E lucevan le stelle,
e olezzava la terra,
stridea l'uscio dell'orto
e un passo sfiorava la rena.
Entrava ella, fragrante,
mi cadea fra le braccia.
Oh! Dolci baci, o languide carezze,
mentr'io fremente
le belle forme disciogliea dai veli!
Svanì per sempre il sogno mio d'amore...
l'ora è fuggita,
e muoio disperato,
e muoio disperato!
E non ho amato mai tanto la vita!
tanto la vita.
e olezzava la terra,
stridea l'uscio dell'orto
e un passo sfiorava la rena.
Entrava ella, fragrante,
mi cadea fra le braccia.
Oh! Dolci baci, o languide carezze,
mentr'io fremente
le belle forme disciogliea dai veli!
Svanì per sempre il sogno mio d'amore...
l'ora è fuggita,
e muoio disperato,
e muoio disperato!
E non ho amato mai tanto la vita!
tanto la vita.
inviata da Riccardo Venturi - 8/1/2018 - 19:56
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Dall'opera Tosca, Atto III
Libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa
Musica di Giacomo Puccini
Dal dramma Tosca [1887] di Victorien Sardou
Prima esecuzione: Teatro Costanzi, Roma, 14 gennaio 1900
Tenore: Emilio De Marchi
Le opere liriche, non di rado, si basano su vicende nelle quali tragiche storie d'amore si intrecciano ad avvenimenti storici; tra di esse, probabilmente, la Tosca di Giacomo Puccini è tra quelle più note e pertinenti.
La Tosca pucciniana, su libretto di Giuseppe Giacosa e di Luigi Illica (piacentino di Castell'Arquato, a poca distanza da dove sto scrivendo adesso), fu rappresentata per la prima volta al Teatro Costanzi di Roma il 14 gennaio 1900. Inizialmente non fu accolta in modo troppo favorevole, ma nel giro di due o tre anni faceva già parte in pianta stabile del più importante repertorio lirico internazionale. Alla prima, si narra, accaddero episodi quantomeno curiosi; alla presenza della Regina Margherita (che di lì a poco, alla fine di luglio, sarebbe stata vedovata da un anarchico di Coiano di Prato arrivato da Paterson) e del primo ministro di allora, il super-reazionario generale Luigi Pelloux, alcuni spettatori giunsero in teatro in forte ritardo e il direttore d'orchestra, il maestro napoletano Leopoldo Mugnone (1858-1941) fu costretto a interrompere l'esecuzione e a ricominciare da capo.
Giacomo Puccini, nel 1889, aveva assistito alla rappresentazione del dramma Tosca di Victorien Sardou, al Teatro dei Filodrammatici di Milano; ne rimase assai colpito e pensò di ricavarne un'opera. Dopo alterne vicende (all'inizio, Sardou si era dimostrato restio a concedere i diritti), l'editore Ricordi commissionò la Tosca a Puccini nel 1895, dopo che Illica aveva già steso la bozza del libretto (cui partecipò anche Giuseppe Giacosa). Da notare che, secondo molti, la particolare riuscita del dramma di Sardou era dovuta alla somma bravura della grande Sarah Bernhardt; Giacosa riteneva il soggetto “poco poetico”. Nell'ottobre del 1899 l'opera era completata e debuttava, come già detto, il 14 gennaio 1900 al Teatro Costanzi di Roma con il soprano Hariclea Darclée nel ruolo di Tosca, il tenore Emilio De Marchi nel ruolo di Cavaradossi ed il baritono Eugenio Giraldoni in quello del barone Scarpia.
Rispetto al dramma originale di Victorien Sardou, il libretto di Illica e Giacosa era stato assai “snellito”; gli atti erano passati da cinque a tre, e molti particolari che riflettevano la cornice storica della vicenda erano stati eliminati, al pari di alcuni personaggi secondari (tra cui il compositore Giovanni Paisiello, che compariva in persona tra i personaggi del dramma e la cui presenza avrebbe rappresentato una sorta di “unicum” in un'opera lirica: un compositore storico come personaggio. Rimane comunque l'uguale “unicum” di Tosca, che è una cantante lirica anche nella finzione teatrale e melodrammatica).
La trama dell'opera, come tutti sanno, si svolge a Roma nell'atmosfera storicamente tesa che seguì l'eco degli avvenimenti rivoluzionari in Francia e che portò alla caduta della prima Repubblica Romana in una data ben precisa: il 14 giugno 1800, il giorno della Battaglia di Marengo che vide la grande vittoria di Napoleone sull'armata austriaca comandata dal generale Michael von Melas. La vicenda della Tosca si svolge tre giorni dopo, a Roma, il 17 giugno 1800. Il bonapartista Angelotti scappa dalla prigione di Castel Sant'Angelo e la marchesa Attavanti lo aiuta nell'evasione, travestendolo da donna. Angelotti è aiutato anche da un pittore, Mario Cavaradossi, che aveva peraltro dipinto la marchesa Attavanti. Mentre i due uomini parlano di fuga, entra Floria Tosca, cantante lirica ed amante di Cavaradossi; sarebbe quindi da notare che, sia nel dramma che nell'opera, Tosca non è il nome della protagonista, bensì il cognome. Nella prassi, però, la protagonista viene menziobata e ricordata soltanto come Tosca.
Tosca, vedendo la marchesa ritratta da Cavaradossi, ne diviene immediatamente gelosa; il capo della polizia papalina, il sadico barone siciliano Vitellio Scarpia, decide quindi di servirsi della gelosia di Tosca. Sospettando di Cavaradossi, fa credere a Tosca che l'amante si trovi con la marchesa. Tosca va a cercarlo, e Scarpia la fa seguire; Cavaradossi viene arrestato e torturato, ma quando Tosca sente le sue urla rivela lei stessa il nascondiglio di Angelotti (la basilica di Sant'Andrea della Valle). Scarpia fa uccidere immediatamente Angelotti dai suoi sgherri e condanna a morte Cavaradossi. Tosca chiede la grazia per Cavaradossi, ma Scarpia vuole che lei diventi la sua amante; Tosca finge di accettare, e Scarpia le rivela allora che la fucilazione di Cavaradossi è una finzione. Allora Tosca uccide il capo della polizia e corre da Cavaradossi che le stava scrivendo una drammatica lettera. Tosca gli dice che la sua fucilazione era una finzione, ma in realtà il pittore viene fucilato veramente e Tosca, che è inseguita dalla polizia per l'uccisione di Scarpia, si getta dal Castello.
Nella vicenda ha la sua importanza, per lo svolgersi degli avvenimenti, anche la falsa notizia che le armate austriache hanno sconfitto Napoleone a Marengo (la vicenda, come detto, si svolge tre giorni dopo); è proprio in questo frangente che entra in scena il barone Scarpia con i suoi scagnozzi. La “bufala”, così si direbbe oggi, prosegue fino all'organizzazione di una grande festa a Palazzo Farnese, alla presenza del re e della regina borbonici di Napoli; in contemporanea, Mario Cavaradossi viene sottoposto alla tortura mentre Scarpia, convocata Tosca, le fa sentire le urla strazianti dell'amato. E' allora che Tosca cede e rivela il nascondiglio del bonapartista Angelotti. Mario Cavaradossi, condotto alla presenza di Scarpia, apprende del tradimento di Tosca e si rifiuta di abbracciarla. Proprio in quel momento, arriva un messo ad annunciare che la notizia della vittoria austriaca a Marengo era falsa, e che invece è stato Napoleone a trionfare. A questo annuncio, Mario Cavaradossi inneggia ad alta voce alla vittoria, e Scarpia lo condanna immediatamente alla fucilazione e lo fa portare via. Tosca chiede a Scarpia di concedere la grazia a Mario, ma il barone acconsente solo a patto che Tosca gli si conceda. Tosca è sconvolta dalla brutalità del barone, lo implora e si rivolge a Dio con un accorato rimprovero (la romanza Vissi d'arte, vissi d'amore). E' tutto inutile: Scarpia è irremovibile e Tosca è costretta a cedere. Scarpia convoca quindi il suo scagnozzo Spoletta e, con un gesto d'intesa, fa credere a Tosca che la fucilazione sarà simulata con i fucili caricati a salve. Dopo avere redatto un salvacondotto che permetterà agli amanti di raggiungere Civitavecchia, Scarpia si avvicina a Tosca per riscuotere quanto pattuito, ma lei lo accoltella con un pugnale trovato sul tavolo. Prende quindi il salvacondotto dalle mani del cadavere di Scarpia non senza avere prima, religiosamente, posto due candelabri accanto al corpo del barone e un crocifisso sul suo petto.
E lucevan le stelle, cantata da Mario Cavaradossi in attesa di essere fucilato (realmente, perché il sadico Scarpia non aveva affatto ordinato che i fucili fossero caricati a salve), è forse la romanza più famosa dell'opera pucciniana e viene cantata da Cavaradossi all'inizio del terzo e ultimo atto. E' l'alba, e in lontananza un giovane pastore canta una malinconica canzone in romanesco; sui bastioni di Castel Sant'Angelo, Mario è oramai pronto a morire e inizia a scrivere un'ultima lettera d'amore a Tosca. Sopraffatto dai ricordi, però, non riesce a terminarla: è questa la romanza qui presente, che rappresenta il climax di tutta la vicenda. Tosca arriva inaspettatamente, spiega a Mario di essere stata costretta a uccidere Scarpia e gli mostra il salvacondotto informandolo della fucilazione simulata. Scherzando, gli raccomanda persino di fingere bene la sua morte. Mario, però, viene fucilato veramente: l'ultima mostruosità del capo della polizia. Tosca, sconvolta, è inseguita dagli sbirri che hanno trovato il cadavere di Scarpia; grida come ultima sfida: “Scarpia, avanti a Dio!” e si getta dagli spalti del Castello mentre la melodia, già udita nell'ultima parte dell'introduzione al terzo atto, torna in forma di breve perorazione orchestrale anche nelle ultime battute dell'opera, nel momento in cui Tosca si getta dalle mura.
Una vicenda di polizia assassina, di cospiratori, di amore e morte, di ricatti sessuali per avere salva la vita di una persona amata; la Tosca è fondamentalmente tutto questo. E' un'opera, al pari del dramma di Sardou, ove un reticolo fittissimo intreccia gli accadimenti storici alla finzione, e dove i personaggi (in contrasto con l'opera verista) non hanno nulla a che fare con la loro estrazione o ceto sociale, bensì con la loro natura e la loro ideologia. Lo sfondo politico e storico è fondamentale e indispensabile nell'opera puccininiana: Floria Tosca e Mario Cavaradossi incarnano gli ideali della Rivoluzione Francese, mentre l'estrema verosimiglianza della figura del barone Vitellio Scarpia affonda le sue radici nella storia universale dei regimi politici, dove non erano mai mancati, non mancavano e non sarebbero mancati in futuro uomini che si sono valsi del potere per trarne un vantaggio personale.
I personaggi principali sono inseriti all'interno di un ritratto a tutto tondo della Roma papalina ai primi dell'Ottocento, che non si limita ad essere lo sfondo per le azioni dei protagonisti, ma contribuisce a motivare le loro scelte e la loro ideologia. Nella Tosca, il “colore locale” ha un ruolo decisivo: dal libretto, Illica e Giacosa eliminarono tutti gli elementi del dramma originale che andavano contro l'unità di azione e di luogo, riducendo il tutto ai tre spazi fondamentali dove la vicenda si svolge: la chiesa di Sant'Andrea della Valle, Palazzo Farnese e la piattaforma di Castel Sant'Angelo. Una delle maggiori preoccupazioni di Puccini fu quella di riprodurre realisticamente l'atmosfera romana che tanta parte rivestiva nell'opera: s'informò su ogni dettaglio della liturgia, dai riti specificamente praticati a Roma fino al suono delle campane per il mattutino del III atto, in cui inserì un sonetto in dialetto romanesco (quello che si sente all'alba), espressamente composto dal poeta dialettale Gigi Zanazzo.
All'idea di evoluzione dinamica del dramma non sfugge neppure la definizione dell'elemento lirico. L'amore (che in Tosca involve in furiosa gelosia) non occupa un posto predominante come elemento in sé, bensì come rifugio dalle tensioni di una vita difficile e opprimente, come anelito alla felicità dei sensi da realizzarsi in luoghi lontani dal mondo, al riparo dai tentacoli secolari dalla Roma pontificia. "E muoio disperato!" è la parola scenica che rende più lancinante l'addio alla vita di Cavaradossi nel III atto. Da questa frase Puccini era partito per immaginare il pezzo, battendosi fermamente perché Illica modificasse secondo le sue intenzioni un precedente monologo filosofico che tanto era piaciuto a Verdi, grande estimatore del soggetto. Questa effimera e sensuale rievocazione di una notte d'amore è uno dei momenti più rappresentativi dell'arte moderna e decadente di Puccini: ogni eroismo le è estraneo. È atteggiamento coerente, poiché proprio l'unico personaggio autenticamente laico dell'opera non poteva richiamarsi ad altre religioni, a esaltazioni dell'arte, o a nostalgie romane, ma doveva prepararsi a morire con disperata consapevolezza, quella stessa che minava la fiducia dei contemporanei di Puccini nei confronti dei valori correnti. Questa coscienza di una morte inevitabile Cavaradossi la mantiene anche di fronte al salvacondotto sventolato da Tosca: infatti, se si accetta la logica con cui l'opera è costruita, solo un credente può prestar fede al suo confessore. A confermare la sua sfiducia viene la scena simbolo di tutta l'opera, quando Floria si lancia dal bastione del Castello e rende alla città il suo corpo, dopo aver gridato «O Scarpia, avanti a Dio!...». Solo in questo momento, dopo che il dramma politico e di bigottismo si è concluso con una sfida impossibile, la ripresa della melodia disperata dell'aria di Cavaradossi può congedare l'opera nel segno dell'amore sensuale, unico valore certo e reale.
Proprio per questi motivi, la Tosca è, tra le opere liriche tuttora più presenti nell'immaginario collettivo. Venne rappresentata in tempi in cui l'oppressione di regime era forte, e la presenza alla sua prima della regal consorte di Umberto I non può non far ripensare a Bava Beccaris e, magari, anche ad un tosco di nascita che, di lì a poco, si sarebbe occupato del “re buono” che tanto buono non era. Fa ripensare tuttora, la Tosca, alle tante “Ville Tristi”, alle polizie, agli sbirri, alle torture, alle vite spezzate, alle condanne a morte, ai tanti Cavaradossi, alle tante Tosche la cui vita ed il cui amore sono stati spezzati da un potere assassino. Fa ripensare alla disperazione, che sia di un pittore, di un partigiano o di una persona qualsiasi, che si ritrova da sola di fronte ad una morte ingiusta. Fa ripensare a quanti baroni Scarpia girano ancora per il mondo, baroni Scarpia che non trovano una giusta punizione bensì, magari, laute promozioni di carriera.
E lucevan le stelle (spesso nominata erroneamente con ...lucean... è stata interpretata da ogni più famoso tenore possibile e immaginabile. Dal primo, Emilio De Marchi, fino a: Enrico Caruso, Aureliano Pertile, Giacomo Lauri-Volpi Ferruccio Tagliavini, Mario Del Monaco, Carlo Bergonzi, Giuseppe Di Stefano, Franco Corelli, José Carreras, Luciano Pavarotti, Plácido Domingo. Persino da Andrea Bocelli. Anche canticchiata da un Riccardo Venturi, che però propriamente sarebbe una specie di baritono, su un treno mezzo vuoto una sera di gennaio dopo una delle sue periodiche scomparse. Buon anno a tutti, a feste finite, a lucette finalmente spente. [RV]
Enrico Caruso, 1904