderenti ai corpi che avevano cominciato a gonfiarsi per il caldo. Non erano stati derubati. Su un polso annerito, un orologio svizzero segnava l’ora esatta e la lancetta dei minuti girava ancora, consumando inutilmente le ultime energie rimaste sul corpo defunto.
Dall’altro lato della strada principale, risalendo un sentiero coperto di macerie, trovammo i corpi di cinque donne e parecchi bambini. Le donne erano tutte di mezza età ed erano state gettate su un cumulo di rifiuti. Una era distesa sulla schiena, con il vestito strappato e la testa di una bambina che spuntava sotto il suo corpo. La bambina aveva i capelli corti, neri e ricci, dal viso corrucciato i suoi occhi ci fissavano. Era morta.
Un’altra bambina era stesa sulla strada come una bambola gettata via, con il vestitino bianco macchiato di fango e polvere. Non avrà avuto più di tre anni. La parte posteriore della testa era stata portata via dalla pallottola che le avevano sparato al cervello. Una delle donne stringeva a sé un minuscolo neonato. La pallottola attraversandone il petto aveva ucciso anche il bambino. Qualcuno le aveva squarciato la pancia in lungo e in largo, forse per uccidere un altro bambino non ancora nato. Aveva gli occhi spalancati, il volto scuro pietrificato dall’orrore.
Tveit cercò di registrare tutto su una cassetta, parlando lentamente in norvegese e in tono impassibile. «Ho trovato altri corpi, quelli di una donna con il suo bambino. Sono morti. Ci sono altre tre donne. Sono morte…»
Di tanto in tanto, premeva il bottone della pausa e si piegava per vomitare nel fango della strada. Mentre esploravamo un vicolo, Foley, Jenkins e io sentimmo il rumore di un cingolato. «Sono ancora qui» disse Jenkins e mi fissò. Erano ancora lì. Gli assassini erano ancora nel campo. La prima preoccupazione di Foley fu che i miliziani cristiani potessero portargli via il rullino, l’unica prova – per quanto ne sapesse – di quello che era successo. Cominciò a correre lungo il vicolo.
Io e Jenkins avevamo paure più sinistre. Se gli assassini erano ancora nel campo, avrebbero voluto eliminare i testimoni piuttosto che le prove fotografiche. Vedemmo una porta di metallo marrone socchiusa; l’aprimmo e ci precipitammo nel cortile, chiudendola subito dietro di noi. Sentimmo il veicolo che si addentrava nella strada accanto, con i cingoli che sferragliavano sul cemento. Jenkins e io ci guardammo spaventati e poi capimmo che non eravamo soli. Sentimmo la presenza di un altro essere umano. Era lì vicino a noi, una bella ragazza distesa sulla schiena.
Era sdraiata lì come se stesse prendendo il sole, il sangue ancora umido le scendeva lungo la schiena. Gli assassini se n’erano appena andati. E lei era lì, con i piedi uniti, le braccia spalancate, come se avesse visto il suo salvatore. Il viso era sereno, gli occhi chiusi, era una bella donna, e intorno alla sua testa c’era una strana aureola: sopra di lei passava un filo per stendere la biancheria e pantaloni da bambino e calzini erano appesi. Altri indumenti giacevano sparsi a terra. Quando gli assassini avevano fatto irruzione, probabilmente stava ancora stendendo il bucato della sua famiglia. E quando era caduta, le mollette che teneva in mano erano finite a terra formando un piccolo cerchio di legno attorno al suo capo.
Solo il minuscolo foro che aveva sul seno e la macchia che si stava man mano allargando indicavano che fosse morta. Perfino le mosche non l’avevano ancora trovata. Pensai che Jenkins stesse pregando, ma imprecava di nuovo e borbottava «Dio santo», tra una bestemmia e l’altra. Provai tanta pena per quella donna. Forse era più facile provare pietà per una persona giovane, così innocente, una persona il cui corpo non aveva ancora cominciato a marcire. Continuavo a guardare il suo volto, il modo ordinato in cui giaceva sotto il filo da bucato, quasi aspettandomi che aprisse gli occhi da un momento all’altro….

….Sentivo le voci di Jenkins e Tveit a un centinaio di metri di distanza, dall’altra parte di una barricata coperta di terra e sabbia che era stata appena eretta da un bulldozer. Sarà stata alta più di tre metri e mi arrampicai con difficoltà su uno dei lati, con i piedi che scivolavano nel fango. Quando ormai ero arrivato quasi in cima persi l’equilibrio e per non cadere mi aggrappai a una pietra rosso scuro che sbucava dal terreno. Ma non era una pietra. Era viscida e calda e mi rimase appiccicata alla mano. Quando abbassai gli occhi vidi che mi ero attaccato a un gomito che sporgeva dalla terra, un triangolo di carne e ossa.
Sabra Shatila
Lo lasciai subito andare, inorridito, pulendomi i resti di carne morta sui pantaloni, e finii di salire in cima alla barricata barcollando. Ma l’odore era terrificante e ai miei piedi c’era un volto al quale mancava metà bocca, che mi fissava. Una pallottola o un coltello gliel’avevano portata via, quello che restava era un nido di mosche. Cercai di non guardarlo. In lontananza, vedevo Jenkins e Tveit in piedi accanto ad altri cadaveri davanti a un muro, ma non potevo chiedere aiuto perché sapevo che se avessi aperto la bocca per gridare avrei vomitato.
Salii in cima alla barricata cercando disperatamente un punto che mi consentisse di saltare dall’altra parte. Ma non appena facevo un passo, la terra mi franava sotto i piedi. L’intero cumulo di fango si muoveva e tremava sotto il mio peso come se fosse elastico e, quando guardai giù di nuovo, vidi che solo uno strato sottile di sabbia copriva altre membra e altri volti. Mi accorsi che una grossa pietra era in realtà uno stomaco. Vidi la testa di un uomo, il seno nudo di una donna, il piede di un bambino. Stavo camminando su decine di cadaveri che si muovevano sotto i miei piedi.
I corpi erano stati sepolti da qualcuno in preda al panico. Erano stati spostati con un bulldozer al lato della strada. Anzi, quando sollevai lo sguardo vidi il bulldozer – con il posto di guida vuoto – parcheggiato con aria colpevole in fondo alla strada.
Mi sforzavo invano di non camminare sulle facce che erano sotto di me. Provavamo tutti un profondo rispetto per i morti, perfino lì e in quel momento. Continuavo a dirmi che quei cadaveri mostruosi non erano miei nemici, quei morti avrebbero approvato il fatto che fossi lì, avrebbero voluto che io, Jenkins e Tveit vedessimo tutto questo, e quindi non dovevo avere paura di loro. Ma non avevo mai visto tanti cadaveri in tutta la mia vita.
Saltai giù e corsi verso Jenkins e Tveit. Suppongo che stessi piagnucolando come uno scemo perché Jenkins si girò. Sorpreso. Ma appena aprii la bocca per parlare, entrarono le mosche. Le sputai fuori. Tveit vomitava. Stava guardando quelli che sembravano sacchi davanti a un basso muro di pietra. Erano tutti allineati, giovani uomini e ragazzi, stesi a faccia in giù. Gli avevano sparato alla schiena mentre erano appoggiati al muro e giacevano lì dov’erano caduti, una scena patetica e terribile….
….Mentre eravamo lì sentimmo un uomo gridare in arabo dall’altra parte delle macerie: «Stanno tornando». Così corremmo spaventati verso la strada. A ripensarci, probabilmente era la rabbia che ci impediva di andarcene, perché ci fermammo all’ingresso del campo per guardare in faccia alcuni responsabili di quello che era successo. Dovevano essere arrivati lì con il permesso degli israeliani. Dovevano essere stati armati da loro. Chiaramente quel lavoro era stato controllato – osservato attentamente – dagli israeliani, dagli stessi soldati che guardavano noi con i binocoli da campo.
Sentimmo un altro mezzo corazzato sferragliare dietro un muro a ovest – forse erano falangisti, forse israeliani – ma non apparve nessuno. Così proseguimmo. Era sempre la stessa scena. Nelle casupole di Shatila, quando i miliziani erano entrati dalla porta, le famiglie si erano rifugiate nelle camere da letto ed erano ancora tutti lì, accasciati sui materassi, spinti sotto le sedie, scaraventati sulle pentole. Molte donne erano state violentate, i loro vestiti giacevano sul pavimento, i corpi nudi gettati su quelli dei loro mariti o fratelli, adesso tutti neri di morte.
C’era un altro vicolo in fondo al campo dove un bulldozer aveva lasciato le sue tracce sul fango. Seguimmo quelle orme fino a quando non arrivammo a un centinaio di metri quadrati di terra appena arata. Sul terreno c’era un tappeto di mosche e anche lì si sentiva il solito, leggero, terribile odore dolciastro. Vedendo quel posto, sospettammo tutti di che cosa si trattasse, una fossa comune scavata in fretta. Notammo che le nostre scarpe cominciavano ad affondare nel terreno, che sembrava liquido, quasi acquoso e tornammo indietro verso il sentiero tracciato dal bulldozer, terrorizzati….
….Camminammo in lungo e in largo per il campo, trovando ogni volta altri cadaveri, gettati nei fossi, appoggiati ai muri, allineati e uccisi a colpi di mitra. Cominciammo a riconoscere i corpi che avevamo già visto. Laggiù c’era la donna con la bambina in braccio, ecco di nuovo il signor Nuri, disteso sulla spazzatura al lato della strada. A un certo punto, guardai con attenzione la donna con la bambina perché mi sembrava quasi che si fosse mossa, che avesse assunto una posizione diversa. I morti cominciavano a diventare reali ai nostri occhi.

[Traduzione di Riccardo Gullotta]
Discolored in envy that melts in the dust, preparing the graves for the meek
Groups into groups stacked high in the street, forever the problem will sleep
Sabra and Shatila.
Victims of vengeance, reprisals so quick, bystanders calm in their wait
The costumes of Hades that empty the void, the mutters of protest too late
Sabra and Shatila.
Slowly the days erode all the shock, memories so slow to recall
The people are butchered we all stand and watch, delusions of God for us all
Sabra and Shatila

inviata da Riccardo Gullotta - 13/9/2019 - 22:35




Lingua: Italiano

Italian translation / Traduzione italiana/ / الترجمة الإيطالية / Traduction italienne / תרגום לאיטלקית/ Italiankielinen käännös:
Riccardo Gullotta
SABRA E SHATILA

Lividi d'invidia smorzata nella polvere, mentre preparano le tombe per i mansueti
ammucchiati a gruppi nell strada, il dilemma sarà lettera morta per sempre
Sabra e Shatila.
Vittime della vendetta, rappresaglie davvero rapide, astanti rassegnati nell'attesa
Controfigure di Ade che svuotano il vuoto, brusii di protesta fuori tempo
Sabra e Shatila.
A poco a poco i giorni consumano tutto lo shock, la memoria dei ricordi gira al rallentatore
Le persone vengono massacrate, noi tutti stiamo in piedi e guardiamo, Dio è deluso di noi tutti
Sabra e Shatila

inviata da Riccardo Gullotta - 13/9/2019 - 22:38




Lingua: Francese

Traduction française / Traduzione francese / الترجمة الفرنسية / French translation / תרגום לצרפתית / Ranskankielinen käännös:
Riccardo Gullotta
SABRA ET SHATILA

Pâlis d’envie qui s’écoule dans la poussière, faisant les tombes pour les doux
empilés haut en groupes dans la rue, le problème va se plonger dans le sommeil éternel
Sabra et Shatila.
Victimes de vengeance, représailles si rapides, spectateurs calmes dans l'attente
Les reflets d'Hadès qui vident le vide, les murmures de protestation hors du temps
Sabra et Shatila.
Lentement les jours rongent tout le choc, la mémoire ralentit ses souvenirs
Les gens sont massacrés, nous nous tenons tous debout et regardons, Dieu est déçu de nous tous
Sabra et Chatila

inviata da Riccardo Gullotta - 13/9/2019 - 22:40




Lingua: Siciliano

Virsioni siciliana / Versione siciliana / نسخة صقلية / Sicilian version / Version sicilienne / גרסה סיציליאנית / Sisiliankielinen versio:
Riccardo Gullotta / ريكاردو جولوتا / ריקרדו גולוטה
SABRA E SCIATILA

Giarnazzi di miria ca s’ammisca cu lu sterru, appruntanu li balati pi li manzi
Accatastati a munzeḍḍa 'nte la strata, lu fastidiu si liva d’intornu ppi sempri
Ahi...Sabra e Sciatila…

Vittimi di la minnitta , ritursioni lesti, astanti sorisori 'nte ḍḍa longa curdeḍḍa
Pupi di lu 'nfernu nivuru c’arricampanu lu nenti, runguli di lamentu tardivu
Ahi...Sabra e Sciatila…

Legiuleggiu li jorna 'ncirunu u ziḍḍu, li riorduti si fanu luntani luntani
Scannanu li genti e niatri stamu aḍḍitta e taliamu, lu Signuri je scunsulatu di niatri tutti
Ahi...Sabra e Sciatila…

inviata da Riccardo Gullotta - 14/9/2019 - 15:57




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