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Mohammed al Ajami


Questa “Poesia da una Cella di Prigione” del poeta Mohammed al-Ajami ora ora potrà essere cantata a squarciagola e gridata anche da un minareto.

Mohammed al-Ajami, noto come il poeta dei gelsomini, originario del Qatar e Membro Onorario del PEN American Center, era stato condannato nel novembre 2012 dapprima all’ergastolo poi a 15 anni di detenzione, semplicemente per aver scritto e recitato due poesie considerate di “incitamento al rovesciamento del regime al potere” e “critica dell’Emiro”. Nel maggio 2014, sebbene stesse scontando la condanna nel Carcere Centrale di Doha, è riuscito a registrare e far uscire dalle mura del carcere questo componimento. Nel marzo 2016, dopo circa 40 mesi di reclusione, grazie al contributo delle associazioni Amnesty International, PEN Regno Unito, Freedom Now e PEN International, che hanno chiesto alle autorità del Qatar il rilascio immediato e incondizionato di Mohammed al-'Ajami e l'annullamento della sua condanna, egli è stato rilasciato senza condizioni, dopo aver ricevuto il perdono da parte dell'Emiro. Ora il suo testo poetico circola liberamente in rete.
Is it my mind or my heart that I’ve lost
to you, Arab lands, home of enemies?
If you held our minds with law and reason
if you respected our opinions
then you’d hold my heart as well
Who am I? Don’t ask the days about me—
I’m nothing but a prisoner
in an isolation cell
Here in my country, oppression
is what takes our rights away
Here, ignorance
determines our convictions
Here, the people
no longer have a voice, cannot
spell out the language of reproach
My country, if insight required an apology
I’d never stop apologizing
Tell your children, east and west
—and keep telling them, until
the birds sing it in the branches—
that a people without opinions
is nothing but a herd that’s thirsty
yet blind to the nearby oasis
Fight for your convictions: this is how
you ride your steeds and bear your arms
against a ruler who seeks to oppress
and who molds your silence
into a pretext for injustice
Tell them that I, stubborn, persistent
was unmatched in my victory
and my defeat
Time may have disgraced me
but I haven’t been easy for time to shackle
Lord of rabble, what of yours compares
to the thrones of Ibn Ad’s people
in Iram, the city of pillars
which God spoke of in His revelation?
You’ve been insincere, a false prophet on earth
though you, like Jesus, spoke in the crib
You’ve wounded truth, and my proud allegiance
is lifeless now, and clad in black
How can you expect obedience
when you call for injustice?
If we obeyed you, then what would become of our principles?
When we pray, who do we pray to?
To God, or to God’s servants?
There’s no room for virtue under oppression
there’s no room for vice on the road of justice
Whoever wrongs and deceives his people
will never be able to guide them
If history were objective, it would tell
how you’ve sought glory in my so-called enmity
Go ahead and be miserable, though you and I
are not enemies
I avoid enmity, and make enemies
only of those who are truly worthy
If you ask after my finest day
on an occasion when words of pride are called for
I’d call history to mind, and say:
It was when I was a prisoner in my own country
for when you shackled my wrists
history gave me strength
and confidence in victory
These disgraceful chains
are power in my hands, not power
for those who lord it over me
Doors and guards, wake me up gently
whenever I sleep too long
It is not desire
but fear
that makes me ask this, fear
that the enemies will see my weakness when I sleep…
though I no longer know
if my eyes are closed, or if
I’ve been awake all this time

inviata da Alice Bellesi - 19/5/2016 - 12:49



Lingua: Italiano

Versione italiana di Alice Bellesi
POESIA DA UNA CELLA DI PRIGIONE

È la testa o il cuore che ho perso
per te, terra d’Arabia, patria di nemici?
Se facessi presa sulle le nostre menti con la legge e la ragione,
se rispettassi le nostre opinioni,
allora stringeresti anche il mio cuore.
Chi sono io? Non chiedete di me ai giorni —
non sono altro che un detenuto
in una cella di isolamento.
Qui nel mio paese, l’oppressione
è ciò che si porta via i nostri diritti.
Qui, l’ignoranza
determina le nostre convinzioni.
Qui, la gente
non ha più voce, non può
scandire il linguaggio del rimprovero.
Al mio paese, se l’introspezione richiedesse un’apologia,
io non smetterei mai di chiedere scusa.
Ditelo ai vostri figli, da est ad ovest
— e continuate a dirlo, finché
gli uccelli lo canteranno tra i rami —
che una persona senza opinioni
non è altro che un gregge arso dalla sete
ma che non vede l’oasi ormai prossima.
Lottate per le vostre convinzioni: questo è il modo
per inforcare i vostri destrieri e prendere le armi
contro un sovrano che cerca di opprimere
e che modella il vostro silenzio
nella forma di un pretesto per l’ingiustizia.
Dite loro che io, ostinato, persistente
non ebbi pari nella mia vittoria
e nella mia sconfitta.
Il Tempo può avermi incriminato
ma non è stato facile per il tempo ammanettarmi.
Signore della gentaglia, quale dei tuoi può reggere il confronto
con i troni della gente di Ibn Ad
a Iram, la città dai pilastri
della quale Dio parlò nella Sua rivelazione?
Voi siete stati insinceri, falsi profeti in terra:
per quanto voi, come Gesù, abbiate parlato dalla culla,
avete sfregiato la verità, e la mia orgogliosa devozione
è senza vita ora, e vestita di nero.
Come potete esigere l’obbedienza
quando chiedete l’ingiustizia?
Se vi obbedissimo, che ne sarebbe allora dei nostri princìpi?
Quando preghiamo, a chi rivolgiamo la preghiera?
A Dio, o ai servitori di Dio?
Non c’è spazio per la virtù sotto il giogo dell’oppressione,
non c’è spazio per il vizio sulla strada della giustizia.
Chiunque nuoce alla sua gente e la inganna
non sarà mai capace di guidarla.
Se la storia fosse obiettiva, direbbe
quanto avete cercato la gloria nelle mia cosiddetta ostilità.
Andate avanti e siate disperati, benché voi ed io
non siamo nemici:
io evito l’ostilità, e mi faccio nemici
solo coloro che ne sono veramente degni.
Se chiedeste del mio giorno migliore
in un’occasione nella quale siano richieste parole d’orgoglio
richiamerei alla mente la storia, e direi:
Fu quando ero prigioniero nel mio stesso paese,
perchè quando mi ammanettaste i polsi
la storia mi diede la forza
e la fiducia nella vittoria.
Queste ignobili catene
sono potere nelle mie mani, non potere
per quelli che spadroneggiano su di me.
Porte e guardie, svegliatemi gentilmente
ogni volta che dormo troppo a lungo.
Non è il desiderio
ma la paura
che mi fa chiedere questo, la paura
che i nemici vedano la mia debolezza mentre dormo…
malgrado io non lo sappia più
se I miei occhi sono chiusi, o se
sono stato sveglio per tutto questo tempo.

inviata da Alice Bellesi - 19/5/2016 - 12:52


Approviamo questo interessante contributo, anche se non si tratta di una canzone. Bisognerebbe pero' trovare il testo originale in arabo.

CCG Staff - 20/5/2016 - 00:10




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