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La mala nova

anonimo
Lingua: Catalano


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Le 40 cançons populars catalanes fu un volumetto popolare (venduto al prezzo di 50 centesimi) pubblicato nel 1909 nella collana “Biblioteca Popular de l'Avenç” (“L'Avenç” era una libreria barcellonese, il cui nome significa “Il progresso”, situata al n° 24 della Rambla de Catalunya). Sebbene non indicato in copertina, il curatore e revisore (particolarmente delle melodie) era il giovane musicista Jaume Llobera, come si evince dalle Quatre paraules che fanno da prefazione. La mala nova che qui si presenta, è un testo la cui datazione non è chiara; ma, per alcune sue caratteristiche e particolari, potrebbe risalire al XVI o XVII secolo, forse addirittura con un adstrato ben più antico (la dama che sale sulla torre per aspettare il ritorno dello sposo dalla guerra è un τόπος medievale). Una cosa assai interessante è il nome del protagonista, il conte di "Aronge": nessun "Aronge" si trova nella toponomastica storica dei paesi Catalani, e si potrebbe quindi trattare di una variante (e qui, un vero e proprio anagramma) di "Orange". Il che potrebbe rimandare direttamente al principe d'Orange e alla relativa ballata, che in effetti presenta qualche preciso punto di contatto con questa (ivi compresa la maledizione della guerra). A tutto questo si aggiunga che la città di Orange si chiama, nella vicina lingua occitana, Arenje, o Arenjo. Come si sa, le ballate e canzoni popolari "viaggiano" da un paese e da una lingua all'altra, e spesso da un secolo all'altro, con tutte le rielaborazioni e varianti possibili. Questa ballata potrebbe appartenere quindi al "filone" del Prince d'Orange.

Il tema non è comunque certamente nuovo, anzi è praticamente “eterno” nelle composizioni popolari del genere: il cavaliere, neosposo, deve andare a fare la guerra per ordine del re, ci va parecchio malvolentieri (anche perché a chi si rifiuta d'andarci sarà assai poco cerimoniosamente tagliata la testa) e promette alla sposina di tornare presto (per Pasqua, per San Giovanni). La sposina lo attende trepidante vestendosi sontuosamente, sale sulla torre e, un disgraziato giorno, tornano tutti quanti tranne, naturalmente, il marito che è caduto in battaglia. Nella strofa finale, l'oramai vedova pronuncia una maledizione per la guerra e per chi la fa fare. Si tratta di un tema eterno, perché così vanno le cose dai famosi “centomila anni” di Marco Valdo M.I., c'è poco da fare. Si sa già dal primo verso della canzone come andrà a finire (sebbene non manchino ballate con un “happy end”, mentre il tradimento o il nuovo matrimonio della sposina dopo “sette anni” è riservato generalmente ai soldati semplici, ai poveri fantaccini e alle contadine che si ritrovano bigame senza volerlo). Ancor più normale è che a un tema così (purtroppo) comune si accompagni una melodia assai bella, la quale servirà poi -quasi invariabilmente- ad un qualche compositore per una sua rielaborazione originale. Così, ad esempio, la melodia della Mala nova servì al musicita catalano Frederic Mompou i Dencausse per la sua “Danza XII”. [RV]


Nota sul testo. Viene dato qui quello ripreso direttamente dalla 2a edizione delle "40 cançons populars catalanes" del 1909, disponibile in rete. L'ortografia differisce in diversi punti da quella usata modernamente.

Ja s'han fetes les crides,
volange,
gran guerra hi ha d'haver,
volange.
El rei mana que hi vagin
comtes i cavallers.
Si hi han d'anar els nobles,
els que no ho són també.
Aquell que hi farà falla
escapsat n'ha de ser.
El comte de l'Aronge
n'es capità primer.
Hi ha d'anar per força
amb els soldats que té.
Casat de nou lo comte,
deu deixar la muller.
Li reca de deixar·la
de tant bonica que es.
El comte de l'Aronge,
per més que li sab greu,
un bon matí se lleva
i fa cridar sa gent.
Ne fa albardar les mules
pels moços bagatgers,
i al pati les carreguen
de tot lo menester.
Fa aparellar ses armes
mellors a l'escuder,
i ja ha manat als patges
que ensellin el corcer
— Adéu, gentil comtessa;
gentil comtessa, adéu
Me'n vaig ara a la guerra
per obeir al rei.
—Ai, comte, lo bon comte,
per què així me deixeu?
Si teniu de deixar-me,
digueu: quan tornareu?
— Per la Pasqua florida,
comtessa, tornaré,
i si no es per Pasqua,
per Sant Joan que ve.—
Les Pasqües són passades
i Sant Joan també:
el comte de l'Aronge
de la guerra no ve.
La dama cascun dia
de gales se vesteix
i se'n puja a la torra
més alta del castell.
Ja veu venir sos patges,
sos patges i escuders.
Vestits de dol arriben,
gramalles fins als peus.
— Ai, patges, els meus patges,
quínes noves porteu?
— Ai, comtessa, la nova
no la volgueu saber.
Quan la vos haurem dita
les robes mudareu;
despullant-vos les gales,
de dol vos vestireu.
Entreu's-en a la cambra,
que ja us ho explicarem
senteu-vos en cadira:
tot vos ho contarem.
Lo comte de l'Aronge
mort i soterrat es. —
Quan sent la trista nova
la dama s'esmorteix.
Després plora i més plora
son mal sense remei:
no pot aconsolar-se'n
i torna a plorar més.
— Ai, patges, els bons patges,
ont té l'enterrament?
— Li han fetes les fosses
dessota un taronger.
A la branca més alta
hi canta l'esparver,
hi canta la calandria,
i el rossinyol també.
— Que malhaja la guerra
i el qui la va fer fer,
engany de les donzelles
i mort de cavallers.

inviata da Riccardo Venturi - 15/10/2017 - 08:56



Lingua: Italiano

Traduzione italiana di Riccardo Venturi
15 ottobre 2017 09:02

LA MALANUOVA

Già si son fatti i bandi,
volange,
gran guerra ci sarà,
volange.
Il re comanda d'andarci
a conti e cavalieri.
Ci devono andare i nobili,
e anche chi non lo è. [1]
Chi mancherà d'andarci
sarà decapitato.
Il conte di Aronge
è il comandante in capo.
Ci deve andar per forza
coi soldati che ha.
Sposino fresco il conte,
deve lasciar la moglie.
Gli duole di lasciarla
da tanto bella ch'è.
Il conte di Aronge,
per quanto gli sia di peso,
un buon mattin si alza
e manda a chiamare i suoi.
E fa bardare i muli
dai salmeristi,
e nel cortile li caricano
di tutto il necessario.
Fa preparar le armi
migliori allo scudiero,
e già ha ordinato ai paggi
che sellino il corsiero.
— Addio, gentile contessa;
gentile contessa, addio,
me ne vo ora alla guerra
per obbedire al re.
—Ahi, conte, buon conte,
perché mi lasciate così?
Se dovete lasciarmi,
ditemi, quando tornerete?
— Per la Pasqua fiorita,
contessa, tornerò,
e se non è per Pasqua,
sarà per San Giovanni. -
Passate son le Pasque [2]
ed anche San Giovanni:
il conte di Aronge
dalla guerra non torna.
Ogni giorno la dama
si mette gran vestiti
e sale sulla torre
più alta del castello.
Già vede arrivare i suoi paggi,
i paggi e gli scudieri.
Arrivan vestiti a lutto,
in gramaglie fini ai piedi.
— Ahi, paggi, miei paggi,
quali nuove portate?
— Ahi, contessa, la nuova
non vogliate saperla.
Quando ve l'avrem detta
cambierete il vestito;
togliendovi le gale
vi vestirete a lutto.
Entratevene in camera,
ché ve lo spiegheremo,
sedetevi su una sedia:
tutto vi racconteremo.
Il conte di Aronge
è morto e sotterrato. -
Quando sente la triste nuova
la dama impallidisce a morte.
Poi piange e piange ancora
la sua pena senza rimedio:
non può consolarsi,
e piange ancor di più.
— Ahi, paggi, buoni paggi,
dov'è la sua tomba?
— Gli hanno fatto la fossa
sotto un albero d'arancio.
Sul ramo suo più alto
ci canta lo sparviero,
ci canta la calandrella
ed anche l'usignuolo.
— Maledetta sia la guerra
e chi la fa fare,
disgrazia per le fanciulle
e morte per i cavalieri.

[1] Nell'originale, i due versi hanno una diversa costruzione: "Se devono andarci i nobili, / [ci devono andare, a maggior ragione] anche coloro che non lo sono".

[2] Al plurale, perché nella tradizione cristiana esistono diverse "pasque": 1) La "Pasqua fiorita", cioè la Domenica delle Palme; 2) La Pasqua di resurrezione, o Pasqua d'uovo, vale a dire la Pasqua vera e propria; 3) La "Pasqua rosa", vale a dire la Pentecoste.

15/10/2017 - 09:03


MANO TESA AL ROJAVA DAI PAISOS CATALANS

Gianni Sartori

Dai Paisos Catalans solidarietà all’Amministrazione Autonoma del Rojava e apprezzamenti per l’esperienza del Confederalismo Democratico. Due esponeti di YPJ e SDF intervengono al Parlamento catalano.

Risaliva a oltre due anni fa la prima richiesta di alcuni gruppi politici catalani al Parlament de Catalunya di riconoscere ufficialmente l’Amministrazione autonoma in Rojava.

Tra i promotori: l’ERC (Esquerra Republicana de Catalunya), la CUP (Candidatura d’Unitat Popular), l’ECP (En Comú Podem) e Junts. Per l’ERC aveva firmato il deputato Ruben Wagensberg.

A tale scopo il 19 luglio 2021 era stata depositata una proposta di risoluzione poi sottoposta al dibattito parlamentare. Si chiedeva inoltre di costruire una rete solidale tra la Catalunya e la Siria del Nord e dell’Est. Non solamente con interventi di cooperazione materiale, ma anche accogliendo nei PP. CC. (Paisos Catalans) rifugiati provenienti da questa area del Medio oriente.
La proposta, poi andata a buon fine, nasceva dalla visita di una delegazione catalana in Rojava e rientrava in una campagna per il riconoscimento dell’Amministrazione autonoma a livello internazionale.

In occasione del secondo anniversario di tale importante riconoscimento, la portavoce delle YPJ Ruksen Mihamed e il comandante delle SDF Mazloum Abdi sono intervenuti al parlamento catalano il 19 ottobre.

La mozione con la richiesta di tale intervento in plenaria era stata presentata dalle stesse forze politiche del luglio 2021:Esquerra Republicana, Junts per Catalunya, ECP (En Comú Podem) e CUP. Nel comunicato si ricordava che: “Il Parlamento di Catalunya riconosce l’esistenza dell’Amministrazione Autonoma del Nord e dell’Est della Siria basata sul Confederalismo Democratico come soggetto politico e chiede alle istituzioni catalane di stabilire relazioni istituzionali con tale amministrazione”. Sottolineando inoltre “il valore potenziale del Confederalismo Democratico come alternativa pacifica, inclusiva, democratica e di convivenza per il Medio Oriente basata sul municipalismo, il femminismo e l’ecologia sociale”. Esortando sia le istituzioni che la società civile e i cittadino catalani a “promuovere una rete di solidarietà per contribuire alla ricostruzione della regione e all’accoglienza - temporale o permanente - dei rifugiati”.

Attraverso la realizzazione di un tavolo a cui partecipino amministrazioni, società civile e altre entità.

Da segnalare che a esprimere solidarietà al Rojava non è soltanto quella parte dei Paisos Catalans attualmente sotto amministrazione spagnola. Per esempio nel febbraio 2021 era intervenuto pubblicamente Jaume Pol, presidente di Unitat Catalana (formazione politica della Catalunya Nord, sotto amministrazione francese) per il caso del rifugiato curdo Husseyin, disertore dall’esercito turco chesi era integrato nelle forze curdecombattendo contro Daesh.

Rifugiato in Francia per evitare il carcere in Turchia, si era visto rifiutare la domanda d’asilo. Opponendosi all’ordine di lasciare la Francia, si era rifiutato di salire sull’aereo (8 dicembre 2020) e ripetutamente di sottoporsi al test del Covid 19 (indispensabile per l’espulsione). Per questo veniva condannato a tre mesi di prigione dal Tribunale di Perpignan.

Jaume Pol ne aveva chiesto con forza la scarcerazione, e la concessione dell’asilo politico in quanto “combattente curdo contro lo stato islamico”. A farsi carico della causa del giovane curdo, con sit-in e presidi, i militanti di Unitat Catalana (in particolare Joan-Miquel Touron) già impegnati in azioni di solidarietà con la popolazione del Rojava.

Gianni Sartori

Gianni Sartori - 19/10/2023 - 10:21


ULTIMA ORA: VERSO UNA LEGGE D’AMNISTIA PER GLI INDIPENDENTISTI CATALANI

Gianni Sartori

Personalmente ero rimasto “al palo” del 30 gennaio, quando il progetto di legge d’amnistia veniva bocciato in Parlamento (171 voti a favore contro 179 contro) proprio per l’inaspettato voto negativo di Junts, partito catalano indipendentista (quello di Carles Puigdemont). Significativa la scritta “NO” scritta sette volte (come i deputati di Junts) sul giornale ABC. Vagamente paradossale pensando che proprio in cambio della promessa di questa legge gli indipendentisti catalani avevano garantito il loro indispensabile sostegno al Primo ministro Pedro Sánchez, uscito malconcio dalle legislative del luglio 2023. Tuttavia non aveva evidentemente convinto i deputati di JxCat in quanto non sembrava garantire sufficientemente tutte le persone coinvolte nel tentativo indipendentista. A cominciare da Puigdemont contro cui il Tribunale supremo ha aperto un’inchiesta per “terrorismo”.
Poi l’attesa buona novella. Il Partito socialista di Sanchez e le formazioni indipendentiste catalane “dopo giorni di lavoro comune e tenendo conto del diritto costituzionale, europeo e internazionale, sono pervenuti a un accordo per rinforzare la legge d’amnistia”.
Così almeno annuncia un comunicato congiunto secondo cui la legge riguarda “tutte le persone legate al processo indipendentista” (ossia tutti i condannati e indagati per il ruolo nel tentativo di secessione della Catalogna del 2027) e sarà “pienamente conforme alla Costituzione, al dirittoe alla giurisprudenza europea”. Senza peraltro fornire ulteriori dettagli e precisazioni.

Gianni Sartori

Gianni Sartori - 7/3/2024 - 10:50


"La terra ci reclama" recita una poesia basca. E fatalmente, prima o poi tutti dobbiamo risponderle. Ormai la lista di amici, compagni etc "andati oltre" è pressoché infinita. Per restare solo nella penisola iberica, tra quelli da me conosciuti: Eva Forest (autrice di "Operazione Ogro"), Gorka Martinez (Ufficio Esteri di HB), Manex Goyhenetche (sez. Basca della Lega per i diritti e la liberazione dei popoli), Marc Palmés (avvocato catalano del TXIKI), Pepe Rei (giornalista gallego di Egin)... E ora anche Aureli Argemì, un pilastro del Diritto all'autodeterminazione dei popoli, non solo di quello catalano ovviamente. Vorrei ricordarlo con questa antica intervista: che la terra gli sia lieve.

INTERVISTA CON AURELI ARGEMÌ
“CENTRE  INTERNACIONAL ABAT ESCARRÈ PARA A LES MINORIE ETNIQUES I LES NACIONS”
(1987)

Anche durante il franchismo la Chiesa seppe difendere la cultura e i diritti del popolo catalano. Alcuni monasteri, in particolare Montserrat, divennero il riferimento, la “casa aperta” per molti oppositori. Per non parlare delle coraggiose prese di posizione di alcuni religiosi come Mossén Pon Rovira e Mossén Carreras, durante gli ultimi anni della dittatura quando Franco (già moribondo) ordinava ancora di garrotare e fucilare giovani guerriglieri baschi e catalani.

Agli inizi degli anni suscitò un certo clamore la richiesta, fatta dal Vescovo di Solzona, di una Conferenza Episcopale catalana separata da quella spagnola.

Una figura assai rappresentativa di questo atteggiamento della Chiesa catalana è Aureli Argemì, segretario generale e fondatore del CIEMEN e figura carismatica del moderno catalanismo.

Lo abbiamo incontrato nella sede del  “Centre  Internacional Abat Escarrè Para A Les Minorie Etniques I Les Nacions”, Pau Claris 106, Barcelona.

CI PUÒ DIRE BREVEMENTE COS’È IL CIEMEN, COME E DOVE È NATO, COME SI SOVRAPPONE CON LA SUA STORIA PERSONALE?

La fondazione del “Centro internazionale Abate Escarré sulle minoranze etniche e nazionali” risale 1l 1975. All’epoca mi trovavo in Italia, esiliato. Proprio a Milano, nel 1976, abbiamo cominciato a pubblicare un bollettino che diventerà poi la nostra prima rivista: “Minoranze”. Ne vennero stampati 17 numeri, fino alla sospensione delle pubblicazioni per ragioni economiche. Ricordo tra l’altro che abbiamo parlato della fondazione della “Lega per i diritti e la liberazione dei popoli” e pubblicato lo Statuto della Lega stessa.

Con la morte di Franco abbiamo potuto trasferire tutta l’attività del Centro a Barcellona conservando comunque molti rapporti con l’italia a cui mi sento ancora molto legato. Questo naturalmente non solo perché vi abbiamo fondato il “Ciemen”, ma in particolare per i molteplici e costanti contatti che manteniamo con quelle realtà che in Italia chiamate minoritarie e che noi preferiamo definire “minorizzate”.

QUAL È ATTUALMENTE LO “STILE” DEL VOSTRO INTERVENTO, QUALI SONO LE VOSTRE PROPOSTE POLITICHE?

Il “Ciemen”, come dicevo, ha Barcellona come nucleo più attivo, ma è un Centro internazionale.

Si occupa quindi principalmente dei rapporti a livello internazionale tra i popoli oppressi di tutto il mondo, con un interesse particolare per i popoli d’Europa. Attualmente abbiamo una rete di contatti che ci permettono non soltanto di pubblicare riviste, raccogliere informazioni direttamente sul luogo ecc., ma anche di organizzare convegni, seminari internazionali.

In questo momento (1988, Nda) stiamo lavorando ad una organizzazione che è nata dal “Ciemen” ma che non è il “Ciemen”, è una iniziativa molto più vasta, consistente, a cui abbiamo dato il nome di “Conseo”, sarebbe come dire “Conferenza delle Nazioni”, una conferenza permanente delle Nazioni senza Stato dell’Europa occidentale. E’ un organismo che si propone di intervenire costantemente in tutti quei dibattiti in corso sui popoli minorizzati dell’Europa.

L’assemblea costituente risale a qualche anno fa e nell’88 si è tenuta una seconda assemblea per discutere soprattutto dei problemi relativi ai diritti collettivi dei popoli.

In pratica fu il nostro contributo a tutti i preparativi per il secondo centenario della Dichiarazione dei diritti umani individuali. Il nostro obiettivo (a cui stiamo lavorando con diversi altri gruppi) è quello di presentare una Carta dei diritti collettivi dei popoli.

Il nostro impegno è di promuovere, diffondere a livello europeo i risultati  delle nostre ricerche, dei nostri studi in proposito. Recentemente abbiamo organizzato dei convegni sul “diritto all’autodeterminazione in Europa”, pubblicando anche due volumi che ritengo fondamentali per affrontare il problema.

Il Ciemen quindi svolge innanzitutto un lavoro di ricerca per poter intervenire puntualmente in difesa dei diritti collettivi dei popoli sia a livello dei mezzi di comunicazione che in convegni, conferenze, dibattiti. Ci interessa particolarmente sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti di tutti quei problemi interni dell’Europa che secondo noi andrebbero letti nell’ottica del colonialismo e della discriminazione.

Certo è più facile vedere come questi problemi esistano in altre parti del mondo, ma il più delle volte quando si manifestano in Europa non si analizzano nello stesso modo e si cercano giustificazioni ideologiche per problemi rimasti da sempre irrisolti. Invece il problema dei popoli minoritari è comune praticamente a tutti gli stati europei (esclusi il Portogallo e l’Islanda). Noi cre-diamo che un giorno si arriverà a risolvere questi problemi che sono problemi umani basilari e probabilmente sarà l’Europa stessa, nel suo insieme, a trarne vantaggio. Per questo noi lavoriamo per costruire non l’Europa degli Stati, ma l’Europa dei Popoli, delle Nazioni.

QUAL’ERA LA SITUAZIONE DELLA LINGUA E DELLA CULTURA CATALANE DURANTE IL FRANCHISMO? QUAL È ATTUALMENTE? E’ POSSIBILE UN CONFRONTO? COSA HA COMPORTATO DA QUESTO PUNTO DI VISTA LA ‘‘TRANSIZIONE”??

Durante il franchismo la lingua catalana (e con la lingua anche la cultura) era semplicemente vietata; non si poteva insegnare, non si poteva usare in pubblico, non era ovviamente presente nei mezzi di comunicazione. Questo comunque non è stato un fatto esclusivo del franchismo ma rientra nella tradizione politica di ogni governo centralista nei riguardi della Catalogna. Infatti la persecuzione della lingua catalana cominciò nel 1714, quando la monarchia borbonica, grazie agli eserciti spagnolo e francese, arrivò a dominare i Paesi catalani.

Da quel momento si fece tutto il possibile per far dimenticare ai Catalani di essere tali. Cominciò allora una vera e propria persecuzione che si concretizzò in momenti più o meno forti di repressione. Ad un certo momento, nell’800, mentre in tutta l’Europa si stava elaborando una nuova cultura legata al principio dello Stato-Nazione (v. le grandi politiche di unificazione ecc.) in Catalogna, con la rivoluzione industriale, si sviluppò una nuova borghesia che difendeva la lingua e la cultura come elementi importanti di affermazione della propria identità, non ancora o non completamente in senso nazionale ma almeno come popolo distinto. In molte altre zone d’Europa questa è stata la premessa per la creazione di nuovi Stati. Qui invece, per tutta una serie di circostanze, la borghesia non è riuscita a creare un nuovo Stato, uno Stato catalano, ma soltanto a favorire la rinascita (un rilancio molto forte) della lingua e della cultura, in sintonia comunque con gli analoghi processi di tutta Europa.

Questa coscienza della propria identità ha avuto un ruolo molto importante durante quasi un secolo in cui si sono alternati periodi di persecuzione con altri di tolleranza. Un periodo particolarmente duro è stato quello della prima dittatura, dal 1923 al 1929, seguito da un periodo di segno diametralmente opposto.

Con la nascita della Repubblica spagnola il catalano diventa la lingua ufficiale della Catalogna.

Già durante la guerra il franchismo aveva capito con molta chiarezza che bisognava fare tutto il possibile contro tutte le lingue e le culture diverse da quella ufficiale, ossia dallo spagnolo. Comunque già durante la dittatura, soprattutto durante gli ultimi anni, erano sorti molti organismi clandestini che portavano avanti una difesa molto coraggiosa della lingua e della cultura. Fra questi vanno ricordati prima di tutto quelli legati alla Chiesa catalana che ha lottato sia contro il franchismo che in difesa della nostra identità.

Fra i grandi esponenti della Chiesa catalana vi è appunto l’Abate Escarré, espulso da Franco e vissuto in Italia dal 1965 al 1968, fino al giorno della sua morte. Allora io ero il suo segretario e lo seguii restando in Italia alcuni anni.

PUÒ SOFFERMARSI SULLA SUA PERSONALE ESPERIENZA A RIGUARDO?

Come ho detto, anch’io provengo da quel baluardo della lingua e della cultura catalana che è stato ed è il monastero di Montserrat e anch’io fui espulso dalla Spagna franchista con un gruppo di monaci per ragioni politiche. Ho trascorso il mio esilio parte in Italia e parte nel sud della Francia, vicino alla frontiera, in quella che noi chiamiamo Catalunya nord.

Qui ho trascorso gli ultimi anni del franchismo (mantenendo comunque sempre rapporti anche con l’Italia) avendo la possibilità di continuare a rapportarmi con la realtà catalana.

E TORNANDO ALLA DOMANDA PRECEDENTE…?

Dicevo che alla morte di Franco esistevano già le premesse, una realtà di base creata da tutta la resistenza democratica, per lavorare in favore della lingua e della cultura catalana. Nel 1978 con la nuova Costituzione spagnola veniva garantito, almeno teoricamente, il rispetto di tutte le diverse realtà culturali e linguistiche.

Lo statuto di Autonomia per la Catalogna è del 1979. In questo statuto viene detto chiaramente che la lingua propria della Catalogna è il catalano, lingua ufficiale insieme allo spagnolo.

Questa affermazione è molto importante, basilare (benché sia anche un po’ confusa, contradditoria nell’affermare che vi sono due lingue ufficiali).

A partire da allora il catalano è stato la lingua delle istituzioni catalane, la lingua obbligatoria nelle scuole, la lingua da introdurre nei mezzi di comunicazione di massa.

In realtà la lingua catalana si trova ancora in una situazione, direi, di inferiorità sia nel campo amministrativo che in quello dell’insegnamento. Infatti le leggi spagnole non consentono ad un governo autonomo di esercitare tutte le competenze e nelle scuole molti insegnanti non sono catalani. Di conseguenza le scuole dove tutte le lezioni si svolgono in catalano sono inferiori di numero rispetto a quelle dove si fa tutto in spagnolo.

Benché il catalano sia formalmente obbligatorio in tutte le scuole non si può certo dire che tutte le scuole facciano tutto in catalano.

Questo si nota particolarmente a livello universitario dove si può scegliere tra spagnolo e catalano e si finisce col fare quasi tutto in spagnolo (significativa in proposito come “inversione di tendenza” l’esperienza, recente ma ricca di prospettive, in atto presso l’Università di Valencia).

Per quanto riguarda i mezzi di comunicazione abbiamo in questo momento un canale televisivo i cui programmi sono tutti in catalano. Gli altri canali pubblici sono spagnoli, ma hanno l’obbligo di trasmettere per qualche ora al giorno in catalano. Possiamo dire che la proporzione è ancora favorevole allo spagnolo anche se il catalano sta recuperando terreno a diversi livelli (1988, Nda). Questa per noi non è ancora la situazione ottimale, ma si assiste ad un processo di normalizzazione linguistica che valutiamo positivamente.

IL VOSTRO CENTRO È DEDICATO ALLA MEMORIA DELL’ABATE ESCARRÉ: QUAL È STATA LA SUA POSIZIONE DURANTE IL FRANCHISMO?

L’abate Escarré è stato abate di Montserrat. Storicamente il monastero di Montserrat è sempre stato , in modo particolare durante il franchismo, la casa aperta a tutti i movimenti democratici del paese. L’abate Escarré ha preso posizione molto duramente contro il franchismo soprattutto su due aspetti: prima di tutto sul fatto che il franchismo ostentava la bandiera del cattolicesimo come difesa della propria ideologia. L’abate Escarré ha detto chiaramente e pubblicamente che questo era un modo per nascondere tutto quello che di anticristiano faceva il regime. Accusava il regime di essere una dittatura. D’altro canto l’abate Escarré è stato anche l’esponente più importante del mondo della Chiesa a difendere i diritti dei catalani alla propria lingua, alla propria cultura, alla propria identità.

E anche questo pubblicamente, fino al giorno della sua espulsione.

QUALI SONO GENERALMENTE I RAPPORTI TRA IL POPOLO CATALANO E GLI IMMIGRATI? E QUALI SONO I VOSTRI RAPPORTI CON GLI ALTRI POPOLI DELLA PENISOLA IBERICA (BASCHI, GALLEGHI, ANDALUSI, GITANI…)?

Premetto intanto che l’area linguistica catalana non è limitata soltanto alla Catalunya, ma che dobbiamo considerare anche il Paese Valenziano e le Isole Baleari (per cui si parla di Paisos Catalans, PP.CC., Nda). La situazione linguistica e culturale è diversa in ognuna di queste tre regioni dei Paesi Catalani. 

La Catalunya, essendo un paese altamente industrializzato, è particolarmente interessata dal fenomeno dell’immigrazione. Si tratta generalmente di immigrati dalle zone del sud della Spagna, soprattutto andalusi.

Attualmente sono più di un milione. Ovviamente questo ha creato il problema non indifferente della integrazione degli andalusi.

Durante il franchismo questa integrazione avveniva quasi spontaneamente, nel senso che quelli che difendevano la lingua e la cultura catalane erano automaticamente antifranchisti, a favore della democrazia. A quel tempo quindi gli andalusi arrivati nel nostro paese si integravano facilmente, senza conflitti.

Soltanto in seguito, quando alcuni partiti politici hanno cominciato a sostenere che in Catalunya esistevano due lingue e due culture, molti di loro hanno assunto un atteggiamento di rifiuto nei riguardi dell’integrazione. In questo momento non stiamo ancora assistendo ad una “guerra linguistica e culturale”, ma ci troviamo in una situazione che definirei di conflitto latente; non è la situazione normale che poteva esistere, almeno apparentemente, in periodi anteriori.

La nostra politica, quella che vogliamo continuare a portare avanti, è di non creare ulteriori conflitti, ma di impegnarci per la maggiore integrazione possibile degli immigrati.

Naturalmente c’è ancora molto da fare dato che qui attualmente si stanno parlando due lingue. Devo anche dire che si va diffondendo un nuovo atteggiamento, prima sconosciuto: molti immigrati si rifiutano semplicemente di imparare il catalano.

In questo momento praticamente tutti (o comunque la stragrande maggioranza) lo capiscono. Una inchiesta realizzata alla fine del 1987 ha confermato che il catalano viene compreso dal 90% dei catalani, da coloro che abitano in Catalogna; questo è ovvio dato che è una lingua neolatina, facilmente comprensibile anche da chi parla castigliano.

Concludendo: il problema non è di facile soluzione, ma è possibile intravedere un processo che permetterà di arrivare ad una intesa, a superare questa divisione che si potrebbe creare tra i catalani di origine e quelli delle più recenti immigrazioni. –

Quanto alla seconda parte della domanda possiamo dire che noi catalani ci sentiamo molto legati a tutte le lotte del popolo basco e del popolo gallego. La nostra condizione è comune: noi abbiamo una lingua e una cultura oppresse e quindi abbiamo più simpatia per coloro che lottano per difendere la propria identità.

Ma non ci fermiamo a questo: attualmente c’è una grande solidarietà anche con le lotte sociali che si stanno portando avanti in Andalusia. Da noi come ho detto ci sono molti immigrati andalusi. Molti di loro tornano nella loto terra con una nuova coscienza della loro identità.

Questo crea una simbiosi, una premessa al reciproco riconoscimento e alla difesa della nazione catalana e di quella andalusa, qualcosa di simile al rapporto che qui si vive con gli altri popoli della penisola iberica.

INTENDE DIRE CHE L’IMMIGRAZIONE HA FAVORITO INDIRETTAMENTE NEGLI ANDALUSI UNA MAGGIORE COSCIENZA DELLA LORO CONDIZIONE DI OPPRESSI DA PARTE DELLO STATO SPAGNOLO?

Si, proprio così. Non si può ancora considerarlo un fenomeno generalizzato, ma noi, per esempio, stiamo da tempo collaborando con gruppi di immigrati legati a movimenti che lottano per affermare una differenza degli andalusi rispetto al resto della penisola. Questo è molto importante perché riporta in superficie la realtà sociale autentica della penisola iberica; inoltre indebolisce tutte le tendenze nazionaliste-scioviniste che esistono al centro, a Madrid, quelle cioè portate avanti dal governo.

Noi abbiamo avuto sempre, storicamente, come nemico, come avversario principale, il centralismo. In questo momento, proprio perché ognuno dei popoli che costituiscono questa penisola sta prendendo coscienza, sta maturando non solo una aspirazione all’autonomismo, ma qualcosa che io credo ci potrà portare molto più in là. Per esempio sia in Catalogna che nei Paesi Baschi si sviluppa, ogni volta più profonda, una coscienza europea, la consapevolezza che i nostri problemi non passano per Madrid, non si devono risolvere a Madrid, ma in un ambito molto più grande, a livello europeo.

Tutti noi ci sentiamo molto più europei che spagnoli.

CI SONO STATI DEI PROBLEMI (LO CHIEDO PENSANDO AI PROBLEMI CHE HANNO AVUTO IN PROPOSITO GLI IRLANDESI) A STRASBURGO PER QUANTO RIGUARDA LA LINGUA?

Naturalmente. Premetto che, per certi aspetti, la situazione del catalano e della cultura catalana nell’Europa comunitaria si trova in una situazione direi privilegiata. Ossia, noi abbiamo una lingua minorizzata, ma la nostra lingua è più parlata, più usata di alcune lingue che sono ufficiali. Il nostro livello di produzione letteraria, di insegnamento, di modernizzazione ecc. è paragonabile al greco, al portoghese e al danese, lingue di tre paesi che fanno parte della comunità europea.

Il nostro attuale obiettivo è pertanto quello di far sì che le istituzioni europee accettino il catalano come lingua ufficiale, almeno in linea di principio, perché poi ci sarebbero problemi pratici, quali le traduzioni.

Questa richiesta è stata portata avanti dai nostri movimenti in ogni occasione direttamente a Strasburgo. Nel mese di ottobre del 1987 una folta delegazione popolare catalana è andata a Strasburgo.

Qui, dopo le manifestazioni, abbiamo presentato un documento chiedendo che la lingua catalana diventi ufficiale. Personalmente ritengo che l’accoglienza sia stata molto positiva.

Questo documento era stato firmato da circa centomila persone e tutti i deputati catalani eletti al Parlamento europeo lo hanno sottoscritto, nessuno escluso.

Su questo c’è stata completa unanimità, indipendentemente dagli schieramenti di appartenenza. Inoltre siamo stati ricevuti dal Presidente del parlamento europeo che ci ha detto testualmente come noi avessimo il pieno diritto di chiederlo (questo naturalmente non vuol dire che la risposta sarà positiva). In ogni caso questo movimento che ha una larga base sociale ci autorizza a sperare che un giorno anche il catalano sarà lingua ufficiale a Strasburgo.

Naturalmente noi vogliamo lo stesso anche per tutte le altre lingue; non difendiamo il catalano perché lo consideriamo espressione di una cultura “superiore”, migliore delle altre lingue minorizzate, ma perché crediamo che soltanto con il rispetto della diversità linguistica e culturale si potrà costruire un’Europa dei popoli.

LEI HA FATTO UN’ANALOGIA CON QUELLO CHE SUCCEDE NEI PAESI BASCHI. IN CHE MODO E IN CHE MISURA LA DIFESA DELLA VOSTRA IDENTITÀ E LA LOTTA PER L’AUTODETERMINAZIONE HANNO FRENATO QUEI TIPICI FENOMENI DI DISGREGAZIONE CULTURALE E SOCIALE CHE SONO CARATTERISTICI DELLE MODERNE SOCIETÀ OCCIDENTALI (V. LA DIFFUSIONE DELLA DROGA TRA I GIOVANI…)?

Io direi che il fenomeno della droga, che pure qui è piuttosto diffuso, finora non è stato un elemento decisivo per la disgregazione del tessuto sociale catalano, almeno non sul piano della lotta per l’affermazione nazionale. Sono invece intervenuti altri elementi: innanzitutto si è diffusa tra la gioventù una mentalità molto pragmatica, molto individualistica per cui non vi sono grandi ideali; questi vengono considerati utopistici, irraggiungibili.

Da questo punto di vista rileviamo nella gioventù un diffuso disinteresse per i problemi fondamentali, come la difesa dei diritti umani, individuali e collettivi.

Tutto questo è naturalmente in rapporto con la diminuita sensibilità politica. Non direi comunque che la droga sia stata una delle cause principali.

Intervengono molti altri fattori, soprattutto in una situazione in cui la disoccupazione è piuttosto alta. Gran parte della gioventù non trova lavora e questo genera angoscia. E questa angoscia, questo senso di insicurezza vengono sicuramente usati, manipolati affinché i giovani siano distolti da altri problemi più ideali.

(1) Nota: questa intervista risale alli anni 80; da allora ovviamente anche nei PP.CC. è prevalsa l’immigrazione dai paesi extraeuropei, in particolare dal Nordafrica

Gianni Sartori - 2/4/2024 - 10:12




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