Due cani corrono insieme
le loro teste sono legate
Due cani corrono insieme
le loro teste sono legate
da un Dio bambino
è un gioco crudele
Due cani corrono insieme
le loro teste legate latrano
Due cani corrono insieme
le loro teste legate cantano
a un Dio bambino
al suo gioco crudele
Due cani corrono insieme
la loro bocca schizza il veleno
Due cani corrono insieme
la loro bocca schizza il veleno
del Dio bambino
del suo gioco crudele
Due cani corrono insieme
la febbre arde mi brucia i capelli
Due cani corrono insieme
la febbre arde mi brucia i capelli
il Dio bambino
gioca sempre crudele
Due cani corrono insieme
Cosa ho mangiato? Menzogne e sorrisi
Due cani corrono insieme
Cosa ho mangiato? Calci e sorrisi
Del dio bambino
Del suo gioco crudele
Due cani corrono insieme,
e la bambina ha la testa nel pozzo
Due cani corrono insieme,
e la bambina ha la testa nel pozzo
il Dio bambino
gioca solo crudele
le loro teste sono legate
Due cani corrono insieme
le loro teste sono legate
da un Dio bambino
è un gioco crudele
Due cani corrono insieme
le loro teste legate latrano
Due cani corrono insieme
le loro teste legate cantano
a un Dio bambino
al suo gioco crudele
Due cani corrono insieme
la loro bocca schizza il veleno
Due cani corrono insieme
la loro bocca schizza il veleno
del Dio bambino
del suo gioco crudele
Due cani corrono insieme
la febbre arde mi brucia i capelli
Due cani corrono insieme
la febbre arde mi brucia i capelli
il Dio bambino
gioca sempre crudele
Due cani corrono insieme
Cosa ho mangiato? Menzogne e sorrisi
Due cani corrono insieme
Cosa ho mangiato? Calci e sorrisi
Del dio bambino
Del suo gioco crudele
Due cani corrono insieme,
e la bambina ha la testa nel pozzo
Due cani corrono insieme,
e la bambina ha la testa nel pozzo
il Dio bambino
gioca solo crudele
inviata da Dq82 - 13/9/2018 - 11:04
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Temuto come grido atteso come canto
Dopo Non al denaro non all’amore né al cielo, che la genialità di Fabrizio De André portò all’attenzione del pubblico italiano, questo lavoro si può definire, a buon titolo, l’autentica ‘Spoon River’ italiana. Si parla di morti, questo è chiaro, ma i personaggi coinvolti non sono “morti e basta”. Loro sono morti due volte: la prima volta perché malati ed internati in un manicomio; la seconda volta perché ‘gli ospiti’, i reclusi, di origine ebraica, furono deportati ed uccisi. Tutti i personaggi raccontati nell’album hanno vissuto, o meglio, abitato, nell’isoletta di San Servolo, pittoresca oasi di terra della laguna veneta. Abitavano in una struttura molto antica, adibita a monastero per circa mille anni, ma che nel 1715 venne adibita ad ospedale militare e dopo neanche dieci anni venne trasformata in ‘manicomio’. E con questa destinazione è rimasta, nonostante vari passaggi, fino al 1978 quando fu chiuso definitivamente. In questi 253 anni, in quelle mura, è l’umanità intera che vi è passata e che lì, si è frantumata. Vi abitavano perché qualcuno ve li aveva portati, con la forza, perché ritenuti “matti”, inadatti alla vita sociale, inadatti alla vita, inadatti e basta.
Michele Gazich ha vissuto sull’isola per circa un mese ed ha deciso di leggere quel luogo con gli occhi di oggi ma cercando di andare indietro nel tempo, raccogliendo le storie presenti nelle schede personali delle migliaia di persone che in quel luogo di tormento vennero recluse; cercando di leggere, in quelle carte, l’umanità dolente e sofferente che in quel luogo è transitata, ha vissuto, ha vegetato, ci ha perso la vita. Un’umanità problematica e, magari, non necessariamente malata ma solamente vittima di depressioni, di esaurimenti nervosi, di difficoltà relazionali. Malati o forse solamente ‘disturbati’, oppure semplicemente necessitanti di un piccolo aiuto che, magari, pur richiesto non gli è mai arrivato. Un aiuto che forse li avrebbe aiutati a liberarsi dalle angosce del quotidiano, o almeno a sopportarle, vivendo un’esistenza ‘normale’ (qui sotto una foto d'archivio di qualche anno fa di San Servolo).
Tante le storie raccolte, fatte di dolore e di paure, di angosce e di spaventi, di silenzi e di urla notturne, di fantasmi interiori e di speranze interrotte. Con uno sguardo Gazich, come i reclusi, poteva osservare il mare e l’anelito di libertà racchiuso nell’orizzonte tra il cielo e l’acqua. Con un altro poteva scrutare le mura scrostate e piene di quelle “ombre” che in quel luogo persero la sanità mentale, l’intelletto, l’emozione, la dignità, la vita interiore per essere, in seguito, prelevate e condotte al macello, come capri espiatori di peccati mai commessi.
Per scrivere un album come questo, non poteva essere sufficiente la lettura di uno o più libri, l’osservazione di fotografie, la memoria composta grazie a qualche lontano e consumato articolo di giornale. No, la realtà andava affrontata, guardata negli occhi, con la paura di non poterle resistere. Le foto dei pazienti lì reclusi dovevano essere osservate e penetrate con attenzione, squadrate, interiorizzate. Quegli sguardi assenti, oppure furibondi, dovevano essere portati all’interno del sé più interiore per comprendere, fino in fondo e semmai fosse possibile, come quelle vita sono state spente, lentamente, e con inquietante metodo. Insieme alla visione delle fotografie, Gazich ha letto anche miriadi di cartelle cliniche, tra cui quelle relative alle persone raccontate nelle canzoni, i cui testi sono riportati nel bel libretto che accompagna quest’opera (un plauso al bel lavoro curato da Alice Falchetti).
È evidente che Temuto come grido, atteso come canto non è un album dalle tinte morbide, dai colori pastello, dai toni colmi di tenera poesia, che comunque è presente ma non è mai tenera, anzi… No, in queste canzoni (?) c’è la presenza dell’umanità straziata e crocifissa, c’è la presenza di chi è ”disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima” (Isaia 53,3), c’è la presenza di chi, ancora oggi, prosegue nel reclamare la sua dignità di persona ma non ne possiede più i diritti; c’è l’immagine dell’uomo che viene trasfigurato nello strazio di una vita senza più speranza, senza luce, priva di orizzonti, destinata all’oblio dell’oscurità. C’è l’uomo nella sua immensità negata. C’è l’uomo deturpato ed offeso, senza più neppure la parvenza di una salvezza, seppure lontana, imminente, possibile…
Questo lavoro, lo si sarà compreso, non è certamente di semplice fattura ma intrinsecamente composto da sofferenze e disperazioni, dal male che ha pervaso ogni spazio della vita e che, dopo la sofferente reclusione, ha fatto subire a quegli uomini ed a quelle donne, colpevoli di essere figli di Abramo, la deportazione verso le camere a gas. Un evento che ha piantato, in quei poveri corpi, in quelle devastate menti, un altro chiodo, un'altra lama tagliente penetrata ad offendere il cuore. E, pare una bestemmia dirlo, forse in quel viaggio, in quell’ultimo viaggio, qualcuno di loro avrà anche pensato, forse per un istante, che l’approdo di quel treno, era la libertà. Ma così non fu.
L’album è strutturato in tre parti: un prologo, un gruppo di canzoni dedicato ad alcune persone recluse (i cui nomi sono di fantasia, ma sempre ispirati dalla storia personale di ogni paziente) e un saluto, per un totale di undici brani a comporre un mosaico di prodigiosa suggestione. Ma se ogni persona ha un senso ed un valore, ancor di più lo possiede chi ha vissuto in situazioni difficili, di tormento, di disintegrazione della propria umanità. Tutto comincia da quell’isola, San Servolo, dove il grido dei reclusi nel manicomio si perdeva verso le mura o, talvolta, verso il mare, senza che nessuno potesse ascoltarlo.
isolachenoncera
Seguendo sempre la scaletta del cd arriviamo alla quinta traccia, dove l’ispirazione di Teste legate nasce da un appunto che Michele Gazich segnò sul suo taccuino, di fronte alla lapide della poetessa statunitense Sylvia Plath, che morì suicida nel 1963 e che è sepolta nel cimitero di Heptonstall, cittadina medioevale del West Yorkshire. Della protagonista del brano non si conosce il nome ma solo il suo numero di cartella, 1943/194, la sua data e luogo di nascita (7 Ottobre del 1895, Alessandria d’Egitto). Di lei si sa anche che venne sottoposta ad intensi e prolungati elettroshock. La frase “Due cani corrono insieme” rappresenta l’immagine di una persona ferita dalla schizofrenia, che non sa più come orientarsi, come rendere reale l’osservazione distorta della mente, come poter continuare a vivere e con quale personalità. “Due cani corrono insieme, e la bambina ha la testa nel pozzo… il Dio bambino gioca solo crudele…”. Anche in questo caso Dio è rimesso in gioco, in discussione perché non fa nulla.
Le note della chitarra aprono, insieme alle note macinate dal basso elettrico, alla voce che sembra giungere da un altro mondo. La musica è tenue ma al contempo incisiva ed incandescente e non dà tregua nella scansione delle liriche, oscure, dense, inquietanti, come lo può essere la descrizione di un luogo di sventura. Su tutto aleggiano e si diffondono le note del violino, che diventano taglienti come la lama di un rasoio che penetra in carni sensibili ed ormai provate da ogni dolore.