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Barry Horne

Inner Terrestrials
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Inner Terrestrials

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15 anni fa moriva il compagno anarchico antispecista Barry Horne a causa di alcuni scioperi della fame (in carcere) contro la vivisezione
anni prima aveva partecipato a iniziativa londinesi di sostegno ai prigionieri repubblicani, in particolare nel 1981

un ricordo...


Morto in carcere l'animalista Barry Horne
In memoria di Barry Horne


Ancora una volta "ingiustizia è fatta": lo sfruttamento e l'oppressione di esseri senzienti può continuare indisturbato.

Mi ero occupato varie volte del caso Barry Horne, militante animalista detenuto nelle carceri inglesi. Come movimento U.N.A. (Uomo-Natura_Animali) avevamo espresso pubblicamente solidarietà alla sua lotta, portata avanti in prima persona con vari scioperi della fame, uno dei quali nel 1998 era durato ben 68 giorni.

Con la sua protesta Barry chiedeva la fine immediata di ogni pratica vivisezionista praticata dall'industria dei cosmetici, così come i laburisti avevano promesso (ma non mantenuto) in campagna elettorale. Chiedeva anche l'istituzione di una "Royal Commission" che affrontasse seriamente ogni aspetto della vivisezione, moderna forma di tortura considerata inaffidabile da un sempre maggiore numero di medici e ricercatori, ma indispensabile per garantire i profitti delle multinazionali.

Era stato condannato a diciotto anni di carcere per azioni dirette in difesa dei diritti degli animali ovunque sottoposti ad incredibili sofferenze: esseri che non possono scrivere appelli per far valere le proprie ragioni o ribellarsi al dominio dell'uomo. Barry Horne era colpevole di un crimine che ha soltanto un nome: compassione, un sentimento ormai inammissibile in un sistema basato sullo sfruttamento e sull'oppressione di esseri umani, di animali e della natura.

Le sue condizioni di salute erano alquanto peggiorate in seguito al lungo sciopero della fame. I danni sugli organi vitali erano stati da subito evidenti. Gli era stata negata la possibilità di un adeguato ricovero ospedaliero e non era stata modificata la sua categoria A, ossia di prigioniero considerato "pericoloso e violento", anche se un diverso trattamento detentivo avrebbe potuto aiutarlo a migliorare le sua situazione psicofisica.

Nel dicembre di due anni fa c'era stata la possibilità di una revisione della sua situazione carceraria e avevamo intrapreso una campagna di sensibilizzazione in suo favore. Dicevamo allora: "Se la sua categoria di prigioniero non verrà modificata ora se ne riparlerà soltanto fra un anno. Sempre che per allora esista ancora un prigioniero di nome Barry Horne." In questi giorni il generoso esponente del movimento animalista, un ex spazzino" di 49 anni diventato un simbolo della lotta per i diritti degli animali, è morto in seguito ai danni subiti con gli scioperi della fame (l'ultimo risaliva a quest'anno, come protesta contro gli indiscriminati olocausti per l'epidemia di afta) e per la mancanza di cure e assistenza. Vorrei ricordarlo di fronte all'indifferenza di chi si ostina a non vedere i veri e propri campi di sterminio (laboratori, macelli, allevamenti...) che la "razza padrona" ha costruito e dove i nostri fratelli animali vivono e muoiono nel terrore.

Gianni Sartori
Da "Umanità Nova" n.40 del 18 novembre 2001

Though they broke your heart they never broke your will
Your script stayed strong through the years you were ill
They caged you like the animals and tortured you but still
They could never hurt what cannot be killed

Though the mortal life of a true freedom fighter's gone
Barry Horne, Barry Horne your memory lives on
Through the broken dreams and all the years of pain
Barry Horne, Barry Horne your death was not in vain

A man laid down his life for those who can't defend themselves
Born into a nightmare their lives a living hell
But some people think it's wrong to put profit before life
Some people think it's wrong to be born under the knife

Though the mortal life of a true freedom fighter's gone
Barry Horne, Barry Horne your memory lives on
Through the broken dreams and all the years of pain
Barry Horne, Barry Horne your death was not in vain

Their example has failed, your death helps us unite
There's many who were sleeping who are now awake to fight
That a man died for the animals to teach the world their plight
He made the masses wonder if this terrorist was right

inviata da Gianni Sartori - 23/3/2016 - 22:43


LO STERMINIO DEGLI ANIMALI PROSEGUE, OVUNQUE E INESORABILMENTE…USQUE TANDEM?




Gianni Sartori


Difficile di questi tempi (con tutte le problematiche che ben conosciamo: guerre in primis) parlare anche del tragico destino di milioni, miliardi di animali. Fucilati, avvelenati, macellati… o comunque massacrati, sterminati dalle innumerevoli modalità che l’inventiva dei sapiens (se non proprio di tutti i sapiens, almeno di una parte cospicua) ha ideato. Nella realistica prospettiva - alla fine della storia - di rimanersene da soli su questo pianeta. Accucciati su montagne di cadaveri, carogne maleodoranti, ossa sbiancate…tra discariche impianti fatiscenti....a contare i sudati risparmi probabilmente.
Anche se ormai - per ragioni anagrafiche - non è più un problema mio, non posso non pensare a figli e nipoti (non solo ai miei naturalmente). A cosa lasciamo loro in eredità.

Difficile anche perché ormai i responsabili hanno imparato il giochino dello scarica barile. In sintesi (ma ovviamente poi la tecnica è più elaborata) per i cacciatori è sempre e solo colpa dei pesticidi sparsi dagli agricoltori (e viceversa), mentre per gli allevatori è d’obbligo sentirsi porre la retorica domanda “Ma non pensate alle povere bestie uccise dalla caccia?”.

Esiste poi anche la variante inversa adottata da qualche cacciatore che “ha studiato” parlando di quella che loro chiamano “selvaggina”: “Sarà sempre meglio vivere libero e poi morire per una fucilata che vivere segregati in un allevamento…”.

E via così con tutte le variabili banalità possibili. Oltre naturalmente al classico “Ma prima bisogna pensare ai bambini che muoiono di fame in Africa”. Come ci disse uno mentre distribuivamo volantini contro gli allevamenti lager. Sentendosi peraltro rispondere che “ma ci avevano detto che occuparsi dei bambini stasera toccava a lei…”. Tra l'altro in quel periodo (anni ottanta) eravamo quasi quotidianamente sul "piede di guerra" (con la Lega per i diritti dei popoli) sulla questione dell'apartheid sudafricano, ma questo il nostro interlocutore non poteva saperlo.

Cosa si annida nella mente più o meno anestetizzata di tanta gente? Ipocrisia, malafede, falsa coscienza…? Fate voi.

Per quanto riguarda l’Italia, l’ultima stagione venatoria (conclusa il 30 gennaio, un giorno prima in quanto il 31 cadeva di martedì) avrebbe comportato l’uccisione di circa 400 milioni gli animali (numero elaborato “sulla base dei carnieri giornalieri e stagionali previsti per ogni specie e per ogni cacciatore nei calendari venatori”). Ferme restando le preoccupazioni relative ai prolungamenti previsti nelle singole regioni e ai nuovi provvedimenti presi dal governo Meloni (vedi il Piano straordinario per la gestione e il contenimento della fauna selvatica che dovrebbe diventare operativo entro qualche mese).


Su questo non le manda certo a dire l’esponente della Lav Animali Selvatici Massimo Vitturi: “Quello che si sta materializzando di fronte ai nostri occhi in questi mesi è un futuro nel quale non esisterà più la stagione di caccia come l’abbiamo conosciuta fino a oggi, soppiantata da un regime di caccia permanente nel quale gli animali selvatici saranno considerati solo un ingombrante orpello allo sfruttamento intensivo del territorio piegato all’esclusivo soddisfacimento degli interessi umani».



Ma intanto, ci informa Valentina Milani, le cose non vanno certo meglio in Namibia dove non si arresta nemmeno la strage di rinoceronti per mano dei bracconieri. Ben 87 accertati nel 2022 (praticamente il doppio rispetto al 2021), la maggior parte nel parco di Etosha. Se il numero dei selvatici ammazzati in Zimbabwe sembra essere in diminuzione, non vanno bene le cose per i pangolini in Botswana. La loro specie, insieme a elefanti e rinoceronti, sarebbe quella più ambita dalle bande organizzate di bracconieri.

Un incremento per cui, statisticamente, nel solo Sudafrica un rinoceronte viene abbattuto (soprattutto per il corno, due in quelli africani, ritenuto - a scelta - un medicinale, un afrodisiaco o un oggetto prezioso) mediamente ogni dieci ore, un elefante ogni quarto d’ora.

L’ecocidio di questi ultimi è stato particolarmente intenso in Tanzania e Repubblica democratica del Congo.

Oltre che come ingrediente per la medicina tradizionale (vedi le squame dei pangolini ridotte in polvere), i corpi degli animali selvatici abbattuti vengono venduti localmente in quanto cibo (in particolare le scimmie, gorilla compresi, ma anche serpenti, tartarughe etc). Oppure, se catturati vivi, come animali esotici per collezionisti (soprattutto per l’estero). Scontato l’utilizzo delle zanne d’avorio per oggettistica e altro.

Sempre dalla Namibia, in controtendenza, ci sarebbe qualche miglioramento di prospettiva per la sopravvivenza dei ghepardi, finora presi - letteralmente - di mira dagli allevatori che negli ultimi cinquant’anni ne avrebbero uccisi oltre diecimila. Come per il lupo in Europa, si è pensato di ricorrere ai cani da pastore “di razze turche, di grandi dimensioni e dal forte istinto protettivo” come spiegava Claudia Volonterio.

Rimane tuttavia dolorosamente aperto il problema del bracconaggio, sia per la pelliccia che per la cattura dei piccoli vivi (ma questo, come per i gorilla, implica in genere l’abbattimento della madre) per rivenderli agli emiri (costo previsto: ventimila dollari).

Per non parlare dell’irrisolto e sempre più grave problema (non solo per i ghepardi) della perdita di habitat a causa dell’espansione di centri abitati, strade, allevamenti, piantagioni…

Altro problema cronico, l’uso di pesticidi e fitofarmaci (talvolta un eufemismo per veleni) in agricoltura. Problema che in alcune aree si è andato accentuando in maniera esponenziale.

Vedi certe regioni nel sud-ovest della Russia (Stravropol, Rostov, Kransnodar, Orel…) forse anche a causa della guerra in Ucraina.

Ne ha parlato Vladimir Rozanskij denunciando che dal novembre scorso “decine di migliaia di animali selvatici sono rimasti vittime di pesticidi agricoli proibiti”.


Presumibilmente si diceva un possibile effetto collaterale del conflitto per cui -giustificandosi con una situazione di emergenza - i contadini avrebbero utilizzato ancora più spregiudicatamente sostanze ufficialmente proibite. Versandole a tonnellate nei campi.



Risultato: le desolate campagne costellate di centinaia di cadaveri di gabbiani, volpi, lepri, tassi, pernici, lupi, topi, anatre, fagiani, civette, gufi e cicogne (in diversi casi si trattava di uccelli migratori in transito). Alcuni animali vittime direttamente delle sostanze nocive, altri (volpi, rapaci notturni, sciacalli…) per essersi nutriti dei cadaveri avvelenati.
E’ anche possibile che qualcuno abbia approfittato della situazione per distribuire bocconi avvelenati (di quelli usati contro i topi) come sembrerebbe confermato dalla presenza di sangue intorno a molti cadaveri di mammiferi.



Spettacolo particolarmente apocalittico quello intorno al lago di Solenyi e in periferia di Donskaja Balka con centinaia di esemplari agonizzanti di un raro esemplare di gabbiano, volatili che si erano fermati per riposare mentre si dirigevano a svernare sulle rive del mar Rosso.


Tra le vittime più notevoli (in quanto rarissimi ) la tadorna ferruginea e il fagiano caucasico settentrionale.




Quasi un presagio di futuri lugubri scenari quello che è avvenuto a Krasnodar dove l’abitazione del governatore del Kuban, in una via centrale della città, è stata letteralmente ricoperta da decine di cadaveri di corvi imperiali. Qui giunti a morire e forse a lanciare un monito per la futura umanità.




Gianni Sartori

Gianni Sartori - 6/2/2023 - 16:05


INDIA, PAESE IMMENSO TRA MILLE CONTRADDIZIONI
Tra discutibili detenzioni di dissidenti, tardive rimesse in libertà e attacchi alle politiche protezionistiche della fauna selvatica.

Gianni Sartori

Cominciamo con la notizia dell’avvenuta liberazione, il 7 marzo,del professore di inglese dell’Università di Delhi Gokarakonda Naga Saibaba. Rinchiuso nel carcere di Nagpur dal 2017, ne è finalmente uscito dopo che l’Alta Corte di Bombay ha annullato la precedente condanna. Ritenendo evidentemente inconsistenti (“non motivate”) le accuse nei suoi confronti di “cospirazione” per i presunti legami con il Partito comunista dell’India-maoista (clandestino).

Condannato da un tribunale del distretto di Gadchiroli (Maharashtra), aveva già scontato due anni tra il 2014 e il 2016. Nuovamente uscito dal carcere, si diceva, ma in sedia a rotelle. A causa del suo stato di salute, peril momento non ha lasciato dichiarazioni ai giornalisti che lo attendevano fuori dalla prigione. Riservandosi di parlare soltanto dopo adeguati trattamenti sanitari.

La sua vicenda detentiva risulta alquanto travagliata. Se non proprio un calvario, perlomeno un’odissea.

Per esempio il 14 ottobre del 2022 l’Alta Corte di Bombay ne decretava il rilascio, ma nemmeno 24 ore dopo la Corte suprema sospendeva l’ordinanza. Rigettando anche la richiesta di arresti domiciliari per ragioni di salute (nonostante venisse qualificato come handicappato fisico al 90%, si muovesse in sedia a rotelle e avesse contratto per due volte il Covid-19).

Insieme a lui nel 2017 erano state condannate all’ergastolo, in base alla legge sulla prevenzione delle attività illegali- (UAPA), altre cinque persone (tra cui Mahesh Tirki, Prashant Rahi, Hem Mishra e Pandu Narote, in seguito decedute durante la detenzione).

Per protesta contro il rifiuto da parte della direzione del carcere di consentirgli di accedere a cure essenziali, il 21 ottobre 2020 Saibaba era entrato sciopero della fame. Contestando inoltre la proibizione di consultare libri e lettere dei familiari.

Decretandone la rimessa in libertà, l’Alta Corte ha voluto specificare che alcuni documenti e dati elettronici dei condannati ne suggerivano al massimo la natura di semplici “simpatizzanti della filosofia maoista”.

Con buona pace digli altri imputati che nel frattempo hanno perso la vita dietro le sbarre.



Altra questione quella dell’intervento dell'arcivescovo maggiore siro-malabarese Raphael Thattil in merito al presunto aumento di “attacchi di animali selvatici” a causa dei quali alcune persone hanno perso la vita .

Un vero e proprio atto d’accusa contro alcuni provvedimenti protezionistici governativi in quanto espressione di “un approccio al problema che non dà valore alla vita umana rispetto a quella animale”.

Senza peraltro specificare quando “l’attacco” provenisse inizialmente da cacciatori - o bracconieri che dir si voglia (pratica alquanto diffusa, in particolare ai danni di elefanti, rinoceronti e tigri).

Tra i casi denunciati, due episodi accaduti il 5 marzo nel Kerala (rispettivamente a Thrissur e Kozhikode) dove una donna sarebbe morta calpestata da un grosso animale (si presume un elefante) mentre un uomo sarebbe deceduto dopo essere stato incornato da un grosso bovino (definito dalle agenzie un “bisonte”, ma probabilmente un bufalo).

Il giorno prima un’altra donna veniva calpestata da un elefante a Kanjiraveli. Quasi contemporaneamente un branco di elefanti sarebbe entrato nell’abitazione di un responsabile della Athirappilly Plantation Corporation danneggiando la mobilia (addirittura!?!).


Altri episodi simili erano avvenuti nelle settimane precedenti a Wayanad, Idukki, Ernakulam e Thrissur.

Già in precedenza l’arcivescovo maggiore della Chiesa siro-malabarese Raphael Thattil aveva dichiarato che “ la perdita di vite umane a causa di attacchi di animali selvatici non può essere giustificata”.

Definendo le politiche governative a tutela di tigri e di elefanti (in via di estinzione, ricordo) “una vergogna per lo Stato”. Chiedendo non meglio precisati “piani speciali per garantire la sicurezza delle persone che vivono nelle aree collinari del Kerala”.

Stando ai dati a disposizione negli ultimi otto anni sarebbero circa 900 le persone che hanno perso la vita a causa degli animali selvatici. Senza però specificare quanti casi siano legati alla caccia, ossia alla razione difensiva dell’animale. La maggior parte dei casi sono localizzati in aree boschive o in prossimità di recenti insediamenti che vengono a invadere ulteriormente i residui territori meno antropizzati dove gli animali superstiti trovano rifugio. Per non parlare delle multinazionali, delle politiche estrattive etc che deturpano e degradano definitivamente le aree naturali.

Tanto per fare un confronto nello stesso periodo in India si sono verificati oltre 900mila decessi per incidenti stradali.

Calcolando una media di 110mila all’anno (ma nel 2022 erano stati 170mila e ben 212mila nel 2020).

Anche se nella critica alla “colpevole” politica governativa di salvaguardia e protezione per la fauna selvatica colgo un sottinteso (la richiesta neanche tanto velata di sistematici abbattimenti preventivi), non intendo qui discutere la buona fede dell’arcivescovo e la sua sincera preoccupazione per la vita umana. Tantomeno riaprire una sterile contrapposizione tra “antropocentrico” e “antispecismo” (“animalismo”?).

Dico soltanto che forse l’alto prelato dovrebbe prima interrogarsi - e preoccuparsi - su altre questioni che rendono incerta, precaria - talvolta indegna - la vita quotidiana della popolazione. Questioni legate allo sfruttamento, all’inquinamento, all’oppressione (vedi dalit e adivasi, ma non solo). O magari alla condizione femminile…

Del resto, di che si preoccupa sua eminenza?

In India c’è già chi si impegna - fin troppo - in oggettiva sintonia con le sue richieste. Bande organizzate di bracconieri che imperversano sterminando quanto sopravvive nelle residue foreste indiane.

Da qualche anno, per esempio, è in atto un’autentica strage di elefanti selvatici. Sia con le classiche fucilate, sia utilizzando recinti elettrificati in cui imprigionarli prima di abbatterli. Ancora peggiore poi la situazione del Rhinoceros unicornis. Non solamente per il bracconaggio, ma in quanto più sensibile ai cambiamenti climatici.


Quanto alle tigri (di cui la caccia venne proibita in India nel 1972) ormai ne sopravvivono più in cattività che in libertà. In India (di fronte a oltre 1,4 miliardi di umani) circa tremila esemplari del maestoso felino (4500 sull’intero pianeta secondo il WWF). Teoricamente il doppio rispetto a quindici anni fa (grazie alle politiche governative di tutela), ma ben poca cosa se pensiamo che ancora un secolo fa (dopo le stragi di decine di migliaia dell’800) ne rimanevano ancora circa 100mila.*

A determinarne il declino, oltre alla caccia, l’esponenziale perdita di habitat conseguenza dell'intensificarsi della deforestazione. Per l’estendersi di coltivazioni, infrastrutture, metropoli. Oltre alla generale, devastante espansione - metastasi ? -delle attività estrattive e industriali.

E’ questo il pianeta che vogliamo? Un mondo totalmente antropizzato dove a nessuna creatura sia ancora consentito vivere allo stato brado? Non è che semplicemente stiamo segando il ramo su cui siamo accovacciati?

Gianni Sartori





*Nota 1:

Come scrivevo in “epoca non sospetta” (febbraio 2011):

“Confrontando una carta tematica sulla densità della popolazione in Indonesia (Le Monde diplomatique, novembre 2010) e una carta dell’Asia sulla diffusione della tigre (Ouest France, 28 novembre 2010), salta agli occhi un particolare inquietante. Delle tre sottospecie estinte, due vivevano in Indonesia.
La tigre di Giava è scomparsa da 30-40 anni, mentre quella di Bali, la più piccola delle tigri, circa 70 anni fa. Le due aree dell’Indonesia più abitate sono appunto le isole di Giava (su cui vive due terzi della popolazione del paese) e di Bali con oltre 500 abitanti per Kmq. Dove la densità è minore, come a Sumatra (da 30 a 100 per Kmq) e nel Borneo (diviso tra Indonesia e Malesia, meno di 30 per Kmq) qualche tigre riesce ancora a sopravvivere. A Sumatra ne rimangono in libertà circa 400 esemplari, mentre le tigri della Malesia (in realtà del Borneo) superstiti sarebbero tra 200 e 400. Altrove le cose non vanno meglio per il maestoso felino. Per esempio, nella regione del Grande Mekong gli esemplari di Panthera tigris sono circa 350. Dieci anni fa erano quattro volte di più.
Si calcola che agli inizi del 1900 vivessero in libertà più di 100mila esemplari. Oggi, dopo un secolo, arrivano a malapena a 3200. Un convegno internazionale ha riunito a San Pietroburgo, dal 21 al 24 novembre 2010, tredici nazioni che ancora ne ospitano: Russia, Thailandia, Vietnam, Bangladesh, Bhutan, Birmania, Cambogia, India, Cina, Laos, Indonesia, Nepal e Malesia. Qualche altro esemplare potrebbe sopravvivere nella fascia smilitarizzata tra le due Coree. La speranza del Global Tiger Recovery Program è di raddoppiare il numero delle tigri entro il 2022. Due le priorità: proteggere l’ambiente (ormai ridotto al 7% di quello originario ed estremamente frammentato) e combattere il bracconaggio. L’associazione Wildlife Conservation Society ha individuato 42 siti dove ancora l’animale si riproduce. La maggior parte in India, Sumatra e nell’Est della Russia. Una delle sei sottospecie, la tigre siberiana, negli anni sessanta era ridotta a 80-100 esemplari. Dopo il 1989 la situazione rischiava di precipitare. Alcune agenzie turistiche organizzavano battute di caccia dagli elicotteri per miliardari e ricchi mafiosi. Attualmente, grazie ad una severa politica protezionistica, le tigri siberiane in libertà sarebbero quasi 500. Chiamata anche “tigre dell’Amur” (dal nome del fiume presso cui vive), è il più grande felino esistente. Il maschio misura più di tre metri di lunghezza e pesa 300 kg. In Cina la tigre non sarebbe più stata avvistata da esperti e studiosi da almeno 30 anni. Si calcola che ne restino in circolazione meno di una cinquantina. Con ogni probabilità sarà la prossima a sparire.
Brutti pronostici anche per le tigri dell’India, vittime del 54% degli atti di bracconaggio per rifornire i consumatori cinesi della medicina tradizionale. Sviluppo industriale, costruzione di dighe e apertura di miniere hanno prodotto effetti devastanti. Le 40mila tigri ancora presenti nel 1947, si erano ridotte a 3700 nel 2002. Oggi in tutta l’India non sarebbero più di 1500. La tigre del Caspio è la terza sottospecie già estinta. Dal pelame chiaro (come la siberiana, ma più piccola), la più occidentale delle tigri è scomparsa versoio 1970. Per sempre.


Gianni Sartori (su “A, Rivista anarchica n. 359, febbraio 2011)

Gianni Sartori - 8/3/2024 - 13:07




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